Corte di Cassazione
Sezione lavoro
Sentenza 23 gennaio 2008, n. 1431
Presidente Senese – Relatore Nobile Pm Matera – conforme – Ricorrente XYXYXY – Controricorrente .... ed altro
Svolgimento del processo
Con
ricorso del 7-11-1997 XYXYXY XYXYXY esponeva: di aver svolto, alle
dipendenze della P. ,,,,s.p.a., mansioni di sovrintendenza all'intero
progetto per la sperimentazione della ..... nell'ambito della divisione
E. ; di avere segnalato al suo diretto superiore, ... XYXYXY , alcune
irregolarità in ordine ai contratti in essere tra la società e la ..... ;
di aver ricevuto, per contro, dal XYXYXY la richiesta di lunghi
chiarimenti scritti, rivolti ad intimidirla; di essere stata, al rientro
dalle ferie, prima tenuta del tutto inattiva e poi assegnata a mansioni
sostanzialmente fittizie; di aver ricevuto contestazione disciplinare
in data 6-10-1997 attinente alla sua attività di informazione
dell'azienda ed a colloqui avuti al riguardo con il dott. B. , superiore
funzionale del Direttore della E. ; di essere stata, dopo aver fornito
le proprie repliche alla società, licenziata con effetto immediato con
nota del 20-10-1997.
Ciò
premesso la XYXYXY impugnava il licenziamento intimatole chiedendo la
condanna della società alla reintegra nel posto di lavoro e al
risarcimento dei danni e la condanna del XYXYXY al risarcimento di tutti
i danni materiali e morali per le vessazioni e le prevaricazioni alle
quali era stata sottoposta. Instauratosi il contraddittorio, si
costituivano i resistenti, contestando il fondamento della domanda e
chiedendo, in via riconvenzionale, il risarcimento dei danni derivanti
dal comportamento della XYXYXY .
Il
Pretore di Roma, con sentenza in data 26-10-1998, dichiarava la
illegittimità del licenziamento, ordinava la immediata reintegrazione
nel posto di lavoro, condannava la società al risarcimento del danno da
liquidare in misura pari alle retribuzioni globali di fatto dal
licenziamento alla reintegra e rigettava le ulteriori domande
risarcitorie.
Avverso
tale decisione proponevano appello sia la società che la lavoratrice.
Instauratosi il contraddittorio, ciascuna di tali parti si costituiva,
resistendo al gravame proposto nei propri confronti; il XYXYXY si
costituiva nel solo gravame proposto dalla XYXYXY .
Riuniti
gli appelli, il Tribunale di Roma, con sentenza depositata il
18-3-2004, in parziale riforma della impugnata sentenza, rigettava le
domande proposte in primo grado dalla XYXYXY e condannava quest'ultima a
restituire alla società la somma di Euro 18.264,29, oltre interessi dai
pagamenti al saldo, nonché a rimborsare alla società le spese del
doppio grado e al XYXYXY quelle di appello.
In
sostanza il Tribunale, dopo aver ricostruito i fatti emersi, osservava
che la lavoratrice non si era limitata ad informare la società di
presunte irregolarità commesse, ma era andata "ben oltre....".
Valutata,
quindi, la gravità del comportamento della lavoratrice sotto vari
aspetti e nelle varie ripercussioni, anche a prescindere dalla effettiva
sussistenza delle irregolarità dalla stessa denunciate, il Tribunale
affermava che in tale situazione non era senz'altro possibile la
prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto di lavoro, essendo venuto
meno il vincolo di fiducia necessario.
Il
Tribunale, inoltre, rigettava le domande risarcitorie proposte dalla
XYXYXY (quella nei confronti della società in conseguenza del rigetto
della domanda sulla illegittimità del licenziamento e quella nei
confronti del XYXYXY perché del tutto generica).
Per
la cassazione della detta sentenza ha proposto ricorso la XYXYXY con
quattro motivi. La ....r.l. e il XYXYXY hanno resistito ciascuno con
proprio controricorso. La società ha altresì depositato memoria ex art.
378 c.p.c.
Motivi della decisione
Con
il primo motivo la ricorrente, denunciando "violazione e falsa
applicazione dell'art. 7 della legge n. 300 del 1970 e dell'art. 53 del
c.c.n.l.", in sostanza lamenta la tardività della contestazione del
6-10-1997, in quanto riferita a "tre distinte ed autonome pretese
mancanze disciplinari, avvenute la prima in data 20-1-1997, la seconda
in data 29-4-1997 e la terza in data 14-8-1997". In particolare la
XYXYXY deduce di aver eccepito la mancata tempestività della
contestazione sia nel ricorso introduttivo del giudizio sia nelle note
autorizzate in primo grado.
Il
motivo è inammissibile. Della questione non vi è traccia nella sentenza
impugnata, né la ricorrente indica in alcun modo se, con quale atto e
in che termini la questione stessa sia stata eventualmente riproposta in
grado di appello. In tema questa Corte ha ripetutamente affermato che
"nel giudizio di cassazione è preclusa alle parti la prospettazione di
nuove questioni di diritto o nuovi temi di contestazione che postulino
indagini ed accertamenti di fatto non compiuti dal giudice di merito, a
meno che tali questioni o temi non abbiano formato oggetto di gravame o
di tempestiva e rituale contestazione nel giudizio di appello" (v. Cass.
27-8-2003 n. 12571, Cass. 5-7-2002 n. 9812, Cass. 9-12-1999 n. 13819).
Nel contempo è stato anche precisato che "nel caso in cui una
determinata questione giuridica, che implichi un accertamento di fatto,
non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il
ricorrente che proponga la suddetta questione in sede di legittimità,
alfine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della
censura, ha l'onere di allegare l'avvenuta deduzione della questione
innanzi al giudice di merito, indicando altresì in quale atto del
giudizio precedente lo abbia fatto, così da permettere alla Corte di
Cassazione di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione,
prima di esaminare nel merito la questione stessa" (v. Cass. 15-2-2003
n. 2331, Cass. 10-7-2001 n. 9336). Peraltro per superare la presunzione
di rinuncia e, quindi, la decadenza ex art. 346 c.p.c., è necessario che
"la parte vittoriosa in primo grado, che abbia però visto respingere
taluna delle sue tesi od eccezioni, ovvero taluni dei suoi sistemi
difensivi" manifesti "in maniera esplicita e precisa la propria volontà
di riproporre la domanda o le eccezioni respinte" (v. fra le altre Cass.
17-12-1999 n. 14267, Cass. sez. I 20-7-2004 n. 13401). Orbene nel caso
in esame la XYXYXY lamenta in questa sede la mancata tempestività della
contestazione, richiamando semplicemente un generico accenno della
narrativa del ricorso di primo grado ("non si possono avanzare
contestazioni per fatti avvenuti svariati mesi prima") e le note
autorizzate (dove si invocava espressamente il principio di immediatezza
della contestazione), ma nulla specifica in ordine ad una chiara e
precisa riproposizione della relativa questione in appello.
Con
il secondo motivo la ricorrente, denunciando formalmente un
"travisamento dei fatti", in sostanza lamenta che la impugnata decisione
sarebbe stata fondata su insussistenti elementi probatori ed in specie
sulla nota della ("coinvolta") XYXYXY (che "avrebbe dovuto essere,
tutt'al più, oggetto di prova orale" - sulla cui richiesta istruttoria,
però, nulla viene specificato -) nonché sui "non utilizzabili"
"affidavit" a firma dei dirigenti inglesi (di cui al terzo motivo). La
ricorrente riportandosi, poi, alla propria ricostruzione dei fatti
contenuta nel ricorso introduttivo, lamenta che la stessa sarebbe stata
"ignorata" dai giudici di appello e ribadisce la propria tesi circa una
"lunga serie di vessazioni e di prevaricazioni" subite, fonte di
"pregiudizio in re ipsa".
Anche
tale motivo è inammissibile, non solo per come risulta formulato bensì
anche per come si sviluppa in sostanza la censura. Innanzitutto è
consolidato il principio secondo cui il (vero e proprio) travisamento
dei fatti non può costituire motivo di ricorso per cassazione,
costituendo un errore denunciabile con il mezzo della revocazione ex
art. 395, n. 4, c.p.c, (v. Cass. sez. II 30-1-2003 n. 1512, Cass. sez.
III 18-11-2004 n. 21870, Cass. sez. III 29-7-2004 n. 14482, Cass. sez.
III 20-7-2004 n. 13452, Cass. sez. III 27-4-2004 n. 7980, Cass. 1-4-2005
n. 6894). Questa Corte ha, poi, ripetutamente chiarito che "il vizio di
motivazione su un punto decisivo, denunciabile per cassazione ai sensi
dell'art. 360 n. 5 c.p.c., postula che il giudice di merito abbia
formulato un apprezzamento, nel senso che, dopo aver percepito un fatto
di causa negli esatti termini materiali in cui è stato prospettato dalla
parte, abbia omesso di valutarlo in modo che l'omissione venga a
risolversi in un implicito apprezzamento negativo sulla rilevanza del
fatto stesso, ovvero lo abbia valutato in modo insufficiente o illogico.
Qualora, invece, l'omessa valutazione dipenda da una falsa percezione
della realtà, nel senso che il giudice ritiene per una svista,
obiettivamente ed immediatamente rilevabile, inesistente un fatto o un
documento, la cui esistenza risulti incontestabilmente accertata dagli
stessi atti di causa, è configurabile un errore di fatto deducibile
esclusivamente con l'impugnazione per revocazione ai sensi dell'art. 395
n. 4 c.p.c." (v. Cass. sez. III 27-7-2005 n. 15672, Cass. sez. III
18-1-2006 n. 830, Cass. sez. III 2-3-2006 n. 4660, Cass. 25-8-2006 n.
18498, Cass. S.U. 20-6-2006 n. 14100). In ordine al primo vizio, poi, è
stato più volte precisato che "il controllo di logicità del giudizio di
fatto, consentito dall'art 360 n. 5 c.p.c, non equivale alla revisione
del "ragionamento decisorio", ossia dell'opzione che ha condotto il
giudice del merito ad una determinata soluzione della questione
esaminata, posto che una simile revisione, in realtà, non sarebbe altro
che un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua
nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata
dall'ordinamento al giudice di legittimità; ne consegue che risulta del
tutto estranea all'ambito del vizio di motivazione ogni possibilità per
la Suprema Corte di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso
la autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa",
(v., fra le altre, da ultimo Cass. 7-6-2005 n. 11789). Del resto l'art.
360 n. 5 c.p.c. "non conferisce alla Corte di Cassazione il potere di
riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di
controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza
giuridica, l'esame e la valutazione fatta dal giudice del merito al
quale soltanto spetta individuare le fonti del proprio convincimento, e,
all'uopo, valutarne le prove, controllarne l'attendibilità e la
concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute
idonee a dimostrare i fatti in discussione " (v. Cass. S.U. 11-6-1998 n.
5802), non incontrando, al riguardo, lo stesso giudice, "alcun limite
che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza
essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le
deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i
rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono
logicamente incompatibili con la decisione adottata" (v. fra le altre
Cass. 7-8-2003 n. 11933). Orbene, nella fattispecie, la impugnata
sentenza da un lato non ha affatto ignorato la tesi attorea, dall'altro
ha ricostruito i fatti in base al complesso degli elementi emersi (non
solo la nota della XYXYXY e gli "affidavit" citati, bensì anche l'esito
ultimo degli accertamenti all'uopo disposti dalla società nonché il
comportamento complessivo della XYXYXY , culminato nella reiterata
mancata collaborazione "al fine di consentire di fare piena luce sulla
vicenda" e valutato nella sua gravità, oggettiva e soggettiva, a
prescindere finanche dalla eventuale "esistenza effettiva delle
irregolarità denunciate" dalla stessa XYXYXY ), il tutto con motivazione
congrua e priva di vizi logici, a fronte della quale, nella sostanza,
la ricorrente si limita soltanto a contrapporre la propria valutazione
delle risultanze di causa.
Con
il terzo motivo la ricorrente, denunciando violazione e falsa
applicazione degli artt. 2721 e seguenti c.c, per quanto riguarda gli
"affidavit" citati, deduce che la normativa di cui ai detti articoli del
c.c. non consente "di surrogare le prove per testi, assunte - con il
rigore di forma previsto - dal magistrato, con dichiarazioni rese
aliunde, anche se in forma più o meno solenne "e, per quanto concerne la
nota della XYXYXY , afferma che trattandosi di un documento proveniente
da una terza parte, della quale si era rilevato l'interesse al giudizio
e, comunque, immediatamente contestato, non si vede come, in violazione
a qualsivoglia norma sull'assunzione delle prove, il Tribunale di Roma
abbia potuto basare su di esso la sua decisione".
Il
motivo è in parte inammissibile e in parte infondato. In primo luogo la
ricorrente non specifica se e in che termini avesse chiesto al
riguardo, in particolare, una prova testimoniale, che possa essere
stata, in sostanza, "surrogata" dal Tribunale. La valutazione, poi, dei
detti documenti, è stata inserita dai giudici di appello nel quadro
complessivo dell'esame delle risultanze di causa" è ciò del tutto
legittimamente. Nell'ordinamento processuale vigente, infatti, "in forza
del principio di cui all'art. 116 cod. proc. civ., il giudice può
legittimamente porre a base del proprio convincimento anche prove
cosiddette atipiche, purché idonee a fornire elementi di giudizio
sufficienti, se ed in quanto non smentite dal raffronto critico con le
altre risultanze del processo, con il solo limite di dare congrua
motivazione dei criteri adottati per la sua valutazione" (v. Cass.
27-3-2003 n. 4666). In particolare questa Corte (v. Cass. sez. III
26-9-2000 n. 12763, v. anche Cass. 27-3-2003 n. 4666) ha anche precisato
che "gli scritti provenienti da terzi, pur non avendo efficacia di
prova testimoniale, non essendo stati raccolti nell'ambito del giudizio
in contraddittorio delle parti, né di prova piena, sono rimessi alla
libera valutazione del giudice del merito, e possono, in concomitanza
con altre circostanze desumibili dalla stessa natura della controversia,
fornire utili elementi di convincimento, specie ove di essi sia stata
provata la veridicità formale" (nella fattispecie non contestata).
Con
il quarto motivo, infine, la ricorrente, denunciando un vizio di
motivazione, lamenta che la sentenza di appello, a differenza della
sentenza di primo grado, avrebbe trascurato di considerare le
prescrizioni del regolamento interno che, secondo il primo giudice,
legittimavano pienamente il comportamento contestato e posto a base del
licenziamento.
La censura è infondata.
La
sentenza impugnata, non solo non ha affatto ignorato il citato
regolamento interno, ma ha anche motivato congruamente le ragioni del
proprio dissenso rispetto alla valutazione fatta dal giudice di primo
grado. In particolare, infatti, i giudici di appello hanno osservato che
"il lavoratore, dunque, nel caso in esame, non sì è limitato ad
informare la società di presunte irregolarità commesse, come prescritto
dal manuale aziendale di condotta prodotto in atti. Egli è andato ben
oltre, insultando apertamente un superiore mediante comunicazione a
dirigenti dell'azienda, insinuando reiteratamente sospetti sul suo
operato, rifiutando di collaborare al fine di consentire di fare piena
luce sulla vicenda, nonostante la richiesta di messa a disposizione dei
documenti in suo possesso e di invio di nota esplicativa sulle
irregolarità denunciate; comportamento quest'ultimo tanto più
ingiustificato a fronte del comportamento della società, che aveva
prontamente avviato i dovuti accertamenti, terminati con il riscontro
della insussistenza delle irregolarità denunciate".
Il ricorso va pertanto respinto.
Infine, in considerazione dell'esito alterno dei giudizi di merito, le spese vanno equamente compensate tra le parti.
PQM
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese.
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