Polizia di Stato - Decadenza dall'impiego per assenza immotivata dall'impiego per oltre 15 gg
IMPIEGO PUBBLICO
Cons. Stato Sez. VI, 08-03-2010, n. 1320 |
Svolgimento del processo
Con la decisione in epigrafe appellata il Tar ha respinto il ricorso di primo grado con il quale era stato chiesto dall' odierna parte appellante -in qualità di ex assistente della Polizia di Stato, da ultimo in servizio presso la Questura di Roma - l'annullamento del decreto, notificato il 21.10.2002, a firma del Capo della Polizia, con cui questi è stato dichiarato decaduto dall'impiego con accessiva cessazione dal servizio a decorrere dal 31.3.2002, (data a partire dalla quale si è assentato dal servizio) in applicazione dell'art.127 lett.c) del d.P.R. n.3 del 1957, con richiesta di recupero delle somme eventualmente corrisposte al predetto dal 31.3.2002.
Era stato esposto nel mezzo introduttivo del ricorso di primo grado che l'odierno appellante era seriamente sofferente di gravi disturbi psichici la cui causa era addebitabile ad un incidente stradale occorsogli nel 1997 -durante il servizioed alla avvenuta separazione dalla consorte risalente al 1998.
Tale stato di prostrazione, (successivamente sfociato in un "delirio acuto di tipo persecutorio" che ne aveva imposto il ricovero coatto presso una struttura psichiatrica pubblica a partire dal 10.6.2002- ricovero proseguito sino al 14.10.2002, data in cui era stato dimesso con terapia psichiatrica e farmacologia), avrebbe reso illegittimo il provvedimento di decadenza impugnato (che, ex lege, dovrebbe rinvenire il suo presupposto fondante nella protratta assenza della prestazione lavorativa "senza giustificato motivo").
Tale atto era dunque ritenuto affetto da violazione dell'art.127 lett.c) del d.P.R. n.3 del 1957 e del d.lgs. n.165 del 2001, eccesso di potere per sviamento e disparità di trattamento oltre che da vizi sintomatici della motivazione.
Con la sentenza in epigrafe il Tar ha reputato legittimo il provvedimento con il quale l'odierno appellante è stato dichiarato decaduto dall'impiego a causa dell'assenza dal servizio immotivatamente protrattasi per oltre 15 giorni a partire dal 31.3.2002, avendo rilevato che, prima di tale data, il @@@@@@@ (il 26 marzo 2002) si era presentato in Ufficio consegnando un certificato del medico curante (con prognosi richiedente due giorni di riposo) ed un'istanza di dimissioni dal servizio priva della data di decorrenza che si riservava di comunicare.
Egli, peraltro, il 27 marzo 2002 aveva ripresentato altro certificato medico con prognosi di 12 giorni che veniva convalidato dal Sanitario della P.S. solo per tre giorni e, successivamente al 31.3.2002, era rimasto assente dal servizio senza comunicare alcunché fino al 02.5.2002(data in cui si era recato in Ufficio per comunicare di ritenersi cessato dall'impiego nell'occasione depositando in uno scaffale l'arma in dotazione ed il documento di riconoscimento).
Ciò posto, il Tar ha confutato il petitum defensionale secondo cui l'aggravarsi dello stato psichico del dipendente doveva ricollegarsi storicamente alla data del gennaio 2002 traendone riferimento nella "scheda raccolta delle notizie essenziali" compilata alla data del primo ricovero coattivo (10.6.2002).
Tale circostanza, secondo quanto esposto nel ricorso di primo grado, avrebbe documentato l'assenza, "incolpevole" del C. dal servizio e la presenza di una giustificazione della stessa (dovuta alla presenza, sin da tale data, di uno squilibrio mentale successivamente aggravatosi).
I primi Giudici, sul punto, hanno rilevato invece che il dato anamnestico suindicato, facente parte della scheda anamnestica redatta alla data di ingresso del paziente nella struttura sanitaria ove venne coattivamente ricoverato non costituiva all'evidenza frutto di un giudizio tecnico scientifico volto ad individuare la certa, o quantomeno probabile, data di inizio delle manifestazioni di alterazione dell'equilibrio psichico del paziente.
Esso era peraltro smentito dai contenuti del diario redatto, sotto la data del 10.6.2002, dal sanitario che prese in cura l'infermo e nel quale si sottolinea che "il delirio di tipo sostanzialmente persecutorio si sarebbe sviluppato da circa un mese...".
Ne discendeva quindi che poteva considerarsi provato che certamente nel mese precedente il ricovero l'appellante versava in uno stato di grave perturbamento psichico tale da menomare gravemente le proprie facoltà intellettive e la connessa consapevolezza delle conseguenze delle proprie azioni.
Ciò però, secondo il Tar, non autorizzava a sostenere che un perturbamento di analoga gravità fosse presente nel periodo dall'1.4.2002 al 15.4.2002 (primi quindici giorni di assenza dal servizio poi protrattasi sino al 2 maggio dello stesso anno).
Sotto altro profilo, una situazione di tal natura appariva esclusa dalla circostanza che il C. aveva presentato, oltre alla lettera di dimissioni, un primo certificato medico con prognosi di due giorni di riposo ed, il giorno successivo, altro certificato con prognosi di dodici giorni convalidato dal Sanitario della P.S. (all'evidenza a seguito di visita di controllo) per soli tre giorni.
Tale periodo di riposo era manifestamente incompatibile con i tratti di uno stato psichico (che avrebbe dovuto essere già) seriamente e visibilmente compromesso da almeno tre mesi (gennaio 2002).
Infine, la doglianza rassegnata nella memoria depositata il 22.2.2008 sostanziantesi nella affermazione della necessità (alla luce delle peculiari circostanze connotative della fattispecie) dell'inoltro da parte dell'amministrazione di una preventiva diffida al lavoratore a rientrare in servizio, si risolveva in un motivo nuovo che - impregiudicata ogni disquisizione sulla sua fondatezza o meno - era inammissibile in quanto irritualmente introdotto con memoria e non con atto debitamente notificato alla resistente amministrazione.
L'odierna parte appellante ha censurato la predetta sentenza chiedendone l'annullamento in quanto viziata da errori di diritto ed illegittima riproponendo sostanzialmente le tematiche già contenute nel ricorso di primo grado e ripercorrendo le tappe salienti della carriera sino al 2002 percorsa dall'appellante.
I Giudici di prime cure non avevano valutato che i fatti successivi al maggio 2002 occorsi all'appellante erano dimostrativi di una patologia insorta in precedenza, e ricomprensiva del periodo di "ingiustificata" assenza. La difesa di parte appellante ha all'uopo citato l'anamnesi del ricovero del 10.6.2002 presso l'ospedale Belcolle di Viterbo da cui si evinceva che l'insorgere della patologia rimontava al gennaio 2002 (pag. 4 del ricorso in appello, ultimo cpv).
Era mancata in capo all'appellante la consapevolezza dell'assenza e l'amministrazione aveva applicato un automatismo non giustificabile secondo l'interpretazione orientata dell'art. 127 del TU n. 3/1957: egli non era stato neppure sottoposto a visita medica specialistica dall'amministrazione (pag. 12 del ricorso in appello); si è ignorato che era stato sottoposto a due TSO, uno dei quali, nel giugno 2002, a seguito di crisi insorta proprio mentre si trovava nei locali della questura di Viterbo (il secondo TSO datava 10.9.2002): ove ritenuto necessario, mercè consulenza tecnica detti fatti potevano essere accertati riconoscendo l'esattezza della tesi difensiva.
La censura relativa all' omesso inoltro di preventiva diffida da parte dell'amministrazione, poi, erroneamente non era stata esaminata dai primi Giudici: essa non integrava "motivo nuovo", in quanto introdotta nel giudizio di primo grado con memoria dalla difesa erariale.
L'appellata amministrazione si è costituita depositando una articolata memoria e chiedendo la reiezione del gravame in quanto generico ed infondato.
Ogni garanzia procedimentale era stata rispettata, ex art. 7 della legge n. 241/1990: le "giustificazioni" dell'assenza erano successive alle contestazioni; si risolvevano in affermazioni generiche e non provate.
Motivi della decisione
La sentenza deve essere confermata previa declaratoria di infondatezza dell'appello.
La disposizione di cui all'art. 127 del DPR n. 3/1957 alla lett. c prevede che il pubblico dipendente incorra nella decadenza dall'impiego allorchè,
senza giustificato motivo, non assuma o non riassuma servizio entro il termine prefissogli, ovvero rimanga assente dall'ufficio per un periodo non inferiore a quindici giorni ove gli ordinamenti particolari delle singole amministrazioni non stabiliscano un termine più breve.
Sotto il profilo oggettivo non è contestabile che detto accadimento si sia ampiamente verificato nel caso di specie: l'appellante si assentò nel periodo che va dall'1.4.2002 sino al 2.5. 2002.
Appare poi rilevante - ed esattamente il Tar ha posto in risalto la relativa questione - che immediatamente prima rispetto a tale (prolungata ben oltre i 15 giorni che costituiscono il parametro temporale minimo previsto dalla norma) assenza, l'appellante produsse ben 2 certificati medici (un primo certificato medico con prognosi di due giorni di riposo ed, il giorno successivo, altro certificato con prognosi di dodici giorni convalidato dal Sanitario della P.S. -all'evidenza di seguito a visita di controlloper soli tre giorni.
Egli quindi, immediatamente prima di assentarsi: fu visitato almeno da due medici (il redattore dei certificati ed il sanitario della PS) e fu da costoro esclusa (o, quantomeno, non affermata) qualsivoglia patologia che potesse far preconizzare la riconducibilità della successiva assenza a problematiche psichiche.
La giurisprudenza amministrativa, come è noto, ha avuto modo di soffermarsi sulla disposizione applicabile alla fattispecie ed è pervenuta alla condivisibile affermazione per cui "il provvedimento di decadenza dall'impiego, ai sensi dell'art. 127 lett. c) d.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3 (t.u. imp. civ. St.), è collegato all'accertamento dell'esistenza della mera situazione di fatto dell'assenza dal servizio dell'impiegato per un periodo di tempo superiore a quindici giorni non autorizzata dall'amministrazione e accompagnata dal rilevabile chiaro intento di abbandono dal servizio, senza che siano possibili tardive giustificazioni del ritardo nella dovuta prestazione della propria opera; trattandosi, pertanto, di un atto vincolato, deve tuttavia rilevarsi che la necessità di un previo atto di diffida è da ritenersi necessario quando dal comportamento dell'impiegato non possa desumersi con certezza l'intenzione di sottrarsi all'obbligo di prestare il servizio ovvero possano sussistere dubbi sull'effettiva volontà del dipendente di abbandonare il posto di lavoro."(Consiglio Stato, sez. IV, 09 agosto 2005, n. 4253)
Ciò perché, si è detto, "le ipotesi disciplinate dall'art. 127 lett. c), d.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3 non prevedono, in via generale, che la declaratoria di decadenza dall'impiego debba necessariamente essere preceduta dalla notificazione di un atto di diffida; tuttavia, la previa notificazione è richiesta nelle ipotesi in cui dal comportamento dell'impiegato non possa desumersi con certezza l'intenzione di sottrarsi all'obbligo di prestare il servizio e cioè la volontà di abbandonarlo, con la conseguenza che non sussiste l'obbligo in tutti i casi in cui l'interessato abbia manifestato con atti concordanti e non equivoci l'intento di non proseguire il rapporto di lavoro." (Consiglio Stato, sez. V, 07 aprile 2003, n. 1833).
Laddove si consideri che l'appellante aveva -antecedentemente all'assenza consegnato una lettera di dimissioni, appare evidente che l'amministrazione non fosse tenuta all'invio della diffida (e ciò in disparte le -pur esatte considerazioni del Tar in ordine alla inammissibilità della censura in oggetto).
A tale ultimo proposito deve evidenziarsi che il ricorso di primo grado non conteneva affatto, tale motivo di censura; né esso "è stato introdotto nel giudizio di primo grado" dalla difesa erariale dell'appellata amministrazione, come affermato da parte appellante (la difesa erariale, invece, si limitò a ricostruire il tessuto normativo che faceva da cornice alle statuizioni amministrative): opera pertanto in materia il condivisibile principio secondo cui "vanno dichiarate inammissibili le censure articolate per la prima volta in appello stante il divieto dello ius novorum che deriva dall'art. 345 c.p.c.(si veda in proposito Consiglio Stato, sez. VI, 22 aprile 2008, n. 1854).
Esattamente, peraltro, anche in primo grado tale profilo di censura fu dichiarato inammissibile in quanto non contenuto nel ricorso di primo grado.
In concreto, peraltro, la questione non appare rilevante: ove si sostenga (come affermato dalla difesa di parte appellante) che questi non era capace di intendere e volere nel torno di tempo in cui si assentò, appare evidente che anche la diffida (e la omessa positiva risposta alla medesima) sarebbe dovuta rientrare nella considerazione complessiva di tale stato psichico del dipendente.
Il problema si sposta allora nella verifica della sussistenza, in atti, di elementi dai quali desumere che l'appellante non era compus sui allorchè produsse la lettera di dimissioni e, di seguitò, si assentò per quasi due mesi dall'impiego.
A tal proposito, è stato in passato osservato che "legittimamente l'amministrazione dichiara decaduto dall'impiego - in applicazione dell'art. 127 lett. c) t.u. 10 gennaio 1957 n. 3 - il dipendente deliberatamente allontanatosi dal servizio per oltre 15 giorni che abbia addotto a sua discolpa una mera dichiarazione di comodo, non suffragata da alcun elemento probatorio (pur rientrante nella disponibilità del ricorrente) concernente una asserita temporanea incapacità di intendere e di volere scaturente da grave sindrome depressiva."(Consiglio Stato, sez. II, 18 maggio 1994, n. 187).
Ritiene in concreto il Collegio che non sussistano gli estremi di tale condizione, assertivamente sostenuta dalla difesa di parte appellante, proprio per la troncante considerazione, giustamente evidenziata dal Tar, per cui egli produsse ben due certificati medici nel torno di tempo immediatamente precedente alla lunga assenza dal posto di lavoro, e in alcuno di essi si faceva menzione di una sì grave e rilevante patologia qual quella ipotizzata dalla difesa.
Peraltro le argomentazioni contenute nel ricorso in appello giungono a conclusioni del tutto non condivisibili allorchè ipotizzano di potere desumere da un (accertato, per il vero) stato patologico cronologicamente successivo, una condizione fisico/psichica risalente ad un periodo pregresso.
Di tali circostanze non è stata fornita la prova e, anzi, sussiste in atti un quadro indiziario contrario a detta prospettazione che, conseguentemente,deve essere respinta con conseguente integrale conferma della appellata decisione.
La sentenza impugnata, conclusivamente, resiste alle censure di cui all'appello che deve essere, pertanto, respinto.
Le spese di giudizio, però, in considerazione soprattutto della natura della controversia azionata, possono essere integralmente compensate fra le parti in lite ricorrendone le condizioni di legge.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione sesta, definitivamente pronunciando sul ricorso in appello in epigrafe lo respinge e per l'effetto conferma l'appellata sentenza.
Spese compensate.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 2 febbraio 2010 con l'intervento dei Signori:
Claudio Varrone, Presidente
Paolo Buonvino, Consigliere
Roberto Garofoli, Consigliere
Roberto Giovagnoli, Consigliere
Fabio Taormina, Consigliere, Estensore
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