Il superiore gerarchico che abbia demansionato un collaboratore è tenuto personalmente al risarcimento del danno.- In base gli articoli 2043 e 2059 cod. civ. (Cassazione Sezione Terza Civile n. 2352 del 2 febbraio 2010, Pres. Di Nanni, Rel. Petti).
RESPONSABILITA' CIVILE - SANITA' E SANITARI
Cass. civ. Sez. III, 02-02-2010, n. 2352
Cass. civ. Sez. III, 02-02-2010, n. 2352
Svolgimento del processo
1. Con citazione del 20 settembre 1991, dinanzi al tribunale di Massa, il Dr. E.S., medico chirurgo, aiuto anziano di ruolo presso la Divisione di Chirurgia Cardio toracica pediatrica dell'Ospedale civile di (OMISSIS), conveniva il Dr. A.G., suo superiore diretto, e ne chiedeva la condanna al risarcimento di tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali, per atti vessatori continuati, posti in essere da detto Primario del reparto, dal (OMISSIS), che avevano impedito al professionista di svolgere attività clinica e di reparto e lo avevano costretto a ricorrere in sede gerarchica e dinanzi al Tar, con conseguente distruzione dell'immagine professionale e dell'avviamento della clientela. Il Prof. A. si costituiva e contestava il fondamento delle pretese, sostenendo di avere esercitato, quale primario del reparto, il potere di vigilanza, e proponeva a sua volta domanda di risarcimento danni. L'attore decedeva in corso di lite e la causa era proseguita dai suoi eredi ( B.A.M., E.G.L. ed E.S. M.).
2. Il Tribunale di Massa, con sentenza del 24 luglio 2001 condannava il Prof. A. al risarcimento dei danni patrimoniali per L. 351.288.000 oltre svalutazione e interessi e poneva le spese di lite a carico del soccombente.
La decisione era appellata dal Prof. A. che ne chiedeva la riforma sia per l'an che per il quantum debeatur; resistevano le controparti chiedendo il rigetto dell'appello.
3. La Corte di appello di Genova con sentenza del 5 maggio 2004 così decideva:
in parziale accoglimento dell'appello riduce ad Euro 3.098,00 il danno patrimoniale, oltre rivalutazione ed interessi; respinge ogni ulteriore domanda attorea; compensa tra le parti le spese dei due gradi del giudizio.
4. Contro la decisione hanno proposto ricorso principali gli eredi E., affidato a due motivi; resiste con controricorso e ricorso incidentale condizionato il Prof. A., che ha prodotto memoria illustrativa.
I ricorsi sono stati previamente riuniti.
Motivi della decisione
5. Il ricorso principale merita accoglimento, dovendosi rigettare il ricorso incidentale, per le seguenti considerazioni.
Precede l'esame del ricorso principale.
5. A. ESAME DEL RICORSO PRINCIPALE (16877-05) EREDI E..
NEL PRIMO MOTIVO si deduce "violazione e falsa applicazione degli artt. 2043 e 2059 cod. civ., in relazione all'art. 2 Cost.".
Si censura in particolare la statuizione della Corte di appello che (ff. 18 a 23 della motivazione) ha escluso la risarcibilità dei danni patrimoniali da illecito aquiliano, sia in relazione al c.d. demansionamento di fatto (art. 2103 cod. civ., fonte di responsabilità contrattuale), sia in relazione al pregiudizio relativo alla drastica riduzione dell'attività professionale privata (cfr. ff. 20 della sentenza), per il difetto del nesso causale tra la condotta del superiore gerarchico e il danno ingiusto.
Quanto al primo profilo di censura, si precisa che la fattispecie dedotta, sin dall'atto introduttivo, concerne illecito aquiliano per una condotta colposa del superiore gerarchico e direttore di reparto, che esclude l'aiuto anziano, per un periodo di cinque anni, da ogni attività di sala operatoria o di responsabilità di reparto, senza tener conto dei provvedimenti del Comitato di gestione e del Tar del Lazio, finalizzati a reintegrare il Dr. E. nelle proprie funzioni e nella dignità professionale. L'illecito continuato ed aggravato da un intento punitivo e di dequalificazione, integra la lesione del diritto fondamentale all'esplicazione della vita professionale del medico chirurgo, specializzato in chirurgia cardio toracica pediatrica e per di più aiuto anziano e tale posizione professionale rientra tra i diritti inviolabili del professionista quale lavoratore ed al rispetto della dignità del lavoratore, tanto più sensibile quanto più alta sia la qualificazione professionale.
Il profilo del denansionamento non è stato dedotto al fine di far valere una specifica domanda di responsabilità contrattuale (posto che non è stato chiamato in lite l'ente ospedaliero datore di lavoro), ma per qualificare la condotta illecita del Primario, che ha compromesso l'attività professionale ospedaliera e privata del suo aiuto e per indicare un parametro equitativo di liquidazione. Si chiede pertanto (ff. 10 del ricorso) il risarcimento integrale e per il danno patrimoniale e per quello non patrimoniale determinato dallo illecito, sia pure nei limiti del chiesto.
Nel SECONDO MOTIVO si deduce "Violazione e falsa applicazione degli artt. 2043 e 2059 c.c., art. 185 c.p.c., art. 323 c.p., sul punto specifico del danno morale: omessa contraddittoria insufficiente motivazione in merito agli elementi probatori da valutarsi nell'indagine circa la sussistenza o meno del dolo di cui all'art. 323 cod. pen.".
Si assume che erroneamente la Corte di appello ha negato il diritto al risarcimento del danno morale da reato, sul rilievo che nel testo dell'art. 323 c.p., vigente al tempo dei fatti, l'abuso di potere richiedeva la prova del dolo, mentre il Dr. A. avrebbe agito (ff. 28 della motivazione della C.App.) in assenza di un dolo intenzionale. Si assume invece che gli elementi probatori acquisiti agli atti (ed indicati nelle lettere da a ad e del ricorso) sono tali da evidenziare la continuità di un disegno criminoso e vessatori, con dolo intenzionale e non soltanto eventuale.
Entrambi i motivi meritano accoglimento ma con alcune puntualizzazioni che si desumono dal preambolo sistematico delle Sezioni Unite 11 novembre 2008 n. 26972, cui questa sezione semplice si ispira ai fini del consolidamento della filonomachia della Corte in tema di diritti umani inviolabili.
Quanto al primo motivo di censura, appare esatto il rilievo che il fatto del dimensionamento non è stato dedotto come elemento strutturale della domanda, che invece è chiaramente posta e qualificata (dalla parte che la deduce e dai giudici che devono considerarla nei limiti della corrispondenza tra il chiesto e pronunciata) come domanda diretta al risarcimento di un danno ingiusto, patrimoniale e non patrimoniale, in relazione ad una fattispecie di illecito complessa, in relazione alla reiterazione di atti di vessazione, che hanno determinato ricorsi gerarchici ed amministrativi e persino procedimenti penali che hanno coinvolto le parti antagoniste.
La Corte di appello, nel negare il danno da demansionamento, sul rilievo che esso riguardava esclusivamente il datore di lavoro (art. 2103 cod. civ.), e nel negare il danno patrimoniale dal lucro cessante, per la riduzione della attività professionale privata (ff.
20 a 22 della motivazione), compie una errata applicazione delle norme richiamate dal ricorrente a sostegno della sua causa petendi e cioè dell'art. 2043 c.c., come clausola generale del neminem laedere e dell'art. 2059 c.c., che non delinea una distinta figura di illecito produttiva di danno non patrimoniale, ma consente la riparazione anche dei danni non patrimoniali, nei casi determinati dalla legge e secondo la letture costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c., come norma deputata alla tutela risarcitoria del danno patrimoniale nella sua più ampia accezione (cfr. SU citata,in preambolo punti 2.2., 2.3., 2.8). In buona sostanza il Dr. E. ha inteso tutelare una posizione di diritto soggettivo, costituzionalmente protetta, in relazione ad una attività professionale altamente qualificata ed esercitata nel campo della cardio chirurgia pediatrica. Il lavoro del professionista rientra in vero negli ambiti degli artt. 1 e 4 Cost., art. 35 Cost., comma 1, secondo le teorie organicistiche e laburistiche anche europee (cfr. art. 15, comma 1 della Carta di Nizza, recepita dal Trattato di Lisbona, e diritto vigente anche per l'Italia), e pone il lavoratore professionista in uno status costituzionalmente protetto, per le connotazioni essenziali e le condizioni di qualificazione e dignità della professione; in altri termini un una posizione soggettiva costituzionalmente protetta.
Pertanto l'accertamento del demansionamento di fatto, per oltre cinque anni, determinato dalle interferenze ostili del Primario, costituisce un elemento strutturale sia della lesione di detta posizione soggettiva (determinando la legittimazione ad agire contro il soggetto agente), sia del danno ingiusto inerente al vulnus della prestazione professionale e dell'esercizio effettivo della qualifica di aiuto anziano; danno ingiusto risarcibile quale danno conseguenza, sia nei suoi aspetti patrimoniali che non patrimoniali, ove determini un pregiudizio che incide sia sulla vita professionale e di relazione del professionista danneggiato, (cfr. in termini Cass. 27 aprile 2004 n. 7980).
Appare dunque illogico applicare ad excludendum un fattore oggettivamente incontroverso (il protratto demansionamento di fatto) come causa di esclusione della esistenza del danno ingiusto; ancor più illogico con riferimento alla perdita della attività e della clientela privata, ancorchè il Dr. E. risultasse oggetto di un procedimento penale per accuse dimostratesi non fondate, in relazione ad addebiti per attività compiute negli anni interessati dal mobbing professionale.
Dovendosi applicare i principi di diritto affermati nelle Sezioni Unite citate, il giudice del rinvio, nell'ambito di una fattispecie di illecito complesso e continuato, ma per episodi concorrenti all'isolamento ed all'emarginazione del lavoratore nell'ambito di prestazioni sanitarie di alta professionalità, l'ingiustizia del danno deriva dalla lesione della sua identità e dignità professionale, ed è stata correttamente chiesta sotto l'aspetto del danno non patrimoniale, in relazione alla gravità della offesa ed alla serietà del pregiudizio (punto 3,11 del preambolo delle SSUU citate). Essendo certo l'an debeatur, la misura del risarcimento resta delimitata dalla statuizione di primo grado, che non è oggetto di censura.
Merita tuttavia accoglimento anche la censura relativa alla mancata liquidazione del danno da lucro cessante per la perdita delle c.d. remunerazioni della clientela privata; qui la voce è stata negata non per la mancata prova della liceità dell'esercizio della libera professione, ma (ff. 23 della sentenza) per la mancata prova dell'esistenza del rapporto eziologico in base "alla mera applicazione del metodo induttivo" ed in presenza della pendenza di un giudizio penale a carico dello sfortunato Dr. E..
Dove il ragionameto "induttivo" è logicamente errato, posto che il professionista non solo ha provato la sua innocenza e qualità professionali, ma ha indicato il soggetto agente, soggettivamente imputabile per colpa lata, secondo i criteri di imputazione soggettiva di cui al citato articolo 2043 del codice civile, e la sequenza causale delle vessazioni impeditive della sua professionalità. Il ragionamento giuridico in termini causalistici era cioè, al contrario, di ordine deduttivo e secondo la sequenza del fattore umano determinante (della condicio sine qua non).
Pertanto il pregiudizio patrimoniale da perdita di chances e di clientela ben poteva essere valutato ricorrendo alle presunzioni e condurre ad una valutazione equitativa tenendo conto della gravità della lesione e della serietà e continuità del pregiudizio.
L'accoglimento di tale articolato motivo di censura richiede cassazione con rinvio, in relazione alla natura contestuale dei darmi, patrimoniali e non patrimoniali, tenendo conto dei limiti del petitum e della natura delle poste patrimoniali e non patrimoniali.
Quanto al secondo motivo di censura, esso attiene essenzialmente all'addebito penale riferibile al Prof. A. di abuso dei poteri di ufficio, per recare danno al medico antagonista, come risulta dalle sentenze penali di condanna (cfr. ff. 24 della sentenza di appello). Si censura in particolare quella parte della motivazione che esclude l'elemento soggettivo del reato ed il difetto di elementi oggettivi in ordine all'elemento del vantaggio o dell'altrui danno (ff. 30 della motivazione della sentenza citata).
Il ricorrente, puntualmente riferisce una serie di episodi di vessazione (ai punti a sino ad e in ricorso) che la Corte di appello non avrebbe considerato, limitandosi a considerare il fatto reato costituente diffamazione avvenuta nella sala operatoria, per cui concede la minor somma di Euro 3.098,74, senza alcuna considerazione della gravità della offesa.
Il secondo motivo, ad avviso di questa Corte, deve essere esaminato congiuntamente al primo, nella misura in cui si deve convenire sul fatto che esso attiene alla denuncia di diritti fondamentali e che anche in assenza di reato e al di fuori dei casi determinati dalla legge, pregiudizi di tipo esistenziale (quale è quello della lesione della dignità professionale e della vita di relazione professionale e scientifica) sono risarcibili purchè conseguenti alla lesione di un diritto inviolabile della persona.
Orbene, anche a voler considerare esaustive le argomentazioni della Corte di appello (ff. 26 a 31 della sentenza) dirette ad escludere il dolo nel reato di abuso di ufficio continuato, resta certo il fatto dannoso da illecito e la imputabilità della condotta per colpa lata in capo al soggetto pervicacemente reiterante le azioni e gli ordini diretti all'isolamento del sottoposto.
Ma poichè la valutazione delle poste non patrimoniali esige una valutazione unitaria (punto 4.8 del preambolo delle SSUU), tale compito viene rimesso al giudice del rinvio, che si atterrà ai criteri di valutazione indicati nella considerazione della gravità delle offese reiterate e nella incisione del diritto protetto oltre la soglia minima, considerando la serietà del pregiudizio e rispettando il principio della integralità del risarcimento (punto 4.8 e 3.11. del preambolo, tra di loro coordinati).
Conclusivamente il PRINCIPIO DI DIRITTO vincolante per il giudice del rinvio è il seguente: "in una fattispecie di rapporto gerarchico professionale, quale è quello che ricorre tra il primario di un reparto ospedaliero di chirurgia pediatrica e l'aiuto anziano già operante nel reparto, rapporto che integra un contatto sociale dove la posizione del professionista dequalificato è presidiata dai precetti costituzionali (come evidenzia il punto 4.3 in relazione al punto 4.5. del preambolo sistematico delle SU n 26972 del 2008), costituisce fatto colposo che configura illecito civile continuato ed aggravato dal persistere della volontà punitiva e di atti diretti all'emarginazione del professionista, la condotta del primario che nell'esercizio formale dei poteri di controllo e di vigilanza del reparto, estrometta di fatto l'aiuto anziano da ogni attività proficua di collaborazione, impedendogli l'esercizio delle mansioni cui era addetto. Tale condotta altamente lesiva è soggettivamente imputabile al primario, come soggetto agente, ed esprime l'elemento soggettivo della colpa in senso lato, essendo intenzionalmente preordinata alla distruzione della dignità personale e dell'immagine professionale e delle stesse possibilità di lavoro in ambito professionale, con lesione immediata e diretta dei diritti inviolabili del lavoratore professionista (espressamente richiamati nel citato punto 4.5 delle SU citate, cui aggiungiamo, sistematicamente anche l'art. 1 Cost., art. 3 Cost., comma 2, art. 4 Cost. e art. 35 Cost., comma 1, dovendosi considerare, per il presidio di tutela il lavoratore professionista alla stessa stregua di qualsiasi altro lavoratore e senza discriminazioni). Il danno ingiusto, cagionato direttamente dal primario, con i provvedimenti impeditivi dell'esercizio della normale attività, implica un demansionamento continuato di fatto (malgrado le pronunce amministrative di reintegrazione) e si pone in relazione causale con il fattore determinante della condotta umana lesiva, posta in essere dal primario. Così stabilita ed accertata, in tutti i suoi elementi, soggettivi ed oggettivi, la fattispecie da sussumere sotto la norma primaria che regola il fatto illecito (art. 2043 c.c.) il giudice del rinvio dovrà procedere alla congrua liquidazione dei danni patrimoniali e non patrimoniali consequenziali, rispettando il principio del risarcimento integrale (punto 4.8 SU cit.), evitando di compiere duplicazioni (punto 4.9), e considerando, ai fini della liquidazione congrua, la gravità della offesa (rilevante nel caso di specie) e la serietà del pregiudizio (punto 3.11. della SU citata).
Quanto al ristoro dei danni patrimoniali, dovrà essere considerato il regime professionale vigente all'epoca dei fatti, e comunque la perdita delle chances economiche e di clientela in relazione alla distruzione dell'immagine nella comunità scientifica e nel mercato libero delle prestazioni professionali per la perdita di affidabilità scientifica e curativa".
La Cassazione con rinvio pone le parti nelle stesse condizioni quo ante rispetto alla sentenza cassata e pertanto vincola il giudice del rinvio non solo per la applicazione dei principi di responsabilità da illecito civile ma anche al rispetto dei limiti del petitum.
Una ultima puntualizzazione dev'essere posta in relazione alla entrata in vigore del Trattato di Lisbona (1 dicembre 2009) che recepisce la Carta di Nizza con lo stesso valore del Trattato sulla Unione e per il catalogo completo dei diritti umani. I giudici del rinvio dovranno ispirarsi anche ai principi di cui all'art. 1 della Carta, che regola il valore della dignità umana (che include anche la dignità professionale) ed allo art. 15 che regola la libertà professionale come diritto inviolabile sotto il valore categoriale della libertà. I fatti dannosi in esame vennero commessi prima della introduzione del nuovo catalogo dei diritti (2000-2001), ma le norme costituzionali nazionali richiamate bene si conformano ai principi di diritto comune europeo, che hanno il pregio di rendere evidenti i valori universali del principio personalistico su cui si fondano gli Stati della Unione. La filonomachia della Corte di Cassazione include anche il processo interpretativo di conformazione dei diritti nazionali e costituzionali ai principi non collidenti ma promozionali del Trattato di Lisbona e della Carta di Nizza che esso pone a fondamento del diritto comune europeo.
B. Esame del RICORSO INCIDENTALE CONDIZIONATO DEL PROF. A..
Il ricorso risulta manifestamente infondato.
Nel primo motivo il ricorrente si duole per la condanna a titolo di diffamazione. Il motivo è inammissibile per la ragione che manca l'illustrazione giuridica adeguata delle censure e persino lai indicazione delle norme che si assumono violate. Sul punto si è formata al res iudicata.
Nel secondo motivo si deduce (ff. 8 del ric. incidentale) error in iudicando in ordine alla liquidazione delle spese dei due gradir da addebitare alla parte soccombente. Il motivo resta assorbito in relazione alla cassazione con rinvio.
C. IN CONCLUSIONE. Il ricorso principale viene accolto nei termini di cui in motivazione, il ricorso incidentale deve essere rigettato, la cassazione è con rinvio e fissazione dei principi nomofilattici, ed il giudice del rinvio, Corte di appello di Genova in diversa composizione, provvederà a liquidare anche le spese del presente giudizio di cassazione.
P.Q.M.
Riunisce i ricorsi, accoglie il ricorso principale e rigetta quello incidentale, cassa in relazione e rinvia anche per le spese del giudizio di cassazione alla Corte di appello di Genova in diversa composizione.
Così deciso in Roma, il 10 novembre 2009.
Depositato in Cancelleria il 2 febbraio 2010
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