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martedì 16 febbraio 2016

Cassazione: L'azienda non può controllare con apparecchiature elettroniche gli accessi ad internet e alla posta del dipendente‏




 
 
 
LAVORO (RAPPORTO DI)
Cass. civ. Sez. lavoro, 23-02-2010, n. 4375
Fatto Diritto P.Q.M.

Svolgimento del processo

Con sentenza n. 1048 del 2003 il Giudice del lavoro del Tribunale di Milano, in accoglimento della domanda proposta da L.C. nei confronti della Recordati - Industria Chimica e Farmaceutica s.p.a., dichiarava la illegittimità dei due licenziamenti alla stessa intimati in data (OMISSIS), con le conseguenze di cui all'art. 18 dello Statuto dei lavoratori.
Il Tribunale, quanto al primo licenziamento, riferibile a fatti commessi fra il (OMISSIS), riteneva che i fatti contestati, sintetizzabili nell'accesso a Internet per ragioni non di servizio in contrasto con il regolamento aziendale del 4-5-2001, fossero stati rilevati e registrati da un programma di controllo informatico centralizzato (Super Scout), in violazione della L. n. 300 del 1970, art. 4, comma 2, con la conseguente inutilizzabilità dei dati acquisiti. In ogni caso riteneva violate le regole di proporzionalità e gradualità delle sanzioni disciplinari.
Quanto, poi, al secondo licenziamento, intimato a seguito di lettera di contestazione del (OMISSIS), il primo giudice riteneva la contestazione tardiva, poichè i fatti contestati, relativi al periodo (OMISSIS), erano in parte antecedenti alla prima contestazione disciplinare e in parte una duplicazione dei fatti già contestati e per i mesi precedenti la prima contestazione, sicuramente conoscibili con il programma Super Scout. Inoltre essi erano stati ricavati direttamente dal personal computer della L. senza che la società avesse dimostrato l'inaccessibilità dello stesso fra il (OMISSIS) e il momento del rilievo dei dati alla fine di agosto, come riferito dal teste M., con il dubbio della manipolazione dei dati stessi e di una conoscenza o comunque conoscibilità dei dati in epoca antecedente.
Avverso la detta sentenza la Recordati proponeva appello, deducendo:
quanto al primo licenziamento, che i controlli attuati, in quanto volti contro comportamenti illeciti espressamente vietati dalla società, non erano inibiti dalla L. n. 300 del 1970, art. 4, e che il comportamento contestato, costituente grave inadempimento degli obblighi aziendali, così come portati a conoscenza della lavoratrice attraverso il regolamento aziendale, giustificava il licenziamento per giusta causa;
quanto al secondo licenziamento, che il primo giudice aveva errato nel ritenerne la illegittimità poichè il recesso era intervenuto a rapporto di lavoro in atto; che la contestazione era tempestiva in relazione al primo momento utile per farla (reintegrazione) e sulla base di risultanze legittimamente acquisite successivamente, come confermato dai testimoni; in ogni caso che il licenziamento stesso doveva essere considerato come fatto storico a fine di valutare la gravità del primo inadempimento.
La società appellante chiedeva quindi la riforma della pronuncia di primo grado con il rigetto delle domande di controparte.
La L. si costituiva e resisteva al gravame.
La Corte d'Appello di Milano, con sentenza depositata il 30-9-2005, confermava la sentenza appellata e condannava l'appellante al pagamento delle spese.
In sintesi la Corte territoriale, riteneva applicabile ai fatti addebitati ed accertati a sostegno del primo licenziamento la L. n. 300 del 1970, art. 4, comma 2, con conseguente indispensabilità di un accordo sindacale o, in mancanza, dell'autorizzazione della Direzione provinciale del lavoro, e concludeva negando qualsivoglia valore probatorio ai dati acquisiti in violazione dell'art. 4 citato, non utilizzabili in causa. La Corte, poi, ha rilevato la mancanza del nesso di proporzionalità fra gli addebiti e la sanzione in relazione sia alla durata dei collegamenti, sia all'assoluta mancanza di precedenti contestazioni ad altri dipendenti per fatti analoghi, sia alla mancanza di precedenti disciplinari in capo alla lavoratrice.
Quanto al secondo licenziamento la Corte d'Appello ha infine affermava che non poteva non rilevarsi la tardività della contestazione, trattandosi di fatti comunque conoscibili dal datore di lavoro all'epoca del primo licenziamento, e riteneva assorbito ogni altro profilo di dedotta illegittimità del licenziamento.
Per la cassazione di tale sentenza la società Recordati ha proposto ricorso con nove motivi.
La L. ha resistito con controricorso.
Infine la Recordati ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

Preliminarmente va rilevato che nella fattispecie, trattandosi di ricorso avverso sentenza depositata in data 30-9-2005, non trova applicazione ratione temporis l'art. 366 bis c.p.c., di guisa che non assumono rilevanza i quesiti formulati dalla ricorrente.
Con il primo motivo la ricorrente lamenta che la Corte di merito, in sostanza trasformando essa "parte offesa" in "parte offendente", ha omesso di considerare l'enorme quantitativo di accessi ad internet di svariato tipo, con rilevante sottrazione al tempo di lavoro e con pericolo per la sicurezza della rete aziendale e, pur avendo accertato che per regolamento interno, conosciuto dalla L., tali accessi erano autorizzati solo per le esigenze di servizio, non ne ha tratto le relative conseguenze, in ordine alla proporzionalità del licenziamento, anche sotto il profilo della configurabilità del reato di cui all'art. 615 ter c.p..
Il motivo è in parte inammissibile e in parte infondato.
Mentre la "censura di fondo" è del tutto generica, il quantitativo degli accessi ad Internet, come risultato dai tabulati prodotti in corso di causa, e non anche come emerso dal sistema di controllo Super Scout (i cui dati sono stati ritenuti legittimamente non utilizzabili, come si vedrà), è stato attentamente esaminato e valutato (con riferimento al primo licenziamento, stante la tardività del secondo) dalla Corte d'Appello, la quale, con motivazione congrua e priva di vizi logici, ha rilevato la sproporzione tra addebito e sanzione, in base ai rilievi che il collegamento a Internet nel periodo in osservazione ((OMISSIS)) si era verificato in otto giornate oltre all'apertura, quotidiana dal (OMISSIS), di un indirizzo di posta elettronica non aziendale al portale (OMISSIS), che pur non essendovi contestazione sul tipo di sito visitato e sulla potenziale dannosità per il sistema informatico aziendale, nella specie non era stato contestato in modo specifico il tempo che sarebbe stato sottratto alla prestazione lavorativa, non essendo indicati nè l'orario nè la durata dei singoli collegamenti, i quali potevano essere avvenuti anche in pausa lavorativa, che dai citati tabulati era emerso che la durata dei collegamenti (salvo uno) era stata di pochi minuti e che l'accesso ad Internet era avvenuto, non di rado, in pausa pranzo, che peraltro non era emerso che in precedenza vi fosse stato da parte della azienda un particolare richiamo sulla rigidità del divieto di uso promiscuo, che, infine, la lavoratrice non aveva precedenti disciplinari.
Inammissibile è, poi, la censura relativa alla omessa considerazione della gravità del fatto sotto il profilo dell'art. 615 c.p., trattandosi di questione, non trattata dai giudici di merito, in ordine alla quale la ricorrente non indica specificamente la avvenuta deduzione nei motivi di gravame dinanzi alla Corte d'Appello (v. Cass. 15-2-2003 n. 2331, Cass. 10-7-2001 n. 9336). Nè all'uopo può ritenersi sufficiente il generico richiamo, tra l'altro, anche alla L. n. 547 del 1993, contenuto nel Regolamento in "ordine al corretto utilizzo dei sistemi informatici aziendali" contenuto nel ricorso.
Peraltro non può ignorarsi che i fatti contestati erano "sintetizzabili nell'accesso a Internet per ragioni non di servizio in contrasto con il regolamento aziendale" e non anche nell'"accesso abusivo al sistema informatico" della società.
Con il secondo motivo la ricorrente, denunciando violazione dell'art. 8 dello Statuto dei lavoratori e del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 4 lett. A) e D), nonchè vizio di motivazione, in sostanza lamenta che erroneamente la Corte di merito avrebbe ritenuto nella fattispecie la violazione della L. n. 300 del 1970, art. 8, e della normativa sulla privacy (all'epoca L. n. 675 del 1996, ora D.Lgs. n. 196 del 2003).
Osserva il Collegio che la censura non coglie nel segno la impugnata decisione, la quale, seppure nelle premesse ha, tra l'altro, prospettato la questione della utilizzabilità o meno delle informazioni acquisite anche sotto i profili dell'art. 8 dello Statuto dei lavoratori e della tutela della privacy, in sostanza ha poi fondato la decisione, circa la inutilizzabilità dei dati risultati dal sistema di controllo adottato (Super Scout), soltanto sulla violazione dell'art. 4 dello stesso Statuto (ritenendo, peraltro, utilizzabili i tabulati rilevati direttamente dal computer).
Il motivo, quindi, in quanto non attinente al reale decisum, (v. Cass. 28-1-1995 q. 1075, Cass. 9-2-2000 n. 1455, Cass. 17-1-2005 n. 757) risulta inammissibile.
Con il terzo motivo la ricorrente, denunciando violazione dell'art. 4 citato e vizio di motivazione, in sostanza censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha, appunto, ritenuto che nella fattispecie vi fosse stata una violazione della detta norma.
Al riguardo, in particolare, la ricorrente in primo luogo deduce che "i dati posti a base della seconda contestazione non erano stati rilevati da alcun sistema di controllo, bensì dal diretto esame del computer della L.", per cui superflua era "qualsiasi dissertazione" sull'art. 4.
Tale censura risulta inammissibile, in quanto anch'essa non attinente al decisum, giacchè la violazione dell'art. 4 dello Statuto è stata affermata in relazione al primo licenziamento, mentre per il secondo licenziamento la decisione è stata incentrata sulla tardività della contestazione.
In secondo luogo, ed in generale, la ricorrente, premesso che "i controlli rivolti a esclusiva finalità di tutela del patrimonio aziendale ricadono al di fuori del campo di applicazione dell'art. 4" citato, lamenta che la Corte di merito avrebbe male interpretato ed applicato il detto articolo, in sostanza "parificando i controlli difensivi a quelli sull'attività lavorativa".
Tale censura è infondata.
Come è stato affermato da questa Corte "ai fini dell'operatività del divieto di utilizzo di apparecchiature per il controllo a distanza dell'attività dei lavoratori previsto dalla L. n. 300 del 1970, art. 4, è necessario che il controllo riguardi (direttamente o indirettamente) l'attività lavorativa, mentre devono ritenersi certamente fuori dell'ambito di applicazione della norma sopra citata i controlli diretti ad accertare condotte illecite del lavoratore (cosiddetti controlli difensivi), quali, ad esempio, i sistemi di controllo dell'accesso ad aule riservate o gli apparecchi di rilevazione di telefonate ingiustificate" (v. Cass. 3-4-2002 n. 4746).
Il detto art. 4, infatti, sancisce, al suo comma 1, il divieto di utilizzazione di mezzi di controllo a distanza sul presupposto - espressamente precisato nella Relazione ministeriale - che la vigilanza sul lavoro, ancorchè necessaria nell'organizzazione produttiva, vada mantenuta in una dimensione "umana", e cioè non esasperata dall'uso di tecnologie che possono rendere la vigilanza stessa continua e anelastica, eliminando ogni zona di riservatezza e di autonomia nello svolgimento del lavoro.
Lo stesso articolo, tuttavia, al comma 2, prevede che esigenze organizzative, produttive ovvero di sicurezza del lavoro possano richiedere l'eventuale installazione di impianti ed apparecchiature di controllo, dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori. In tal caso è prevista una garanzia procedurale a vari livelli, essendo la installazione condizionata all'accordo con le rappresentanze sindacali aziendali o con la commissione interna, ovvero, in difetto, all'autorizzazione dell'Ispettorato del lavoro.
In tal modo, come è stato evidenziato da Cass. 17-7-2007 n. 15892, "il legislatore ha inteso contemperare l'esigenza di tutela del diritto dei lavoratori a non essere controllati a distanza e quello del datore di lavoro, o, se si vuole, della stessa collettività, relativamente alla organizzazione, produzione e sicurezza del lavoro, individuando una precisa procedura esecutiva e gli stessi soggetti ad essa partecipi".
Con la stessa sentenza, è stato però precisato che la "insopprimibile esigenza di evitare condotte illecite da parte dei dipendenti non può assumere portata tale da giustificare un sostanziale annullamento di ogni forma di garanzia della dignità e riservatezza del lavoratore", per cui "tale esigenza" "non consente di espungere dalla fattispecie astratta i casi dei c.d. controlli difensivi ossia di quei controlli diretti ad accertare comportamenti illeciti dei lavoratori, quando tali comportamenti riguardino l'esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro e non la tutela di beni estranei al rapporto stesso".
In tale ipotesi si tratta, infatti, comunque di un controllo c.d. "preterintenzionale" che rientra nella previsione del divieto "flessibile" di cui all'art. 4 citato, comma 2.
Del resto, come già affermato da Cass. 18-2-1983 n. 1236, l'articolo in esame "disciplina distintamente le due ipotesi" delle apparecchiature finalizzate al controllo a distanza dell'attività dei lavoratori (comma 1) e delle apparecchiature richieste da esigenze organizzative e produttive ovvero della sicurezza del lavoro, "ma tali comunque da presentare la possibilità di fornire anche il controllo a distanza del dipendente", le prime assolutamente vietate, le seconde consentite "soltanto a condizione che il datore di lavoro osservi quanto tassativamente previsto".
Orbene sul punto la impugnata sentenza si è attenuta a tali principi e con motivazione congrua e priva di vizi logici ha affermato che "i programmi informatici che consentono il monitoraggio della posta elettronica e degli accessi Internet sono necessariamente apparecchiature di controllo nel momento in cui, in ragione delle loro caratteristiche, consentono al datore di lavoro di controllare a distanza e in via continuativa durante la prestazione, l'attività lavorativa e se la stessa sia svolta in termini di diligenza e di corretto adempimento (se non altro, nel nostro caso, sotto il profilo del rispetto delle direttive aziendali)".
La Corte territoriale ha, altresì, aggiunto che "ciò è evidente laddove nella lettera di licenziamento i fatti accertati mediante il programma Super Scout sono utilizzati per contestare alla lavoratrice la violazione dell'obbligo di diligenza sub specie di aver utilizzato tempo lavorativo per scopi personali (e non si motiva invece su una particolare pericolosità dell'attività di collegamento in rete rispetto all'esigenza di protezione del patrimonio aziendale").
Sulla base di tali considerazioni la Corte legittimamente ha ritenuto applicabile nella fattispecie l'art. 4, comma 2 citato, negando la utilizzabilità dei dati acquisiti dal citato programma in violazione di tale norma.
Con il quarto motivo la ricorrente, denunciando violazione delle disposizioni di cui al punto 3 dell'allegato 2^ al D.Lgs. n. 626 del 1994, e all'art. 615 ter c.p.c., nonchè vizio di motivazione, in sostanza, posto che la L. era a conoscenza "sia del divieto di accesso ad Internet non giustificato da esigenze d'ufficio sia della riserva di controllo sulla osservanza del divieto formulata dalla società", in sostanza ritiene il controllo in esame legittimo in quanto effettuato non "all'insaputa" dei lavoratori e lamenta che erroneamente la sentenza impugnata avrebbe dato prevalenza alla norma dello Statuto dei lavoratori e non alla norma successiva del 1994. La ricorrente, poi, assume che analogo argomento potrebbe ricavarsi dall'art. 615 ter c.p..
Il motivo è infondato.
La normativa a tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori sul luogo di lavoro del 1994 non ha in alcun modo modificato la disciplina "di base" a tutela della libertà e dignità del lavoratore, fissata dalla L. n. 300 del 1970, art. 4.
Le uniche regole in materia di "controlli a distanza" sono rimaste quelle dettate dall'art. 4 dello Statuto, che, peraltro, è stato poi anche espressamente richiamato dal D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 114.
Tanto meno, poi, ha inciso sulla norma statutaria la L. n. 547 del 1993, art. 4, che ha introdotto il reato di cui all'art. 615 ter c.p..
Con il quinto motivo la ricorrente, denunciando un vizio di motivazione, in sostanza lamenta che "non si comprende dove la Corte di Milano abbia individuato le "dettagliate indicazioni a livello comunitario e nelle esperienze degli altri paesì che avrebbero dovuto guidare l'agire della società" nel coordinamento tra la normativa statutaria e quella sulla protezione dei dati personali.
Il motivo è inammissibile in quanto rivolto contro una generica considerazione svolta ad abundantiam dalla Corte di merito (v. Cass. 23-11-2005 n. 24591, Cass. 28-3-2006 n. 7074), subito dopo aver concluso, come sopra, che il controllo a distanza effettuato dalla società con il programma Super Scout, rientrava a tutti gli effetti nella sfera di applicazione dell'art. 4, comma 2, dello Statuto dei lavoratori, le cui modalità non erano state osservate.
Con il sesto motivo la ricorrente in sostanza lamenta che sentenza impugnata avrebbe omesso di considerare che i fatti di causa sarebbero stati ammessi dalla L..
Il motivo è inammissibile prima ancora che infondato.
Innanzitutto, come più volte affermato da questa Corte, "la valutazione degli elementi probatori è attività istituzionalmente riservata al giudice di merito, non sindacabile in cassazione se non sotto il profilo della congruità della motivazione del relativo apprezzamento" (v. fra le altre Cass. 13-1-2003 n. 322, Cass. 17-11-2005 n. 23286, Cass. 2-4-2004 n. 6556, Cass. 18-5-2006 n. 11660, Cass. 18-5-2006 n. 11670).
Nel caso in esame, poi, la Corte d'Appello ha confermato la sentenza di primo grado che, sul punto aveva affermato che "ammettere genericamente di avere talvolta utilizzato il computer aziendale per ragioni personali non significa certo ammettere tutte le operazioni contestate, per di più riferite ad un periodo notevolmente risalente nel tempo e distribuite su quasi cinque mesi".
La ricorrente, in sostanza, censura la sentenza impugnata riproponendo genericamente la propria tesi, senza neppure indicare se e in che modo la decisione del primo giudice sia stata, sul punto, specificamente censurata in appello.
Peraltro, come si è già rilevato, la Corte d'Appello, dopo aver legittimamente escluso la utilizzabilità dei dati risultanti dal controllo Super Scout, correttamente e con adeguata motivazione ha valutato attentamente (in relazione al primo licenziamento) tutti gli accessi ad internet e le aperture di posta elettronica in base alle altre risultanze, escludendo, con apprezzamento prettamente di merito, la proporzionalità tra addebito e sanzione.
Con il settimo motivo la ricorrente in sostanza censura tale valutazione di merito in particolare lamentando la omessa considerazione della previsione collettiva (art. 54 ccnl invocato dalla L. nel corso del giudizio di merito) relativa alla insubordinazione, che sarebbe attinente al caso in esame e rilevando che, con riguardo al primo licenziamento, il ridotto numero di accessi emerso dal documento n. 18 andrebbe collegato alla brevità del lasso di tempo al quale esso si riferisce.
Le censure risultano entrambe inammissibili.
La prima costituisce questione nuova, in quanto non trattata dalla Corte d'Appello e sulla quale manca in ricorso qualsiasi indicazione specifica in ordine all'avvenuta deduzione davanti alla stessa Corte territoriale (v. Cass. 15-2-2003 n. 2331, Cass. 10-7-2001 n. 9336).
Peraltro, come evidenziato dalla controricorrente, la società in realtà con l'appello aveva anche precisato che il richiamo di controparte all'art. 54 del ccnl "era ed è un discorso privo di fondamento" in quanto "il recesso aziendale non è fondato su una previsione particolare del ccnl, ma si basa sul potere risolutorio conferito dalla legge (art. 2119 c.c., e L. n. 604 del 1966, art. 3)".
La seconda censura investe direttamente l'apprezzamento di fatto in ordine alla proporzionalità tra addebito e sanzione, rimesso ai giudici del merito, senza, in sostanza indicare specificamente alcuna carenza o vizio logico nel ragionamento della Corte territoriale.
Con l'ottavo motivo la ricorrente censura la impugnata sentenza nella parte in cui ritiene intempestivo il secondo licenziamento per tardività della contestazione, deducendo in particolare che "rilevante ai fini della valutazione della tempestività non è il momento in cui il fatto è stato commesso ma la conoscenza che di questo ne abbia il datore" di lavoro (nella specie emersa come da testimonianza M.).
Anche tale motivo risulta inammissibile in quanto, al di là della violazione di legge formalmente denunciata, ripropone, in sostanza, una diversa valuta/ione degli elementi di fatto emersi ed una revisione del ragionamento decisorio inammissibili in questa sede.
Come questa Corte ha più volte affermato, la valutazione relativa alla immediatezza della contestazione e alla tempestività del recesso datoriale costituisce giudizio di merito, non sindacabile in cassazione ove adeguatamente motivato (v. Ira le altre Cass. 17-12-2008 n. 29480, Cass. 6-9-2006 n. 19159).
Nella specie la sentenza impugnata ha affermato che "quanto alla seconda contestazione disciplinare del (OMISSIS), cui ha fatto seguito il secondo licenziamento disciplinare in data (OMISSIS), essa si riferisce a fatti commessi nel periodo (OMISSIS) e accertati, seguendo quanto dichiarato dal teste M., nell'(OMISSIS), ricavando i dati direttamente dal personal computer in uso a L." (la prima contestazione del (OMISSIS), come si è detto, si riferiva al periodo (OMISSIS)).
La Corte territoriale, poi, ha ritenuto "convincente la argomentazione del primo giudice secondo cui, sia per il periodo di sovrapposizione che per il periodo antecedente, non può non rilevarsi la tardività della contestazione trattandosi di fatti comunque conoscibili dal datore di lavoro all'epoca del primo licenziamento". Al riguardo la Corte di merito ha rilevato che "la stessa società, nella lettera di licenziamento del (OMISSIS), precisava di avere "disposto ulteriori accertamenti" e di aver "potuto appurare" che i comportamenti illeciti erano "stratificati e numerosi sia nel periodo precedente che anche in quello successivo al periodo considerato dalla lettera di contestazione", per cui nella specie si trattava di "fatti antecedenti al primo licenziamento e agevolmente conoscibili dal datore di lavoro prima del recesso".
Tale decisione, congruamente motivata e priva di vizi logici, resiste alla censura generica della ricorrente.
Con il nono motivo, infine, la ricorrente censura la impugnata sentenza nella parte in cui ha omesso di prendere in considerazione l'istanza con la quale la società, eccependo che la L. aveva "reperito nuova occupazione professionale retribuita", aveva chiesto, anche in appello, ai fini della prova dell'aliunde perceptum, che sul punto venisse "disposto l'interrogatorio formale dell'attrice, e che fosse ordinata l'esibizione di buste paga o notule professionali o quant'altro".
Il motivo risulta del tutto generico e privo di autosufficienza, in mancanza di qualsiasi indicazione sufficientemente specifica in ordine alle circostanze di fatto e ai documenti oggetto delle richieste istruttorie non accolte.
In sostanza la ricorrente non specifica come e in quali termini abbia allegato concretamente davanti ai giudici di merito un aliunde perceptum (in relazione al quale è pur sempre necessaria una rituale acquisizione della allegazione e della prova, pur non necessariamente proveniente dal datore di lavoro in quanto oggetto di eccezione in senso lato - cfr.. Cass. 16-5-2005 n. 10155, Cass. 20-6-2006 n. 14131, Cass. 10-8-2007 n. 17606, Cass. S.U. 3-2-1998n. 1099).
Peraltro, come è stato affermato da questa Corte, "il ricorrente che in sede di legittimità denunci la mancata ammissione nei gradi di merito del dedotto interrogatorio formale ha l'onere di indicare specificamente, trascrivendole, le circostanze che formavano oggetto della prova, al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività dei fatti da provare, e, quindi, della prova stessa" (v. fra le altre Cass. 5-6-2007 n. 13085).
Nè è censurabile in questa sede il mancato accoglimento della generica richiesta di esibizione di "buste paga o notule professionali o quant'altro" avanzata dalla società.
Come questa Corte ha più volte precisato, "il rigetto da parte del giudice di merito dell'istanza di disporre l'ordine di esibizione al fine di acquisire al giudizio documenti ritenuti indispensabili dalla parte non è sindacabile in cassazione, perchè, trattandosi di strumento istruttorio residuale, utilizzabile soltanto quando la prova del fatto non sia acquisirle aliunde e l'iniziativa non presenti finalità esplorative, la valutazione della relativa indispensabilità è rimessa al potere discrezionale del giudice di merito e non necessita neppure di essere esplicitata nella motivazione, il mancato esercizio di tale potere non essendo sindacabile neppure sotto il profilo del difetto di motivazione" (v. fra le altre Cass. 14-7-.2004 n. 12997, Cass. sez. 1^ 17-5-2005 n. 10357, Cass. sez. 3^ 2-2-2006 n. 2262). D'altra parte "l'esibizione di documenti non può essere chiesta a fini meramente esplorativi, allorquando neppure la parte istante deduca elementi sulla effettiva esistenza del documento e sul suo contenuto per verificarne la rilevanza in giudizio" (v. fra le altre Cass. 20-12-2007 n. 26943).
Il ricorso va, pertanto, respinto e la ricorrente va condannata al pagamento delle spese in favore della controricorrente.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della L., delle spese, liquidate in Euro 39,00 oltre Euro 3.000,00 per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 16 dicembre 2009.
Depositato in Cancelleria il 23 febbraio 2010

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