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giovedì 23 giugno 2016

Cassazione: Destituzione dal servizio, natura e termini del procedimento disciplinare



Destituzione dal servizio, natura e termini del procedimento disciplinare
 
(Sezione lavoro, sentenza n. 12848/10; depositata il 26 maggio)
Cass. civ. Sez. lavoro, 26-05-2010, n. 12848
Fatto Diritto P.Q.M.

Svolgimento del processo

1. Con sentenza n. 200 resa tra le parti in data 30 settembre - 12 ottobre 2004, il Tribunale del lavoro di Matera rigettava il ricorso depositato in data 26 giugno 2001 con il quale C.F. P. - esponendo di essere stato sottoposto a procedimento disciplinare conclusosi con il decreto ministeriale di destituzione dal servizio (D.M. 19 gennaio 2001), a causa di asseriti comportamenti delittuosi tenuti, nella qualità di docente di diritto ed economia presso l'istituto scolastico "(OMISSIS)" di (OMISSIS), in danno di numerose alunne della classe (OMISSIS) durante l'anno scolastico (OMISSIS) - chiedeva l'annullamento dell'impugnato provvedimento di destituzione per inosservanza dei termini di avvio e di conclusione del procedimento disciplinare nonchè per insussistenza dei presupposti di fatto richiesti ai fini dell'irrogazione della sanzione espulsiva.
Nel pervenire a tale conclusione il primo giudice, anche sulla base della documentazione versata agli atti di causa, premetteva che, con nota del (OMISSIS), la preside dell'Istituto scolastico " (OMISSIS)" di (OMISSIS) denunciava fatti di rilievo penale a lei riferiti da numerose alunne della classe (OMISSIS) circa il comportamento tenuto, sin dall'anno precedente, dal prof. C. e consistito in atteggiamenti sconci dall'inequivoco contenuto sessuale. Sospeso il docente con nota disciplinare del (OMISSIS), veniva disposta ed espletata ispezione interna amministrativa che si concludeva con la relazione ispettiva del (OMISSIS), redatta dopo l'acquisizione di numerose informazioni rese dal corpo docente e dalle stesse alunne interessate.
Nel frattempo veniva, per gli stessi fatti, esercitata l'azione penale (per i reati di cui agli art. 81 c.p.art. 61 c.p., n. 9, art. 521 c.p.art. 542 c.p., nn. 1 e 2, e art. 527 c.p.) ed il conseguente processo, nel corso del quale il procedimento disciplinare rimaneva sospeso, veniva definito per il C. con sentenza del 2 febbraio 1998 di patteggiamento della pena, divenuta irrevocabile in data le settembre 1998.
Riaperta, in data 17 febbraio 2000, la procedura disciplinare innanzi al Consiglio nazionale di disciplina della Pubblica Istruzione, veniva, dopo circa un anno, emanato il decreto ministeriale di destituzione (D.M. 19 gennaio 2001).
1. Ciò premesso in punto di fatto, il Tribunale osservava come, nella specie, non fosse stato violato il termine di 180 giorni previsto dalla L. 19 del 1990, art. 9 per la prosecuzione dell'azione disciplinare, nuovamente promossa all'esito della definizione processo penale, essendo pacifico che l'Amministrazione era venuta a conoscenza della sentenza irrevocabile di condanna in data 25 gennaio 2000 e si era quindi tempestivamente attivata nel febbraio dello stesso anno. Nè poteva ritenersi violato il termine di 90 giorni per la conclusione del procedimento disciplinare, a seguito di sua riapertura, trattandosi, quanto ai procedimenti penali definiti con sentenza irrevocabile a seguito di patteggiamento della pena, di termine non perentorio e ciò anche alla stregua dell'interpretazione fornita dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 197 del 28 maggio 1999.
Quanto al merito dei fatti addebitati - tutti relativi ad una serie di abusi commessi reiteratamente nei confronti delle alunne della classe (OMISSIS), fatte oggetto, in coincidenza delle lezioni o in occasione di manifestazioni scolastiche svolte in ambienti esterni, di "attenzioni" fisiche e di allusioni sessuali, di discorsi ed atteggiamenti turpi, di palpazioni corporee maldestramente celate - il Tribunale precisava che l'applicazione della pena concordata ossia il patteggiamento intervenuto in sede penale, se non costituiva prova legale di responsabilità, rappresentava comunque un indiscutibile elemento di prova in sede disciplinare e civile, con la conseguenza che l'autonoma valutazione dei fatti in tali sedi, fermo il divieto di trarre dalla sentenza di patteggiamento la esclusiva prova dei fatti costituenti illecito disciplinare, non precludeva di fondare le relative valutazioni anche sulle risultanze penali, ove ritenute sufficienti, non essendo imprescindibilmente necessario che esse trovassero diretto riscontro in eventuali accertamenti autonomamente compiuti dall'organo procedente.
In ogni caso, il primo giudice, tenuto conto sia degli esiti delle indagini ispettive e sia della prova testimoniale comunque assunta in corso di causa, riteneva provati i fatti addebitati e, considerati tutti gli elementi del caso concreto nonchè l'intensità e la natura dell'elemento soggettivo, stimava come proporzionata la sanzione irrogata, avendo il comportamento del docente irrimediabilmente leso il rapporto fiduciario ed essendo ogni altra sanzione inadeguata alla tutela degli interessi lesi dalle condotte addebitate.
2. Per la riforma di questa sentenza proponeva appello il C. con ricorso depositato in data 29 novembre 2004.
Con memoria depositata in data 15 marzo 2005 si è costituito il Ministero dell'istruzione chiedendo il rigetto del gravame.
La Corte d'appello di Potenza con sentenza del 6 luglio - 1 agosto 2006 rigettava l'appello e condannava l'appellante al pagamento delle spese di giudizio.
3. Avverso questa pronuncia propone ricorso per cassazione l'originario ricorrente con due motivi.
Resiste con controricorso la parte intimata.

Motivi della decisione

1. Con il ricorso, articolato in due motivi, il ricorrente sostiene che, ai fini della conclusione del procedimento disciplinare nei confronti dei docenti del comparto scuola, a seguito di condanna penale irrevocabile, anche se emessa ai sensi dell'art. 444 c.p.p. - i due termini della L. 7 febbraio 1990, n. 19, art. 9 sono entrambi perentori. Pertanto, l'azione disciplinare deve essere promossa, ovvero riattivata, entro gg. 180 dalla formale conoscenza da parte dell'Amministrazione della sentenza definitiva di condanna; deve essere conclusa entro gg. 90 dal provvedimento di promozione ovvero di riattivazione del procedimento, stante la natura di condanna della sentenza ex art. 444 c.p.p. e la facoltà dell'Amministrazione di disporre degli accertamenti acquisiti al procedimento penale concluso con sentenza irrevocabile di patteggiamento.
Pertanto il mancato rispetto del termine di inizio, ovvero di riattivazione, del procedimento rende improcedibile l'azione penale;
il mancato rispetto del termine di conclusione produce la decadenza del diritto all'azione disciplinare.
Sostiene poi che le prove assunte nel procedimento disciplinare sono valutate dal giudice secondo il prudente apprezzamento, ex art. 116 c.p.c. in relazione al contegno tenuto dalla parti nel procedimento, compresi i comportamenti tenuti dall'incolpato, prima e dopo la contestata infrazione disciplinare con valutazione dei principi sulla giusta causa di licenziamento di cui all'art. 2119 c.c. ai fini della conservazione del rapporto di lavoro.
2. Il ricorso - i cui due motivi possono essere esaminati congiuntamente - è infondato.
3. La L. 7 luglio 1990, n. 19, art. 9 applicabile ratione temporis al rapporto di cui è causa, nel prevedere che il pubblico dipendente non può essere destituito di diritto a seguito di condanna penale, prescrive che la destituzione può sempre essere inflitta all'esito del procedimento disciplinare che deve essere proseguito o promosso entro centottanta giorni dalla data in cui l'amministrazione ha avuto notizia della sentenza irrevocabile di condanna.
Nella specie, prescindendo da ogni questione circa la natura perentoria o meno del termine relativo all'avvio del procedimento disciplinare, tale termine di 180 giorni è stato rispettato secondo la valutazione in fatto dei giudici di merito, non censurabile in sede di legittimità in quanto assistita da motivazione sufficiente e non contraddittoria, avendo la Corte d'appello affermato che l'amministrazione scolastica ha ricevuto notizia della sentenza penale in data 25 gennaio 2000, così tempestivamente riattivando il procedimento disciplinare in data 17 febbraio 2000, ossia nel rispetto del termine di 180 giorni dalla ricezione della notizia dell'irrevocabilità della sentenza, mentre non vi alcun elemento, che neppure il ricorrente infatti allega, dal quale possa desumersi che l'amministrazione abbia anteriormente ricevuto detta notizia.
3. Il medesimo art. 9 della L. 7 luglio 1990, n. 19, prevede poi che il procedimento disciplinare debba essere concluso nei successivi novanta giorni.
La normativa muta successivamente (poco dopo il decreto di destituzione del ricorrente talchè non è applicabile nella specie) ad opera della L. 23 marzo 2001, n. 97, recante norme sul rapporto fra procedimento penale e procedimento disciplinare. Da una parte muta la portata della sentenza di patteggiamento: l'equiparazione della sentenza applicativa della pena patteggiata alla sentenza di condanna, espressamente prevista a determinati fini già dalla L. 19 marzo 1990, n. 55, art. 15, comma 1 bis, opera ora anche ai fini del procedimento disciplinare. Infatti dal combinato disposto dell'art. 445 c.p.p., comma 1 bis, e art. 653 c.p.p., comma 1 bis, nel testo di cui alla cit. L. 27 marzo 2001, n. 97, artt. 1 e 2 risulta che la sentenza irrevocabile di applicazione della pena a richiesta (ed. sentenza di patteggiamento), al pari della sentenza penale irrevocabile di condanna, ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare.
Tale novella (L. n. 97 del 2001) ha poi riformulato la disciplina della L. 7 febbraio 1990, n. 19, art. 9, comma 2, disponendo all'art. 5, comma 4, che, nel caso sia pronunciata sentenza penale irrevocabile di condanna nei confronti dei dipendenti pubblici privatizzati, ancorchè a pena condizionalmente sospesa, l'estinzione del rapporto di lavoro o di impiego può essere pronunciata a seguito di procedimento disciplinare. Il procedimento disciplinare deve avere inizio o, in caso di intervenuta sospensione, deve proseguire entro il termine di novanta giorni dalla comunicazione della sentenza all'amministrazione o all'ente competente per il procedimento disciplinare. In tal caso il procedimento disciplinare deve concludersi, salvi termini diversi previsti dai contratti collettivi nazionali di lavoro, entro centottanta giorni decorrenti dal termine di inizio o di proseguimento, fermo quanto disposto dall'art. 653 c.p.p..
La permanente vigenza dell'art. 5, comma 4 cit. risulta ora indirettamente confermata dal D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, art. 72, comma 2, che in tale disposizione ha soppresso le parole: "salvi termini diversi previsti dai contratti collettivi nazionali di lavoro". 4. Nella specie però - come già rilevato - trova applicazione, ratione temporis, non già il termine di cui all'art. 55, comma 4 cit., ma quello previsto, per la conclusione del procedimento disciplinare, dall'art. 9, comma 2 cit. (ossia 90 giorni successivi a 180 giorni dalla data in cui l'amministrazione ha avuto notizia della sentenza irrevocabile di condanna, alla quale è equiparata, a tal fine, la sentenza di applicazione della pena a richiesta delle parti, cd. di patteggiamento).
In questo diverso contesto normativo, precedente alla contrattualizzazione del lavoro pubblico e alla specifica disciplina dell'efficacia di giudicato della sentenza di patteggiamento (da ultimo v. C. cost. n. 336 del 2009 e Cass. 10 marzo 2010 n. 5806), deve essere valutata la portata del termine finale di 90 giorni.
La giurisprudenza maggiormente rilevante in proposito è quella del giudice amministrativo, stante la giurisdizione esclusiva sulle relative controversie prima del trasferimento della giurisdizione al giudice ordinario.
Mette conto allora ricordare che l'insorto contrasto di giurisprudenza in ordine a tale questione è stato composto da C. Stato, ad. plen., 26 giugno 2000, n. 15, che ha enunciato il principio di diritto secondo cui il termine di novanta giorni previsto dalla L. 7 febbraio 1990, n. 19, art. 9 per la conclusione del procedimento disciplinare nei confronti di pubblico dipendente non ha carattere perentorio nel caso in cui il procedimento consegua a sentenza di condanna emessa in seguito a patteggiamento.
In particolare tale pronuncia richiama la sentenza 28 maggio 1999, n. 197, con cui la Corte costituzionale ha si condiviso la tesi della perentorietà, ma ha dichiarato infondati "nei sensi di cui in motivazione" i dubbi d'incostituzionalità prospettati. In concreto ha osservato che il previo svolgimento del processo penale giustifica i termini "brevi" previsti dalla norma, dal momento che, in presenza di una sentenza irrevocabile di condanna, il giudizio disciplinare consiste nel "riesame delle risultanze processuali e dei fatti come risultano accertati dalla sentenza". La Corte ha, tuttavia, escluso che la norma trovi applicazione quando il procedimento disciplinare sia instaurato a seguito di una sentenza che applica la pena su richiesta delle parti (art. 444 c.p.p.). In tal caso, infatti, per le particolari modalità del procedimento penale, non può escludersi, in linea astratta, la necessità di autonomi accertamenti in sede disciplinare.
Quindi - ha concluso l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato - ove si tratti di sentenza (di patteggiamento) emessa ai sensi dell'art. 444 c.p.p., il superamento dei termini stabiliti dal L. n. 19 del 1990, art. 9, comma 2, non comporta decadenza per l'Amministrazione dall'esercizio del potere disciplinare.
Questa conclusione, con riferimento a quel contesto normativo (poi superato dalla previsione dell'efficacia di giudicato della sentenza di patteggiamento: v. Cass. 10 marzo 2010 n. 5806), può essere condiviso considerato che si fonda su un'interpretazione adeguatrice indicata dalla stessa Corte costituzionale (e che, ove il giudice comune accedesse proprio all'interpretazione così disattesa da quella Corte, sarebbe conseguentemente onerato di sollevare l'incidente di costituzionalità) sicchè corretta è l'affermazione della Corte territoriale secondo cui, in caso si sentenza patteggiata, il termine di cui alla L. n. 17 del 1990, art. 9, comma 2, non può considerasi perentorio per la conclusione del procedimento disciplinare nè ex se e nè in quanto cumulato con il termine di avvio del procedimento stesso.
5. Inammissibili sono invece le censure (di cui al secondo motivo) del ricorrente che afferiscano alla valutazione delle risultanze processuali e che hanno condotto i giudici di merito, d'appello e di primo grado, a ritenere sussistenti gli addebiti disciplinari contestati e per i quali era intervenuta la sentenza penale di patteggiamento. Si Tratta di tipiche valutazioni di merito non censurabili in sede di legittimità avendo la Corte d'appello offerto una motivazione sufficiente e non contraddittoria.
D'altra parte il ricorrente non indica elementi di contradditorietà nella sentenza impugnata ed anzi chiude il (secondo) motivo di ricorso con un quesito ex art. 366 bis c.p.c. che è formulato in diritto in riferimento agli artt. 116 e 192 c.p.c. affermando che le prove assunte nel procedimento disciplinare devono essere valutate dal giudice secondo prudente apprezzamento, laddove il contenuto della censura consiste nella sostanza in una diversa lettura, da parte del ricorrente, delle risultanze processuali.
Sotto il profilo del vizio di motivazione poi manca la "chiara indicazione del fatto controverso" ex art. 366 bis c.p.c.. Questa Corte (Cass., sez. un., 12 maggio 2008, n. 11652) ha affermato in proposito che, atteso che, secondo quanto dispone l'art. 366 bis c.p.c., nel caso di denuncia di vizio di motivazione ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 5, l'illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione, il motivo è inammissibile allorquando il ricorrente non indichi le circostanze rilevanti ai fini della decisione, in relazione al giudizio espresso nella sentenza impugnata. Cfr. anche Cass., sez. 3, 7 aprile 2008, n. 8897, che ha precisato che, allorchè nel ricorso per cassazione si lamenti un vizio di motivazione della sentenza impugnata in merito ad un fatto controverso, l'onere di indicare chiaramente tale fatto ovvero le ragioni per le quali la motivazione è insufficiente, imposto dall'art. 366 bis c.p.c., deve essere adempiuto non già e non solo illustrando il relativo motivo di ricorso, ma anche formulando, al termine di esso, una indicazione riassuntiva e sintetica, che costituisca un quid pluris, rispetto all'illustrazione del motivo, e che consenta al giudice di valutare immediatamente l'ammissibilità del ricorso.
6. Il ricorso va quindi nel suo complesso rigettato.
Sussistono giustificati motivi (in considerazione dell'evoluzione giurisprudenziale sulle questioni dibattute e della problematicità delle stesse nel contesto del progressivo assetto del diritto vivente) per compensare tra le parti le spese di questo giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; compensa tra le parti le spese di questo giudizio di cassazione.

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