Sindacato parte civile anche per chi non è iscritto
In caso di incidente in servizio il sindacato può costituirsi parte civile contro l'azienda anche se il lavoratore coinvolto non ha mai aderito ad alcuna sigla. Con la sentenza 22558 la Suprema corte afferma il diritto all'indennizzo in favore di Cgil, Cisl e Uil, superando il limite dell'iscrizione posto da una precedente decisione.
Secondo la Cassazione, l'accertamento della responsabilità dell'imprenditore nell'inosservanza delle norme di sicurezza che è causa della morte di un lavoratore legittima il sindacato a partecipare al giudizio per il danno che viene causato alla sua immagine. I lavoratori – spiegano i giudici – possono perdere fiducia nelle associazioni sindacali giudicandole incapaci di incidere in modo concreto sui temi della sicurezza all'interno dell'azienda. I responsabili della ditta di costruzioni, condannati per omicidio colposo, negano invece, giurisprudenza alla mano, la possibilità di costituzione di parte civile per il sindacato. Nel ricorso, a supporto della tesi della difesa, si citano le uniche due sentenze in tema di legittimazione delle organizzazioni sindacali a partecipare al giudizio per i reati di violazione dell'integrità fisica dei lavoratori.
Le sezioni unite, con la sentenza Iori del 21 maggio 1988, avevano legato il presupposto del risarcimento alla lesione di un diritto di natura soggettiva. Inoltre, con la decisione Arienti del 13 luglio 1993, la VI sezione, pur affermando il diritto alla costituzione come parte civile, lo subordinava all'iscrizione del lavoratore alla sigla che si riteneva danneggiata. Paletti superati anche grazie all'aiuto della giurisprudenza della stessa Corte che, in materie diverse, ha ampliato in campo civile e penale l'area dei danni risarcibili, riconoscendo «l'azionabilità di situazioni giuridiche soggettive qualificate dalla lesione di interessi particolari non strettamente riconducibili al diritto soggettivo» ed esteso la possibilità di costituirsi parte civile agli enti che, per il proprio sviluppo storico, per l'attività svolta e la posizione assunta abbiano come fine primario proprio la tutela degli interessi lesi.
Un mutato quadro di riferimento che porta a superare i limiti posti dalle precedenti decisioni. È infatti pacifico che le organizzazioni sindacali abbiano tra le loro finalità la tutela della condizioni di lavoro, non limitata alla stabilità del rapporto e agli aspetti economici, ma anche in relazione al diritto alla salute. Ruolo rafforzato attraverso il recepimento di normative comunitarie che hanno portato a un coinvolgimento più incisivo di quello contenuto nell'articolo 9 dello statuto, con l'attribuzione di compiti e responsabilità in virtù dei quali è difficile negare - conclude il collegio - il riconoscimento del diritto a costituirsi parte civile.
Cass. pen. Sez. IV, (ud. 18-01-2010) 11-06-2010, n. 22558
Fatto Diritto P.Q.M.
Svolgimento del processo
In data 11.2.2000 nel mentre l'operaio S.R. dipendente della Demont srl con funzioni di gruista, stata procedendo a mezzo di una autogru di proprietà della stessa Demont ma noleggiato, con c.d. nolo a caldo alla T.C. snc, al posizionamento di una trave metallica, si verificava un incidente che aveva come conseguenza il decesso del predetto operaio; l'incidente avveniva all'interno del cantiere della predetta T.C. snc, area di cantiere diversa da quella della Demont, essendo stato lo S. colà inviato insieme alla gru a seguito del predetto nolo a caldo; in particolare, come acclarato nelle sentenze di merito, la gru Gottwald AMK 106-51, alla cui conduzione e manovra vi era lo S., stava sollevando una pesante trave metallica agganciata al braccio telescopico utilizzando il solo argano principale allorchè il braccio della gru si allungava e la fune del (Ndr: testo originale non comprensibile) risalendo all'indietro, trascinava con sè il bozzello ed il relativo gancio dell'argano ausiliario del peso di circa 140 Kg; le funi, il bozzello ed il gancio superavano la testa del braccio e precipitando verso la cabina dei gruista, ne provocavano lo sfondamento colpendo alla testa il lavoratore che decedeva sul colpo.
Del fatto venivano chiamati a rispondere, per quanto qui rileva, F.E. responsabile di produzione della divisione industriale Demont e da essa delegato per sovraintendere alla sicurezza dei propri cantieri, con facoltà di sub delega, e B.G. capocantiere, sub delegato dal F. a sovraintendere alle attività svolte nel cantiere di (OMISSIS); si contestava loro la colpa generica e specifica di aver consentito l'utilizzo della gru in cattivo stato di manutenzione, non rispondente alle misure di sicurezza e non assoggettata alle verifiche annuali; di averne consentito l'uso non in conformità delle istruzioni del fabbricante in particolare consentendo che la gru lavorasse con due ganci (quello principale e quello ausiliario) installati contemporaneamente, con le staffe antiscarrucolamento recise e rimosse con la fiamma ossidrica;
di aver tollerato la prassi "contra legem" di armare le funi secondo uno schema diverso da quello previsto dal costruttore; di non avere adeguatamente informato e formato il gruista sui rischi connessi alla sua specifica attività.
Il giudice di primo grado riteneva sussistenti i predetti profili di colpa, imputabili sia al F. che al B.. Il primo per non aver svolto le funzioni di vigilanza e controllo in materia di sicurezza, che gli competevano quale datore di lavoro della vittima, nonostante l'esistenza di delega in favore al capocantiere B. quest'ultimo per mancanza della diretta sorveglianza sulla gru e sul gruista tanto più che era stato proprio lui ad avere inviato l'operaio a compiere il lavoro nel corso del quale decedeva. Ritenute le circostanze attenuanti generiche equivalenti alla contestata aggravante ex art. 589 c.p., comma 2, il tribunale li condannava alla pena di 10 mesi di reclusione ciascuno oltre a risarcimento unitamente al responsabile civile s.r.l. Demont, del danno in favore della costituita parte civile D.B.A. vedova del lavoratore deceduto cui assegnava una provvisionale di Euro 200.000, nonchè organizzazioni sindacali FIOM - CGIL, FIM - CISL EUILM - UIL, danno liquidato in Euro 15.000,00 per ciascuna.
La sentenza veniva integralmente confermata in grado di appello.
Avverso la sentenza resa dalla corte di appello di Genova hanno proposto ricorso per Cassazione gli imputati F. e B. e il responsabile civile amministratore della società Demont, deducendo per il tramite dei rispettivi difensori di fiducia, motivi identici quanto a B. e alla srl Demont e in larga parte coincidenti quanto a F..
Con il primo motivo, comune a tutti i ricorrenti, viene censurato l'accertamento del nesso di causalità che si assume viziato da difetto di motivazione e travisamento della prova. Si sostiene che la sentenza impugnata manca di motivazione effettiva in punto di prova della sussistenza del nesso di causalità fra le condotte colpose contestate e l'evento, non ha risposto alle censure mosse con l'appello e si è limitata ad un richiamo formale alle argomentazioni svolte in primo grado, senza spiegare le ragioni di tale adesione.
Se era posto in dubbio che eventuali difetti di manutenzione, come intestati, potessero essere causa dell'infortunio, ed in particolare che la presenza a loro posto delle staffe di antiscarrucolamento (risultate precise) avrebbe potuto impedire alle funi, al bozzello ed al gancio dell'organo ausiliario della gru di precipitare investendo la cabina di manovre e il povero S., così come ritenuto dal giudice di primo grado; si era posto in evidenza che la staffa in questione è rappresentata da un tondino di pochi millimetri e che lo stesso consulente del pubblico ministero aveva affermato che probabilmente esse sarebbero state strappate dall'urto degli anzidetti pesanti componenti; si era altresì contestata l'affermazione del medesimo consulente secondo cui in tal caso sicuramente il gancio non sarebbe finito sulla cabina ma avrebbe seguito un'altra traiettoria; si era denunciato che quest'ultimo era un'affermazione del tutto gratuita priva di qualsiasi supporto o spiegazione scientifica, non chiarita dal giudice d'appello e sulla quale era indispensabile la sollecitata perizia invece non ammessa;
si era sottolineato che lo stesso consulente aveva affermato che la causa principale dell'incidente era che si era lavorato tenendo il gancio del lavoro ausiliario istallato sul mezzo, comportamento questo che i difensori degli imputati hanno sempre sostenuto essere direttamente riferibile a una scelta sbagliata e pericolosa dello stesso infortunato e dunque ad un comportamento di quest'ultimo tale da elidere il nesso di causalità;
si lamenta che il giudice di primo grado ha invece ritenuto l'esistenza di una pressi contra legem, consistente nel consentire che la gru lavorasse con i due ganci (quello principale e quello ausiliario) installati contemporaneamente, e che tale tesi, fondata sul travisamento delle risultanze processuali, non è stata debitamente sottoposta a nuova valutazione dal giudice di appello.
Con un secondo motivo ci si duole del diniego di perizia, che si ricorda essere stata sempre sollecitata dalla difesa degli imputati e necessaria laddove, come nella specie, si trattava di ricostruire le cause dell'incidente sulla base di leggi scientifiche.
Con un terzo motivo si lamenta la sussistenza di vizio motivazionale analogo a quello sopra denunciato sul nesso causale anche in relazione ai vari profili di colpa ritenuti sussistenti÷ con riferimento all'obbligo di manutenzione, non si è tenuto conto che la gru veniva utilizzata dal solo S. dagli stessi giudici ritenuto gruista esperto, e che in assenza di segnalazioni di guasti da parte del medesimo o dei tecnici incaricati, non potevano pretendersi intervento alcuno da parte di B. e F. con riferimento alla ritenuta omissione del dovere di formazione e informazione del giurista, non si sono volute considerare le diverse dichiarazioni dei testi ing. V. e B. non si è considerato che la mancata verifica annuale e la concessione in uso della gru non hanno avuto efficacia causale alcuna, nè che andava indagata la prevedibilità ed evitabilità in concreto dell'evento come conseguenza specifica dei vari profili di colpa evocati ed in particolare sotto il profilo delle circostanze in cui si è verificato l'evento allorchè lo S. operava in altro cantiere sotto la guida tecnica ed operativa di altro capocantiere, con impossibilità degli imputati di controllare cosa egli stesse facendo.
Con ulteriore motivo tutti i ricorrenti si soffermano su tale ultimo profilo sostenendo che non è stata opportunatamente valutata la circostanza del c.d. nolo a caldo. S.R. era stato inviato con la gru Gottwald AMK 106-51 in una area del cantiere ENEL diversa da quella in cui operava la Demont srl e precisamente nell'area cantieristica di pertinenza della T.C. snc ed ivi seguiva le direttive impartitegli da capo cantiere di quest'ultima ditta;
nella escutine di questi lavori la gru operava con una configurazione scorretta: nonostante si stesse lavorando con il solo organo principale, la gru aveva mantenuto sia pure parzialmente la configurazione dell'argano ausiliario con relativa fune, bozzello e gancio.
Erroneamente secondo i ricorrenti, i giudici, sia in primo che in secondo grado, hanno escluso ogni responsabilità da parte di dirigenti e preposti della T.C., senza tenere conto che, essendosi l'incidente verificato nel cantiere di quest'ultimo e sotto la sorveglianza della stessa, ne doveva essere almeno vagliata la eventuale responsabilità al fine di valutare se vi fosse stata interruzione del nesso causale o comunque al fine di limitare quella, eventualmente concorrente, della Demont.
Si sostiene che non vi è prova che la gru sia uscita dal cantiere demont s.r.l. con l'erronea configurazione e che tale configurazione che non può che dipendere dallo specifico lavoro che la gru doveva compiere, è stata evidentemente decisa in loco per rispondere alle specifiche esigenze della ditta che aveva richiesto il noleggio, la T.C. snc, con responsabilità di quest'ultima.
Con il quinto motivo sempre comune ai ricorrenti, si deduce difetto di motivazione in ordine alla valutazione delle circostanze.
In particolare si lamenta che negare l'attenuante del risarcimento del danno non si è tenuto conto dell'offerta risarcitoria formulata 10.4.2003 dalla Ras società di assicurazione della Demont, di 155.000,00 Euro nei confronti della vedova dell'operaio deceduto.
Erroneamente il risarcimento è stato ritenuto non tempestivo (mentre è stata effettuata prima del rinvio a giudizio), non valido ai fini di cui trattasi in quanto non proveniente dagli imputati) in contrasto con la giurisprudenza di questa Corte che riconosce la natura oggettiva dell'attenuante e che dunque ammette che il risarcimento possa essere effettuato anche dall'istituto assicurativo) e non accettato (laddove la giurisprudenza ritiene valida oltre all'offerta reale, anche un'offerta comunque estrinsecata in termini chiari, concreti ed incondizionati). Peraltro la provvisionale fissata dal giudice è stata versata.
Con il sesto motivo, anch'esso comune, si eccepisce la nullità dell'ordinanza con cui il Tribunale della Spezia ha ammesso la costituzione di parte civile dei sindacati, nonché del capo della sentenza della Corte di appello che la richiama e del favore. I ricorrenti, premesso che la Corte di appello ha omesso specifiche motivazioni al riguardo, richiamandosi, senza alcuna rivalutazione, alla sentenza di primo grado, riportano la motivazione di tale sentenza che (pp. 2 - 4) ha giustificato la propria decisione affermando che essendo "la questione relativa alla sicurezza nell'ambiente di lavoro uno dei fini sindacali di categoria ... la ritenuta violazione della sicurezza nell'ambiente di lavoro - avente incidenza causale sulla produzione dell'evento mortale, costituisce un fatto ingiusto, fonte certa di un danno altrettanto ingiusto e, per ciò stesso, risarcibile mediante la costituzione di parte civile nel processo penale, nella misura in cui si tratta di una lesione del diritto di personalità del sodalizio, con riferimento allo scopo ed ai suoi componenti. Nel caso di specie, le citate organizzazioni sindacali ... possono vantare non solo un interesse legittimo alla generica osservanza delle norme poste a tutela dei lavoratori, bensì un diritto proprio nel processo penale, da esercitare mediante la costituzione di parte civile e la richiesta di risarcimento del danno subito".
I ricorrenti ricordano che le questioni di diritto che sottengono la vicenda sono state e, sono tutt'ora, oggetto di analisi da parte della dottrina e della giurisprudenza e soggette a rilevanti sviluppi sui quali si sollecita questa Corte a prendere una espressa posizione. Infatti, circa l'analisi dei presupposti per l'esercizio dell'azione risarcitoria da parte delle associazioni sindacali, si è sottolineato, con giurisprudenza a lungo incontrastata, (Sez. 4^ 23.5.1990, n. 18440 Landini, CED n. 186068 e Sezioni Unite 21 maggio, 1988, Iori) la necessità della esistenza, oltre che di una condotta ingiusta, di un danno ingiusto, ritenendo risarcibile solo quello che derivi dalla lesione di un interesse tutelato in via diretta ed immediata da una norma giuridica, ed avente dunque natura di diritto da una norma giuridica, ed avente dunque natura di diritto soggettivo; pervenendo così ad escludere la legitimatio ad causam delle organizzazioni sindacali. I ricorrenti ricordano come a fronte delle aperture provenienti dai giudici di merito, la Cassazione è intervenuta ancora con la sentenza 13 luglio 1993, Arienti con la quale, sulla base dell'art. 9 dello Statuto dei lavoratori, è stata ammessa la legittimazione del sindacato alla costituzione di parte civile a condizione che il lavoratore fosse iscritto al sindacato stesso. Nella specie non vi è prova della iscrizione del lavoratore deceduto ai sindacati parti civili, e certamente non poteva essere iscritto a tutti e tre.
Si sostiene che la partecipazione al giudizio degli enti portatori di interessi collettivi, quali i sindacati, è limitata alla forma prevista dall'art. 91 c.p.p., e cioè ad un intervento che, oltre ad essere subordinato a specifiche condizioni fissate da tale norme, è comunque svincolato da finalità risarcitorie.
Viene criticata poi la ritenuta lesione - da parte della sentenza di primo grado - di un diritto soggettivo alla immagine o alla reputazione da parte delle organizzazioni sindacali, osservandosi che in nessun elemento della succinta motivazione si ricostruisce la prova dimostrativa dell'avvenuta verificazione dell'evento dannoso;
nessun riferimento vi è a calo delle iscrizioni o recesso degli associati.
Si assume, da ultimo, la violazione dell'art. 538 c.p.p., in quanto essendo state dichiarate prescritte tutte le violazioni in materia antonfortunistica, la condanna al risarcimento dei danni avvenuta in mancanza del necessario presupposto costituito da una sentenza di condanna.
I motivi preposti per l'imputato F. si estendono altresì contestare la ritenuta posizione di garanzia; si deduce che egli era stato delegato a sovrintendere alla sicurezza dei cantieri Enel in data (OMISSIS) con facoltà di subdelega e che, esercitando tale facoltà, il (OMISSIS), aveva subdelegato il capocantiere B.G. a sovrintendere alle attività svolta nel cantiere di (OMISSIS). Il F. all'epoca dei fatti, sovrintendeva alla sicurezza di ben 25 cantieri ed aveva conferito la delega al B. in considerazione della sua competenza e capacità organizzativa; pur potendosi ammettere la necessità comunque di una sua supervisione e controllo, la Corte avrebbe dovuto stabilire se si potesse esigere in concreto dal delegante un controllo tanto penetrante ed incisivo da impedire la inosservanza degli obblighi di sicurezza e il comportamento tenuto dallo S..
Sotto il medesimo profilo il difensore del F. contesta altresì l'accertamento della colpa avendo la Corte, a suo avviso, omesso l'accertamento della prevedibilità ed evitabilità dell'evento in concreto, per non avere tenuto conto della sua posizione apicale della presenza di sub delega, delle dimensioni dei suoi compiti che si estendevano alla vigilanza su ben 25 cantieri.
Si duole poi della mancata concessione delle attenuanti generiche.
Motivi della decisione
I ricorsi non meritano accoglimento risultando in parte infondati e in parte manifestamente infondati o non consentiti motivi proposti.
Prendendo in esame innanzitutto le censure che riguardano l'accertamento della responsabuilità degli imputati, deve in primo luogo rilevarsi la inammissbilità delle stesse nella misura in cui si basano su un asserito vizio di travisamento delle prove.
Affinchè tale vizio sia deducibile davanti alla Corte di Cassazione è onere del ricorrente provvedere alla trascrizione in ricorso dell'integrale contenuto degli atti di cui lamenti l'omessa o travisata valutazione, perchè di essi è precluso al giudice di legittimità l'esame diretto, a meno che il "fumus" del vizio non emerga all'evidenza della stessa articolazione del ricorso stesso (da ultimo Sez. 1^ 22.1.2009 n. 6112 rv. 243225).
Tale requisito di completezza e specificità del ricorso è, nel presente caso, assolutamente mancante. Il preteso travisamento è semplicemente evocato a più riprese nel corso del ragionamento, con generico riferimento alle risultanze processuali che - si afferma - avevano pacificamente portato a determinati risultati, senza però mai indicare dove, come e perchè le risultanze processuali sarebbero nel senso preteso e inconciliabili con quanto ritenuto nelle sentenze, senza dunque un preciso ancoraggio a puntuali dati di riferimento che indichino con esattezza il contenuto della prova assunta e che si lamenta ingiustamente travisata.
Rimangono dunque definitivamente accertati i fatti come risultanti dalle sentenza di primo e secondo grado.
Altrettanto infondati sono i ricorsi laddove si dolgono della mancanza di una più approfondita disamina dei motivi di appello atteso che, come già è stato chiarito (sez. 5^ 15.2.2000 n. 3751 rv. 215722) è legittima la motivazione della sentenza di secondo grado che disattendendo le censure formulate con l'appello, si uniformi, sia per la "ratio decidendi, sia per gli elementi di prova, ai medesimi argomenti valorizzati dal primo giudice soprattutto se la consistenza probatoria di essi è così prevalente e assorbente da rendere superflua ogni ulteriore considerazione.
Nell'ipotesi in cui siano dedotte come nella specie, questioni già esaminate e risolte, il giudice dell'impugnazione può motivare "per relationem" e trascurare di esaminare argomenti superflui non pertinenti, generici o manifestamente infondati.
Nessuna illogicità e poi rinvenibile nella motivazione dei giudici di merito laddove gli stessi, la corte d'appello non esplicita rinvio alla più diffusa e integrativa sentenza di primo grado, hanno ritenuto, sulla base degli accertamenti di fatto compiuti, la colpa degli imputati derivante dall'inosservanza dei doveri collegati alle rispettive posizioni di garanzia e la rilevanza del comportamento colposo, come si vedrà sotto plurimi profili accettato sul nesso di causalità.
Anticipando il discorso al tema della colpa, deve in primo luogo rilevarsi che la più diffusa sentenza del tribunale aveva posto in evidenza come subito dopo l'incidente fosse stato incontestabilmente accertato dagli organi ispettivi il grave stato di cattiva conservazione della gru che presentava evidente lesioni strutturali (sulla testa del braccio e sulla c.d. ralla, perdita di olio e non funzionamento del dispositivo dei limitatori di carico), il superamento dei tetti massimi di ore di lavoro previste da parte del gruista, la mancanza della prescritta manutenzione annuale del mezzo nemmeno richiesta all'Arpal dalla società Demont, come sarebbe stato suo dovere, l'assenza di una compiuta informazione e formazione dell'operaio gruista, la recisione delle staffe anti scarrucolamento da entrambi i bracci della gru, la tolleranza di una scorretta prassi di utilizzo della gru (lasciando innestati bozzello e gancio dell'organo ausiliario pur in assenza del jib) in contrasto con quanto prescritto delle istruzioni e al solo scopo di risparmiare tempo nelle operazioni che richiedevano l'uso del braccio secondario.
Correttamente tale giudice ha ritenuto che questi comportamenti colposi hanno avuto incidenza causale sull'evento.
E' stato opportunamente sottolineato che la società Demont utilizzava e faceva utilizzare dai propri dipendenti un macchinario, quale la gru di cui si discute, assai sofisticato e altamente pericoloso, senza accertarsi del suo stato di conservazione e funzionamento, e dunque con colpa rilevante ai fini del presente processo essendo evidente che ove fosse stata compiuta la prescritta verifica annuale i tecnici dell'Arpal avrebbero potuto verificare la avvenuta recisione delle staffe di antiscarrucolamento e la disapplicazione dello schema di armamento delle funi rispetto a quanto previsto dal costruttore.
E' stata altresì rilevato, richiamando le osservazioni del consulente del pubblico ministero, che la presenza delle staffe anti scarrucolamento (pacificamente risultate recise da tempo essendosi ormai ossidati i punti di recisione) avrebbe evitato il verificarsi dell'incidente, dovendosi qui evidenziare - per rispondere al motivo di ricorso proposto al riguardo - che il Tribunale (pag. 19) aveva già riportato una importante precisazione del consulente tecnico il quale, pur avendo ammesso che, qualora tali staffe fossero state regolarmente al loro posto probabilmente la forza di tensione dell'allungamento del braccio della gru avrebbe potuto anche strapparle via e quindi il bozzello sarebbe potuto passare oltre la testa della gru, aveva tuttavia aggiunto che in tale ipotesi certamente il manovratore si sarebbe reso conto di quanto stava per accadere ed in ogni caso, sicuramente il peso non sarebbe finito sopra la cabina, perchè la interferenza dovuta alla presenza delle staffe stesse lo avrebbe fatto andare da un'altra parte. Si tratta di affermazione che esprime un giudizio di facile e comune comprensione e che non necessita pertanto, come ritenuto dai giudici di merito, di conferma scientifica.
Pacifica poi è l'efficacia causale delle modifiche apportate rispetto al corretto armamento della gru, atteso che proprio la presenza in loco del bozzello e del gancio dell'argano ausiliario in assenza del jib ha comportato, in una con la recisione delle staffe anticarrucolamento, la produzione dell'evento mortale che si è verificato per il contraccolpo e lo scivolamento all'indietro dei detti componenti.
La Corte di appello ha, peraltro ritenuto decisiva la circostanza della rimozione delle staffe antiscarrucolamento sottolineando, con osservazione di indubbia pregnanza e difficilmente contestabile, che tali staffe erano costituite da sbarre metalliche saldate alla testa del braccio della gru in modo ortogonale, che le stesse erano state recise da tempo con la fiamma ossidrica e che appariva oltremodo difficile ipotizzare una causa del sinistro per causa diversa, ritenendo dunque superflua l'effettuazione della sollecitata perizia.
La valutazione è congrua e non censurabile essendo pacificamente compito dei giudici di merito l'accertamento delle circostanze di fatto rilevanti ai fini del decidere e la valutazione della completezza della attività istruttoria, salvo l'obbligo della motivazione che nella specie risulta rispettato specie allorchè si tenga conto di tutte le precisazioni effettuate dal consulente del pubblico ministero.
La difesa dei ricorrenti prospetta ancora la tesi volta ad attribuire, da un lato, la responsabilità dell'incidente allo stesso S., per avere operato con la impropria configurazione della gru, ovvero, dall'altro, al personale della T.C. snc dove la gru concretamente operava al momento dell'incidente. Anche tali profili hanno trovato risposta, essendosi correttamente osservato che la colpa non poteva in alcun modo addebitarsi al gruista dal momento che le modifiche della gru (la recisione delle staffe) erano assolutamente visibili, e l'utilizzo della stessa con una configurazione vietata era ben nota ed avveniva nell'interesse della società Demont, per accorciare i tempi necessari a rendere operativa la gru stessa e consentire di effettuare più rapidamente il lavoro , la società dunque, anzi che consentire una prassi pericolosa, avrebbe dovuto vigilare per impedirlo, così come avrebbero dovuto i suoi responsabili curare la manutenzione della gru e la formazione del personale, risultata carente sotto il profilo della specifica attività dei gruista e dei rischi connessi alla stessa.
Dal secondo punto di vista, è stato ben chiarito che per effetto del c.d. nolo a caldo, la gru e il suo operatore erano stati destinati ad operare, svolgendo una attività del tutto analoga a quella normalmente compiuta nel proprio ambiente di lavoro, nel diverso cantiere della T.C. e dunque sottoposti alle direttive dei responsabili di cantiere quanto alle concrete modalità del lavoro da eseguire e ai rischi specifici derivanti dall'impiego del mezzo nel detto cantiere; restava però a carico dei responsabili della Demont l'obbligo di garantire la sicurezza sul lavoro del proprio dipendente e soprattutto quello di affidargli un mezzo conforme alle prescrizioni della normativa per la prevenzione infortuni, ben conservato, in regola con la manutenzione e altresì l'obbligo di assicurarsi che il lavoratore fosse bene istruito e informato sulle modalità di uso di tale mezzo e che lo stesso venisse concretamente utilizzato conformemente alle prescrizioni di sicurezza; obblighi e cautele che si sono invece rivelati pesantemente disattese.
Con specifico riferimento alla posizione dell'imputato F. resta da esaminare la questione della efficacia esimente dalla "delega" dallo stesso conferita dal "capocantiere" B..
Deve al riguardo chiarirsi che, come emerge pacificamente delle sentenze impugnate (in particolare da quella di primo grado pag. 30), F. aveva ricevuto delega scritta per la materia della prevenzione infortuni da parte dell'amministratore delegato della divisione industriale della Demont (delega che il giudice di primo grado ha ritenuto effettiva in quanto erano stati trasferiti piena autonomia, poteri di spesa, mezzi economici e obbligo di vigilanza sui subdelegati), e a sua volta aveva conferito a B. parte di tali incombenze, incaricandolo di sovrintendere alle attività svolte nel cantiere aperto in (OMISSIS) con particolare cura per quanto riguarda il rispetto delle disposizioni vigenti in materia di sicurezza del lavoro. si trattava, quanto a quest'ultima delega, della attribuzione al B. delle funzioni tipiche del preposto, quelle cioè che al medesimo B. sarebbero spettate anche in assenza di delega espressa, essendo strettamente collegate alla posizione funzionale, di capocantiere (e dunque preposto), dal medesimo rivestita. Tanto si precisa per fare chiarezza sulle rispettive posizioni degli imputati, da individuarsi quella di F. in relazione alla sua qualità di datore di lavoro (o ad esso equiparato stante la provenienza a pienezza dei poteri che la delega dell'amministratore delegato gli aveva attribuito) e di semplice preposto con riguardo a B.; ed in particolare per eliminare ogni equivoco sulla possibilità che con tale delega il F. potesse considerarsi esentato da ogni responsabilità.
Equivoco che il ricorso che il ricorso in qualche modo sembra contenere, laddove fa riferimento alle dimensioni dell'azienda, sottolineando che vi erano ben 25 cantieri aperti, alla autonomia del delegato B. e alla sua qualificazione professionale per sostenere che non era pure si riconosce che gli competeva, di supervisione e controllo e si lamenta che i giudici di merito, pur dando atto di tale situazione, non ne abbiano tratto le dovute conseguenze. Tanto premesso, risulta assolutamente corretta la ritenuta responsabilità di F. per essere venuto meno al dovere di vigilanza e controllo circa la corretta esecuzione da parte del preposto delle proprie funzioni, dovere che peraltro la tessa delega a F. imponeva di rispettare, e che la pacifica da ultimo sez. 4^ 12.10.2005 n. 44650 rv. 232617 giurisprudenza di questa Corte ha costantemente ribadito affermando in particolare che "In tema di prevenzione infortuni il datore di lavoro, così come il dirigente, deve controllare acchè il preposto, nell'esercizio dei compiti di vigilanza affidatagli, si attenga alle disposizioni di legge e a quelle, eventualmente in aggiunta, impartitegli. Ne consegue che, qualora nell'esercizio dell'attività lavorativa sul posto di lavoro si instauri, con il consenso del preposto, una prassi contra legem, foriera di pericoli per gli addetti il datore di lavoro do il dirigente, ove infortunio si verifichi, non può utilmente scagionarsi assumendo di non essere stato a conoscenza della illegittima prassi, tale ignoranza costituendolo, di per sè, in colpa per denunciare l'inosservanza al dovere di vigilare sul comportamento del preposto, da lui delegato a far rispettare le norme antinfortunistiche" (sez. 4^ 16.11.1998 n. 17491, Raho m. u. 182857;
Sez. 4^ 16.1.2004 n. 18638 m. u. 228344).
Infondate sono le censure attinenti il mancato riconoscimento dell'attenuante del risarcimento del danno. Infatti, pur dovendosi concordare con la difesa circa la possibilità di ritenere valido ai fini in esame anche il risarcimento effettuato dall'istituto ai fini in esame anche il risarcimento effettuato dall'istituto assicurativo secondo la ormai pacifica giurisprudenza di questa Corte, resta il fatto che la concedibilità dell'attenuante presuppone l'effettivo ed integrale risarcimento del danno; nel caso in esame la somma offerta di Euro 155.000,00 messa a disposizione della compagnia assicurativa RAS, è stata invece ritenuta inadeguata dalla persona offesa a titolo di complessivo risarcimento per il sinistro e per il pagamento degli onorari professionali; valutazione condivisa dai giudici di merito, essendo stata riconosciuta, a titolo di semplice provvisionale, la ben più alta somma di Euro 200.000,00.
La valutazione della Corte di appello in ordine al giudizio di equivalenza delle attenuanti generiche con quella della violazione della normativa di prevenzione risulta correttamente motivata sulla base della gravità del fatto e della prolungata condotta omissiva degli imputati.
Deve da ultimo affrontarsi il tema della costituzione di parte civile delle organizzazioni sindacali.
Al riguardo è opportuno in primo luogo ribadire che, come hanno già avuto modi di chiarire le sezioni unite di questa Corte con la sentenza Iori, n. 6168 del 21.5.1988 rv. 181123, l'ordinanza di ammissione della costituzione di parte civile non è impugnabile autonomamente; con essa si pone infatti una questione strettamente correlata con il diritto (al risarcimento del danno derivato dallo specifico reato contestato).
Non è dunque censurabile la sentenza impugnata che no ha preso posizione al riguardo.
Un'altra precisazione si rende preliminarmente necessaria con riferimento ai diritti riconosciuti agli enti e associazioni rappresentativi degli interessi lesi dal reato degli artt. 91 e seg. del codice di rito, disposizioni che, secondo la difesa dei ricorrenti, esaurirebbero le possibilità di tutela che l'ordinamento riconosce agli enti esponenziali. Ritiene al riguardo il Collegio che la prospettiva non sia esatta. Gli articoli richiamati prevedono una forma di intervento e partecipazione al processo penale sicuramente nuova, in quanto non conosciuta dal codice di rito previgente, ma non esaustiva delle facoltà riconosciute ad enti e associazioni rappresentativi degli interessi lesi dal reato; si tratta di modalità di partecipazione al processo ulteriore rispetto alla costituzione di parte civile, che resta pienamente possibile e consentita nei limiti di quanto stabilito dall'art. 74 c.p.p., e del richiamato art. 185 c.p.; ciò è confermato dalla disposizione dell'art. 212 disp. att. c.p.p. il cui senso è quello di ricondurre la possibilità di costituzione di parte civile, eventualmente consentita da disposizione previgenti, al rispetto dei limiti di cui al predetto art. 74 c.p.p.. Nè può diversamente ritenersi a seguito della espressa previsione contenuta nel D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 61 che attribuisce alle organizzazioni sindacali e alle associazioni delle vittime dei familiari delle vittime di infortuni sul lavoro la facoltà di esercitare i diritti e le facoltà della persona offesa, trattandosi di una previsione che non modifica il quadro generale delle possibilità di partecipazione al processo, ma si limita a riconoscere a determinati soggetti, tra cui anche i sindacati, il potere di intervenire nel processo a prescindere dai requisiti stabiliti dal codice di rito.
Venendo al tema di fondo posto dai ricorsi degli imputati, la questione della legittimazione a costituirsi parte civile nel procedimento penale promosso per un reato che si concreta nell'essere stata cagionata la morte o lesioni personali ad un lavoratore subordinato con inosservanza delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, si inquadra nel più generale tema del riconoscimento della tutela degli interessi collettivi e diffusi e della azionabilità di posizioni giuridiche soggettive non rientranti nella tradizionale nozione di diritto soggettivo.
Si tratta di questione delicata e a lungo dibattuta, riguardo alla quale appare opportuno un breve inquadramento sistematico ed il richiamato dei passaggi fondamentali che hanno segnato l'evoluzione della giurisprudenza di questa Corte, senza peraltro pretesa di completezza alcuna, certamente non possibile nei limiti della presente decisione e attesa la complessità della materia.
Riferimento fondamentale in materia è l'art. 74 del codice di rito vigente, a norma del quale "l'azione civile per le restituzioni e per il risarcimento del danno di cui all'art. 185 c.p. può essere esercitata nel processo penale del soggetto la quale il reato ha recato danno ovvero dai suoi successori universali nei confronti dell'imputato e del responsabile civile". La norma è sostanzialmente conforme alla disciplina precedente, rispetto alla quale il termine persona è stato però sostituito con quello "soggetto" per chiarire che sono legittimate non solo le persone fisiche e giuridiche ma anche soggetti non personificati, come appunto è il caso che qui interessa, avendo il sindacato natura giuridica di associazione non riconosciuta.
La questione della legittimazione alla costituzione di parte civile (legitimatio ad causam) si risolve dunque nella individuazione del soggetto al quale il reato ha recato danno e dei requisiti del danno risarcibile (danno ingiusto).
Per lungo tempo la giurisprudenza di questa Corte, sia civile che penale, ha affermato, almeno in prevalenza, principi assai restrittivi in materia che possono ricondursi alla necessità che il danno consista nella lesione di un diritto soggettivo e sia conseguenza immediata e diretta dell'illecito (v. in particolare sez. un. Civili 8.5.1978 n. 2207 Prov. Autonoma di Trento c./Italia Nostra; sez. un. Penali 21.4.1979 n. 5519 pelosi rv. 142254 e sez. un. Penali 21.5.1988 n. 3 Iori rv.).
In particolare in questa ultima sentenza, premesso che l'azione civile per le restituzioni e il risarcimento del danno è unica, sia che venga esercitata proponendo la relativa domanda al giudice civile, sia che venga proposta in sede penale e che identici sono i presupposti e le condizioni necessarie per l'ammissibilità della domanda, è stato chiarito che la legittimazione alla costituzione di parte civile corrisponde alla titolarità del diritto fatto valere con l'azione proposta e che il danno per essere risarcibile, deve essere ingiusto, ribadendosi che danno ingiusto è quello che deriva dalla lesione di un interesse tutelato in via diretta ed immediata dall'ordinamento e cioè dalla lesione di un diritto soggettivo; si è esclusa la legittimazione a costituirsi parte civile del consiglio di fabbrica sulla base del seguente principio "in caso di reato colposo a danno di un lavoratore, verificatosi per l'inosservanza di una norma di prevenzione degli infortuni da parte di un soggetto obbligato a garantire la sicurezza dello svolgimento del lavoro, il consiglio di fabbrica non ha titolo a pretendere il risarcimento del danno da parte di chi, mediante l'inosservanza della norma di prevenzione, ha cagionato il reato e non può quindi costituirsi parte civile perchè, in tal caso, il diritto leso è quello alla propria integrità fisica, spettante esclusivamente al singolo lavoratore, e non quello, spettante alla collettività dei lavoratori, al controllo dell'applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali e alla promozione di ricerca, elaborazione e attuazione di tutte le misure idonee a tutelare la salute e l'integrità fisica dei lavoratori".
La sentenza ha approfondito il tema degli interessi collettivi pur riconoscendo che anche tali interessi, definiti collettivi in quanto riferibili appunto ad una collettività indeterminata dei soggetti impersonalmente ritenuti portatori degli interessi stessi, possono essere tutelati in modo diretto ed immediato dall'ordinamento giuridico cosi da assurgere a diritti (e che il danno risarcibile può essere sia patrimoniale che non patrimoniale), ha precisato che l'interesse collettivo assurge a diritto solo quando è individuato a una norma cosiddetta di protezione che dà giuridico rilievo all'interesse stesso con riferimento ad una collettività determinata, caratterizzata dalla comunanza degli interessi in questione, facendo assurgere la collettività stessa al soggetto di diritto. Ha poi individuato nel potere di diretto controllo sull'osservanza della normativa di protezione dei lavoratori e di autonoma promozione di attività di studio e ricerca al riguardo l'interesse direttamente protetto dall'art. 9 dello Statuto del Lavoratori in capo alla collettività dei lavoratori di ciascuna azienda (nella specie si discuteva della costituzione di parte civile del consiglio di fabbrica), escludendo che il fatto illecito contestato, l'avere gli imputati cagionato lesioni colpose a un dipendente, potesse ritenersi lesivo del diritto individuato dall'art. 9. Allorchè, a causa dell'inosservanza di una norma di prevenzione, si verifichi una lesione della salute di un lavoratore, un tale fatto, di per sè, secondo le Sezioni Unite, non implica la violazione del diritto conferito alla collettività dei lavoratori dall'art. 9; implica la violazione del diritto alla salute del lavoratore, il quale soltanto ha titolo per pretendere il risarcimento del danno da parte di chi, mediante la inosservanza della norma di prevenzione, ha cagionato la lesione.
La necessità della diretta ed immediata consequenzialità tra reato e danno (ancorata allo specifico requisito previsto dall'art. (Ndr:
testo originale non comprensibile) c.c. in tema di responsabilità per inadempimento contrattuale) e questa Corte, via via che si evidenziava la natura plurioffensiva dell'illecito penale e si affermava la possibilità di ritenere risarcibili anche danni che nella norma penale trovano solo una protezione mediata, non costituendo gli stessi oggetto pacificamente ritenuto (da ultimo sez. 1 8.11.2007 n. 4060 rv 239189; sez 1 2.3.2005 n. 13408 rv 231336; sez 3 12.7.2004 n. 36059 rv 229481) che il danneggiato dal reato ai sensi degli artt. 185 e 74 c.p.p. non si identifica necessariamente con il soggetto passivo del reato, ma è chiunque abbia riportato un danno attivo del reato. E anche la dottrina ha affermato che la locuzione "danno immediato e diretto" esprime semplicemente reato e danno, richiedendo uno stretto collegamento del danno con gli interessi tutelati dalla norma penale incriminatrice al fine di evitare che vengano esercitate in sede penale azioni civili solo occasionalmente connesse al reato per cui si procede.
Requisito centrale del danno risarcibile è dunque diventato quello posto dall'art. 2043 c.c. del "danno ingiusto".
Tradizionalmente, e lo si è già sopra ricordato, l'ingiustizia del danno è stato identificato nella lesione di un diritto soggettivo.
Si è avuto, però, negli ultimi anni, un fenomeno notevolmente ampliativi dell'area del danno risarcibile, che sulla spinta della più attenta e moderna dottrina ha visto una sensibile giurisprudenza civile ed anche penale riconoscere la azionabilità di situazioni giuridiche soggettive qualificate dalla lesione di interessi particolari non strettamente riconducibili al diritto soggettivo.
Si possono ricordare, in sede civile, la risarcibilità del danno conseguente alla lesione da parte di un terzo di un diritto di credito (cd. tutela aquilana del credito); il riconoscimento di posizioni giuridiche, quali il cd. diritto all'integrità del patrimonio e il cd. diritto alla libera determinazione negoziale che, pur non avendone la consistenza, venivano elevate al rango di diritto soggettivo; il riconoscimento del danno da perdita di chance e quello da lesione di legittime aspettative nell'ambito dei rapporti familiari ed anche al di fuori di essi con riferimento alla famiglia di fatto. Particolarmente significative, nella prospettiva evolutiva qui evidenziata, sono state le sentenze delle sez. un. Nn. 500 e 501 del 1999, che hanno riconosciuto la risarcibilità, in precedenza sempre negata, del danno provocato dalla lesione dell'interesse legittimo e che, come si ricava dalla semplice lettura di una delle massime estratte, contengono affermazioni di principio di carattere generale che vanno al di là della soluzione dello specifico caso considerato, essendosi ritenuto che "la normativa sulla responsabilità aquiliana ex art. 2043 cod. civ., ha la funzione di consentire il risarcimento del danno ingiusto, intendendosi come tale il danno arrecato "non iure", il danno, cioè inferto in assenza di una causa giustificativa, che si risolve nella lesione di un interesse rilevante per l'ordinamento, a prescindere dalla sua qualificazione formale, ed, in particolare senza che assume rilievo la qualificazione dello stesso in termini di diritto soggettivo.
Peraltro, avuto riguardo al carattere atipico del fatto illecito delineato dall'2043 cod. civ., non è possibile individuare in via preventiva gli interessi meritevoli di tutela spetta, pertanto, al giudice, attraverso un giudizio di comparazione tra gli interessi in conflitto, accertare se, e con quale intensità, l'ordinamento appresta tutela risarcitoria all'interesse del danneggiato, ovvero comunque lo prende in considerazione sotto altri profili, manifestando, in tal modo, una esigenza di protezione. Ne consegue, che anche la lesione di un interesse legittimo, al pari di quella di un diritto soggettivo e di altro interesse giuridicamente rilevante, può essere fonte di responsabilità aquilana, e, quindi, dar luogo a risarcimento del danno ingiusto, a considerazione che risulti danneggiato, per effetto dell'attività illegittima della P.A., l'interesse al bene della vita al quale il primo si correla, e che detto interesse risulti meritevole di tutela alla stregua del diritto positivo".
Tali affermazioni, in una con quella parametri contenuta nella sentenza secondo cui "l'art. 2043 c.c., racchiude in sè una clausola generale di responsabilità", hanno indotto alcuni autori ad affermare che ormai il danno ingiusto può identificarsi in un danno inferto "non iure" e lesivo di una situazione soggettiva giuridicamente protetta, alla quale cioè l'ordinamento, a prescindere della qualificazione formale in termini di diritto soggettivo, ha attribuito rilevanza; con conclusione soltanto della risarcibilità degli interessi di mero fatto e delle aspettative semplici, prive di rilevanza giuridica.
Si tratta di una prospettiva di larga apertura, particolarmente significativa per la questione che qui interessa, che si salda con un'altra affermazione rinvenibile nella giurisprudenza della Corte che con sentenza della Sezione Prima Civile n. 1540 del 11.2.1995 rv.
490387, per la verità rimasta isolata, aveva affermato che per i danni prodotti da reato, il requisito dell'ingiustizia è "in re ipsa" e non ha, quindi bisogno di essere collegata alla violazione di un diritto soggettivo, giustificandosi tale affermazione proprio in relazione alla particolare fonte dell'obbligazione risarcitoria rappresentata da quei comportamenti che qualificandoli appunto come reato l'ordinamento dimostra di volere reprimere più severamente.
Anche sotto altri profili la giurisprudenza civile ha avuto notevoli effetti riflessi sulla estensione della possibilità di partecipare al giudizio penale, costituendosi parte civile, di enti e associazioni. Ci si riferisce, da un lato, all'ampliamento della nozione di danno non patrimoniale e, dall'altro, al riconoscimento del diritto al risarcimento di tale danno in favore degli enti collettivi.
Sono note le sentenze della 3^ sezione civile di questa Corte del 31 maggio 2003 n. 8828 e 8827 che hanno interpretato l'art. 2059 c.c. nel senso che "il danno non patrimoniale deve essere inteso come categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un valore della persona", non potendo valere la limitazione di cui all'art. 2059 (di risarcibilità del danno non patrimoniale solo se derivante da reato) laddove la lesione ha riguardo a valori della persona costituzionalmente garantiti ed in particolare i diritti inviolabili dell'uomo riconosciuti dall'art. 2 Cost.. E' evidente, ed è stato sottolineato da attenti commentatori, che tale autorevole presa di posizione ha influenza sulla giurisprudenza penale sotto il profilo delle ampliate possibilità per la parte civile di costituirsi nel giudizio penale invocando il risarcimento di danni non patrimoniali diversi dal danno morale soggettivo, in precedenza unicamente qualificato quale danno morale soggettivo, in precedenza unicamente qualificato quale danno non patrimoniale.
Come pure è stato sottolineato che l'ampliamento della categoria del danno non patrimoniale riparabile al di là della categoria del danno morale soggettivo, ha comportato un ampliamento del diritto al risarcimento del danno in favore degli enti collettivi, ora pienamente riconosciuto dalla giurisprudenza non solo nei casi di "non ragionevole durata del procedimento" di cui alla cd. Legge Pinto, ma anche con affermazioni di ampio respiro, come nel caso della sentenza della 3^ sez. n. 12929 del 4.6.2007 Icg Spa contro Deutsche Bank Spa, rv. 597309, secondo cui: "Poichè anche nei confronti della persona giuridica ed in genere dell'ente collettivo è configurabile la risarcibilità del danno non patrimoniale allorquando il fatto lesivo incida su una situazione giuridica della persona giuridica o dell'ente che sia equivalente ai diritti fondamentali della persona umana garantiti dalla Costituzione, e fra tali diritti rientra l'immagine della persona giuridica o dell'ente, allorquando si verifichi la lesione di tale immagine, è risarcibile, oltre al danno patrimoniale, se verificatosi, e se dimostrato, il danno non patrimoniale costituito - come danno cd. conseguenza - dalla diminuzione della considerazione della persona giuridica o dell'ente nel che si esprime la sua immagine, sia sotto il profilo della incidenza negativa che tale diminuzione comporta nell'agire delle persone fisiche che ricoprano le distinte funzioni degli organi delle fisiche che ricoprano le distinte funzioni degli organi della persona giuridica o dell'ente e, quindi, nell'agire dell'ente, sia sotto il profilo della diminuzione della considerazione da parte dei consociati in genere o di settori o categorie di essi con le quali la persona giuridica o l'ente di norma interagisca. Il suddetto danno non patrimoniale va liquidato alla persona giuridica o all'ante in via equitativa, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto".
Affermazioni che trovano riscontro nella giurisprudenza penale della Corte, essendosi testualmente affermato (sez. 6^ 5.12.2003 n. 21677 rv 229393) che la risarcibilità del danno non patrimoniale è concepibile a favore di un ente pubblico e che (sez. 1^ 8.11.2007 n. 4060 rv 239190) i danni non patrimoniali, rappresentati da turbamenti morali della collettività, sono risarcibili a favoe degli enti pubblici esponenziali di essa, anche qualora taluno di tali enti sia stato costituito in epoca successiva alla consumazione del fatto di reato. (nel caso di specie, relativo alla strage di (OMISSIS), commessa il (OMISSIS), la Suprema Corte ha riconosciuto la legittimità della Costituzione di parte civile della Regione Toscana - ente costituito successivamente alla consumazione del fatto di reato -, della Provincia di Lucca, del Comune di Stazzema e della Presidenza del Consiglio dei Ministri, rilevando che il crimine di guerra in esame, "commesso con lo sterminio di buona parte della popolazione di (OMISSIS), composta prevalentemente da vecchi, donne e bambini, ed ... attuato con modalità efferate, in totale dispregio del più elementare senso di umanità e dei valori comunemente accolti in ogni società civile, anche in tempo di guerra", ha "provocato dolore, sofferenze, sbigottimento nella collettività di cui le parti civili costituiscono enti esponenziali, creando nella memoria collettiva - per l'inimmaginabile livello di spietatezza e di crudeltà - una ferita non rimarginata, che ancora oggi è fonte di indelebile turbamento ed è produttiva di danno non patrimoniale risarcibile").
E con specifico riguardo alla giurisprudenza penale, non può stupire che, nel quadro, sopra delineato di vasta apertura verso la tutelabilità di sempre più ampie posizioni soggettive, si sia sviluppato un orientamento, nel tempo via via sempre più ribadito, favorevole al riconoscimento della possibilità di costituzione di parte civile degli enti collettivi.
Particolarmente significativo e foriero di notevoli aperture è il principio affermato dalla 6^ sezione penale con sentenza dell'1.6.1989 n. 59 rv 182947 secondo cui "Gli enti e le associazioni sono legittimati all'azione risarcitorie, anche in sede penale mediante costituzione di parte civile, ove dal reato abbiano ricevuto un danno a un interesse proprio, semprechè l'interesse leso coincida con un diritto reale o comunque con un diritto soggettivo del sodalizio, e quindi anche se offeso sia l'interesse perseguito in riferimento a una situazione storicamente circostanziata, da esso sodalizio preso a cuore e assunto nello statuto a ragione stessa della propria esistenza e azione, come tale oggetto di un diritto assoluto ed essenziale dell'ente. Ciò sia a causa dell'immedesimazione fra l'ente stesso e l'interesse perseguito, sia a causa dell'incorporazione fra i soci ed il sodalizio medesimo, sicchè questo, per l'affectio societatis verso l'interesse prescelto e per il pregiudizio a questo arrecato, patisce un'offesa e perciò anche un danno non patrimoniale dal reato". La Corte, con questa ed altre coeve, lucide ed approfondite decisioni dello steso tenore, ha osservato come non diversamente da quanto avviene per il territorio, oggetto di un rapporto di integrazione con il Comune che giustifica l'assunzione da parte dell'ente degli interessi che sul territorio stesso incidono, vi sono gruppi o collettività che hanno fatto di un determinato interesse l'oggetto principale, essenziale, della propria esistenza, di talchè l'interesse stesso è diventato elemento interno e costitutivo del sodalizio e come tale ha assunto la consistenza di diritto soggettivo. Sulla base della rivalutazione degli interessi solidaristici e partecipativi riconosciuti dalla Costituzione, questa Corte ha non soltanto ribadito la (peraltro già riconosciuta sez. un. civili n. 2207 del 1978 Italia Nostra; sez. un. penali n. 3 del 1998 Iori) tutelabilità degli interessi collettivi, ma ha affermato che il riconoscimento di un diritto soggettivo in capo al soggetto che degli stessi è portatore deriva non necessariamente dalla c.d. norma di protezione (dalla sentenza Iori, come si è visto, ritenuta necessaria), ma può discendere dalla diretta assunzione di esso da parte dell'ente che ne ha fatto oggetto della propria attività, diventando lo scopo specifico dell'associazione.
Questa impostazione ha trovato seguito nella giurisprudenza della Corte non soltanto con riferimento a casi analoghi, essendosi anche di recente confermata la legittimazione alla costituzione di parte civile dell'ordine professionale nel procedimento a carico di soggetto imputato di esercizio abusivo della professione (sentenza del 6.2.2008 n. 22144 rv 2400017), ma altresì in relazione a situazioni diversificate come quella della ribadita legittimazione delle associazioni ecologiste (sez. 3^ 5.4.2002 n. 22539 rv 221881;
sez. 3^ 21.10.2004 n. 46746 rv 231306; sez. 3^ 21.5.2008 n. 35393 rv 240788), quella della Federazione Pirateria Audiovisiva (FEPAV) in procedimento avente ad oggetto il reato di cui alla L. n. 633 del 1941, art. 171 ter sulla tutela del diritto d'autore; del Sindacato unitario lavoratori di polizia (SIULP) di appartenenza della vittima di reato di violenza sessuale posto in essere sul luogo di lavoro (sez. 3^ 7.2.2008 n. 12738 rv 239409); del Sindaco per reato sessuale commesso nel territorio comunale; del Tribunale del malato in procedimento per reato colposo; del Tribunale del malato in procedimento per reato colposo derivante da colpa medica (sez. 5^ 17.2.2004 n. 13989 rv 228025.
In tutti questi casi il riconoscimento della legittimazione a costituirsi parte civile è stato motivato ritenendo che l'ente, per il proprio sviluppo storico, per l'attività da esso concretamente svolta e la posizione assunta, avesse fatto proprio, quale fine primario, quello della tutela di interessi coincidenti con quelli lesi o posti in pericolo dallo specifico reato considerato, derivando da tale immedesimazione una posizione di diritto soggettivo che lo legittimava a chiedere il risarcimento dei danni da tale reato anche ad esso derivanti.
Con specifico riferimento alla legittimazione delle organizzazioni sindacali dei lavoratori per i reati che costituiscono violazione della integrità fisica dei lavoratori, non si riscontrano decisioni recenti di questa Corte, la cui giurisprudenza è pertanto ferma alla più volte richiamata sentenza Iori del 1988 e ad altra decisione di qualche anno successiva (sez. 4^ 16.7.1993 n. 10048, Arienti).
La sentenza Iori aveva riconosciuto, ingenerale, alle rappresentanze dei lavoratori di cui all'art. 19 dello Statuto dei lavoratori la qualità di soggetto legittimato a far valere in giudizio, anche mediante la costituzione di parte civile, quei diritti di controllo e prevenzione che l'art. 9 dello stesso Statuto; ne aveva però negato la sussistenza nel caso di specie per mancanza di prova di un comportamento direttamente lesivo di tale diritto.
La sentenza Arienti (sez. 4^ 16.7.1993 n. 10048) ha riconosciuto anch'essa la legittimazione dei sindacati a costituirsi parte civile, ma ha ritenuto condizione necessaria la iscrizione agli stessi sindacati dei lavoratori interessati.
Ritiene il Collegio che il mutato quadro di riferimento, di cui si è detto sopra, porti a ritenere ammissibile, senza il predetto limite della iscrizione, la costituzione di parte civile dei sindacati nei procedimenti per reati di omicidio o lesioni colpose commesse con violazione della normativa antinfortunistica, dovendosi ritenere che l'inosservanza di tale normativa nell'ambito dell'ambiente di lavoro possa cagionare un autonomo e diretto danno patrimoniale (ove ne ricorrano gli estremi) o non patrimoniale, ai sindacati per la perdita di credibilità all'azione dagli stessi svolta.
E' pacifico che il sindacato annovera tra le proprie finalità la tutela delle condizioni di lavoro intese non soltanto nei profili collegati alla stabilità del rapporto e agli aspetti economici dello stesso, oggetto principale e specifico della contrattazione collettiva, ma anche per quanto attiene la tutela delle libertà individuali e dei diritti primari del lavoratore tra i quali quello, costituzionalmente riconosciuto, della salute. La tutela delle condizioni di lavoro con riferimento alla sicurezza dei luoghi di lavoro e di prevenzione delle malattie professionali costituisce sicuramente, specie nel momento attuale, uno dei compiti delle organizzazioni sindacali.
Come è stato osservato, il diritto alla sicurezza sui luoghi di lavoro, pur rilevando dal punto di vista della sua titolarità sul piano individuale, trova altresì idonea tutela attraverso gli strumenti della autonomia collettiva essendosi l'azione sindacale rivelata utilissimo strumento di prevenzione. Sotto tale profilo, l'art. 9 dello Statuto dei lavoratori ha costituito il primo riconoscimento della presenza organizzata dei lavoratori a tali fini, consentendo la costituzione di proprie rappresentanze con il compito di controllare l'applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali e di promuovere la ricerca al fine della migliore tutela della loro salute e integrità fisica. Anche se tale disposizione non ha avuto nella pratica lo sviluppo e l'intensità di applicazione che sarebbe stata auspicabile, rimanendo la presenza dei lavoratori e delle loro rappresentanze sindacali prevalentemente orientata alla tutela degli aspetti economici della prestazione lavorativa, essa rappresenta tuttavia una innegabile attribuzione di competenza alle forme associative di lavoratori, cui sono stati, con essa, riconosciuti specifici poteri sollecitatori. Come è stato osservato, l'art. 9 dello Statuto dei lavoratori ha aperto la via al riconoscimento alle organizzazioni rappresentative dei lavoratori della qualità di soggetti istituzionali nella garanzie della sicurezza sul lavoro.
Ulteriori e più pregnanti attribuzioni alle associazioni sindacali sono state successivamente effettuate dalla legislazione interna di attuazione della normativa comunitaria (dir. N. 391 del 1989) che, con riferimento alla sicurezza sul lavoro, sollecitava gli Stati a garantire ai lavoratori e ai loro rappresentanti un diritto di partecipazione conforme alle prassi e/o alle legislazioni dei singoli Stati.
Il D.Lgs. n. 626 del 1994 ha così attuato un coinvolgimento dei lavoratori nella tematica della prevenzione assai più incisivo di quello già contenuto nell'art. 9 dello Statuto, stabilendo (artt. 18 e 20) che in tutte le aziende o unità produttive deve essere eletto o designato il rappresentate dei lavoratori per la sicurezza, con funzioni di accesso, consultazione e proposizione espressamente previste e con garanzie di libertà per l'esercizio dei suoi compiti.
Con il Testo unico 9 aprile 2008 n. 81 il sistema è stato confermato ed anzi rafforzato, distinguendosi tre tipologie di rappresentati dei lavoratori per la sicurezza, rispettivamente al livello aziendale, territoriale o di comparto, e di sito produttivo, assicurando loro una specifica formazione i cui contenuti sono demandati alla contrattazione collettiva. Nel Testo Unico il ruolo delle organizzazioni sindacali all'intero del sistema della sicurezza è confermato, tra l'altro, dalla presenza di dieci esperti designati delle organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente più rappresentative a livello nazionale all'interno della "Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza sul lavoro" costituita ai sensi dell'art. 2 del cit. decreto presso il Ministero del Lavoro; e dalla previsione del potere di interpello al Ministero del lavoro da parte delle stesse organizzazioni sindacali.
E' veramente difficile ritenere che questa attribuzione di compiti e responsabilità non significhi, per il sindacato che degli stessi abbia fatto uso, il riconoscimento ed al tempo stesso la conferma di una posizione tutelabile attraverso la costituzione di parte civile.
Nella specie la sentenza di primo grado ha accertato che l'infortunio si è verificato a cagione della scarsa attenzione posta dalla s.r.l.
Demont al problema della sicurezza dei dipendenti dell'ambiente di lavoro, della manutenzione dei mezzi affidati alla guida dei gruisti, e che l'infortunio mortale si è potuto verificare proprio a seguito ed in stretta dipendenza con questa scarsa effettiva considerazione della questione; ed ha accertato altresì che la morte del lavoratore, cagionata dalla cooperazione colposa degli imputati F. e B. e dal concorso di cause relative alla violazione delle norme contravvenzionali poste espressamente a tutela della sicurezza dei dipendenti nell'ambiente di lavoro, era collegata alle inascoltate segnalazioni, richieste di attenzione e di coordinamento in più (rappresentanze dei lavoratori per la sicurezza); in particolare il capocantiere B. è stato concordemente indicato dai testi, senza alcuna prova contraria, sul punto, neppure l'offerta dalla difesa, come un soggetto che frapponeva ostacoli all'interazione, prevista dalla legge, con le organizzazioni sindacali ai fini della tutela dei lavoratori.
E' stato dunque accertato che la condotta degli imputati ha colpito direttamente anche la funzione di tutela e controllo assegnata ai sindacati.
Non rileva la circostanza che in appello le contravvenzioni siano state dichiarate prescritte, dal momento che ciò che conta è l'accertamento della responsabilità per le violazioni anzidette, conseguente alla sentenza di appello che ha confermato la sentenza di condanna degli imputati per l'omicidio colposo commesso con violazione delle dette prescrizioni.
Conclusivamente, ritiene il collegio che l'accertamento di cui sopra fondi correttamente il diritto alla costituzione di parte civile riconosciuto ai tre sindacati e la liquidazione del relativo danno.
Il grave incidente verificatosi ha avuto infatti, secondo il ragionato, meditato, condivisibile punto di vista del giudice di primo grado, innegabile ripercussione sull'immagine e la reputazione delle organizzazioni sindacali inducendo nei lavoratori un effetto di sostanziale sfiducia nella nelle associazioni di categoria e nella loro idoneità ad incidere con efficacia pratica in materia di sicurezza.
Al rigetto dei ricorsi consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali nonchè, in solido tra loro,. Alla rifusione delle spese in favore delle parti civili costituite che liquida in favore di D.B.A. in complessivi Euro 2002,00 oltre accessori come per legge e in favore dei sindacati FIOM, CGIL, UILM UIL e FIM CISL ((OMISSIS)) in complessivi Euro 2800,00 oltre accessori come per legge.
P.Q.M.
LA CORTE Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali nonchè, in solido trai ricorrenti, alla rifusione delle spese in favore di D.B.A. in complessivi Euro 2002,00 oltre accessori come per legge e quelle in favore dei sindacati FIOM CGIL, UILM UIL e FIM CISL ((OMISSIS)) in complessivi Euro 2800,00 oltre accessori come per legge.
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