Translate

giovedì 11 gennaio 2024

Luigi Ferrajoli: Presidenzialismoitaliano e mistificazioni ideologiche

 

Pubblicato il 11 gen 2024


1. Due fattori della crisi odierna della rappresentanza politica – La proposta di una riforma in senso presidenziale del nostro sistema politico è il punto di arrivo di una crisi della democrazia politica che in Italia prosegue ininterrotta da oltre 30 anni.


Fino alla fine degli anni Ottanta la rappresentanza politica è stata mediata, organizzata e garantita, in Italia, dal radicamento sociale dei partiti, i quali sono stati i principali strumenti e fattori della costruzione della nostra democrazia. La crisi è stata provocata, fin dagli ultimi anni del secolo scorso, dalla crescente separazione dei partiti dalle loro basi sociali: per la loro integrazione nelle istituzioni pubbliche fino a confondersi con esse; per la loro trasformazione da associazioni diffuse sul territorio in vaghi e generici partiti d’opinione; per la loro perdita di progettualità politica e di capacità di coinvolgimento ideale e di aggregazione sociale; per la loro sordità, il loro disinteresse e talora la loro ostilità ai movimenti sociali; per il venir meno del loro ruolo di luoghi di aggregazione collettiva e di partecipazione popolare alla formazione dei programmi e delle scelte politiche; per il mutamento intervenuto nelle forme della comunicazione politica, sempre più affidate agli ascolti televisivi.


I fattori di questa crisi dei partiti di massa e conseguentemente della rappresentanza è stata determinata da due fenomeni degenerativi. Il primo fattore è stato la verticalizzazione e la personalizzazione della rappresentanza politica, cioè la sua identificazione con i leader – capi di Stato o di governo e leader di partito – e la trasformazione del nostro sistema politico in quella che è stata chiamata la “democrazia del leader”, formata da “partiti personali”[1]. Il secondo fattore di crisi è la sostanziale subalternità dei poteri politici ai poteri economici, generata da un lato dall’asimmetria tra il carattere globale dei secondi e il carattere locale dei primi e, dall’altro, dalla singolare alleanza prodottasi tra liberismo e populismi.


I due fenomeni, come cercherò di mostrare, sono connessi, ma meritano di essere analizzati separatamente. Il loro esito estremo è l’“autocrazia elettiva” [2]. In Italia è il presidenzialismo nella sua forma peggiore: quella dell’elezione diretta del premier, prescelta dall’attuale governo anche perché più alla portata dell’attuale presidentessa del consiglio. Ne conseguirebbe la neutralizzazione della figura del Presidente della Repubblica e del rapporto di fiducia del premier eletto con il Parlamento, nel quale, peraltro, egli godrebbe della maggioranza assoluta dei seggi benché votato dalla maggioranza solo relativa degli elettori.


 


2. Il primo fattore: la rappresentante politica concentrata in un capo e la crisi del pluralismo politico e istituzionale – Il primo dei due fattori di crisi della rappresentanza è stato determinato da un’antica perversione ideologica, nel senso comune e nello spirito pubblico, dell’idea stessa di rappresentanza e di democrazia politica. Si tratta di una deformazione di carattere concettuale, che ha le sue origini nella concezione del “capo” tipica del fascismo e sostanzialmente ereditata da gran parte dei populismi, incluso il populismo post-fascista attualmente al governo. Essa consiste nell’idea, sottostante alla progettata riforma, del capo come rappresentante organico del popolo e sua incarnazione più o meno carismatica.


Quest’idea deformata della rappresentanza politica ha un sicuro precedente nella costruzione del “führerprinzip” ad opera di Carl Schmitt. I passi compiuti da Schmitt in direzione di tale deformazione sono, sommariamente, tre. Il primo passo è l’idea che le decisioni della maggioranza di governo, nonché del capo della maggioranza e dell’esecutivo, rifletterebbero la volontà della maggioranza degli elettori, al di là delle mediazioni parlamentari tra i diversi interessi rappresentati. Il secondo passo è l’identificazione della maggioranza con il popolo intero, in forza della tesi che la minoranza, avendo partecipato alle elezioni e accettato il loro risultato, ha fatto propria la volontà della maggioranza. Il terzo passo suggerito da questa concezione populista e organicista della rappresentanza è l’idea che il capo della maggioranza, in quanto legittimato dalle elezioni e perciò dalla sovranità popolare, si identificherebbe con la sua maggioranza e sarebbe quindi il rappresentante organico del popolo o se si preferisce della Nazione: in breve l’espressione diretta della volontà della maggioranza quale volontà del popolo intero, che in quanto volontà unitaria può essere espressa solo dal capo della maggioranza [3].


E’ chiaro che questa concezione della rappresentanza politica ha un’inevitabile valenza totalitaria. Il suo presupposto è l’idea, autoritaria e illiberale, del demos come entità omogenea, in rapporto di opposizione e di esclusione con gli altri popoli ma anche con quanti, rispetto a questa supposta omogeneità, sono differenti o dissenzienti e perciò virtualmente nemici [4]. Al di là di questo suo nefasto presupposto, questa costruzione ideologica, come ha mostrato Hans Kelsen, scambia la realtà con l’“ideologia”, cioè la “finzione politica” della rappresentanza con l’idea che gli eletti rappresentino realmente la volontà popolare o anche solo la volontà della maggioranza [5]. Ancor più ideologica e mistificante è la raffigurazione del presidente eletto dal popolo come espressione della nazione, come oggi piace dire alla nostra presidentessa del consiglio. L’ideologia che scambia l’elezione del premier con una forma più diretta di democrazia è insomma il frutto della doppia confusione tra il capo della maggioranza e la maggioranza medesima e tra questa e il popolo intero.


Alla base di questa ideologia c’è ovviamente l’avversione o comunque la diffidenza nei confronti delle mediazioni rappresentative – della mediazione partitica a livello sociale e di quella parlamentare a livello istituzionale – tra rappresentati e rappresentanti. E’ questo il sottofondo autoritario dell’opzione della nostra destra per il sistema presidenziale: alla sua base c’è il rifiuto delle mediazioni, e perciò la raffigurazione del presidente o del premier eletto dal popolo come espressione diretta ed organica della volontà popolare e, insieme, come garante dell’unità nazionale, in grado addirittura di bilanciare – come spesso si dice, senza spiegare perché – le tendenze centrifughe generate dalle scelte federaliste o comunque fortemente autonomiste come quelle progettate in Italia con la cosiddetta “autonomia differenziata”.


E’ invece evidente che un organo monocratico non può per sua natura rappresentare, come avviene invece con il parlamento, la pluralità delle forze e degli interessi in conflitto nella società, ma al massimo la parte vincente nelle elezioni. “Significa scambiare l’ideologia con la realtà” – scrisse Kelsen in polemica con Schmitt, che sulla base dell’“‘omogenea, inscindibile unità di tutto il popolo tedesco’ cui si richiama il preambolo della costituzione” di Weimar, basava la concezione del “presidente del Reich” come potere neutrale e “custode della costituzione” – “voler vedere nell’istituto del capo dello stato non soltanto il simbolo di una unità dello stato postulata sul piano etico‐politico ma il prodotto o il fattore di un’unità reale, nel senso di una effettiva solidarietà d’interessi” [6].


“In termini pseudo‐democratici”, aggiunse Kelsen, “la formula del presidenzialismo suona press’a poco così: il popolo che forma lo Stato è un collettivo unitario omogeneo e ha quindi un interesse collettivo unitario che si esprime in una volontà collettiva unitaria.


Questa volontà collettiva che sta al di là dei contrasti d’interessi e quindi al di sopra dei partiti politici è la vera volontà dello Stato: non è creata dal parlamento, il quale è lo scenario dei contrasti d’interesse, dello smembramento partitico… Ne è artefice e strumento il capo dello stato”. Ebbene, conclude Kelsen, “il carattere ideologico di questa interpretazione è palese”, dato che tale “volontà collettiva” non esiste, e la sua assunzione serve solo a “mascherare il contrasto d’interessi, effettivo e radicale, che si esprime nella realtà dei partiti politici e nella realtà, ancor più importante, del conflitto di classe che vi sta dietro” [7]. E’ quanto è accaduto in Italia, dove questa corruzione dell’immaginario collettivo è stata favorita dal metodo elettorale maggioritario e dall’abbandono del metodo proporzionale, che favorisce al contrario il pluralismo politico, cioè lo sviluppo dei partiti e, per il loro tramite, la rappresentanza di interessi sociali e di opzioni politiche diverse e tra loro in conflitto.


L’idea dell’onnipotenza della maggioranza impersonata da un esecutivo forte, o peggio da un leader quale rappresentante diretto ed autentico del popolo sovrano, è pertanto la negazione del paradigma della democrazia costituzionale. Sotto due aspetti: in primo luogo per la tendenziale negazione o comunque l’indebolimento del pluralismo politico e la sostanziale svalutazione delle minoranze in favore della centralità del capo; in secondo luogo per la tendenziale insofferenza anche per il pluralismo istituzionale, cioè per la separazione dei poteri e per i limiti e i vincoli imposti dalla Costituzione ai poteri di governo. Tutto il sistema politico ne risulta squilibrato: con il premierato elettivo, forte di una maggioranza del 55% dei rappresentanti ottenuta con una maggioranza relativa che può essere anche soltanto di un terzo degli elettori, tutte le istituzioni di garanzia – il presidente della Repubblica, la Corte costituzionale, il Consiglio superiore della magistratura, le autorità indipendenti – sono destinate ad essere controllate dalla maggioranza e dal suo capo e quindi a perdere il loro ruolo di garanzia; tanto più se si considera la voracità esibita dall’attuale destra di governo nell’occupare l’intero apparato statale. La riforma costituzionale in discussione, in breve, è la versione odierna, in termini pseudo‐democratici, di un’idea vecchissima nella storia del pensiero politico: l’idea del governo degli uomini migliori, contrapposta al governo delle leggi e criticata già da Platone e da Aristotele [8].


C’è un passo bellissimo di Kelsen, che non mi stanco di ricordare, contro questa tentazione del governo degli uomini che sempre si ripropone nei momenti di crisi: “L’idea di democrazia implica assenza di capi. Interamente nel suo spirito sono le parole che Platone, nella sua Repubblica (III, 9) fa dire a Socrate, in risposta alla questione sul come dovrebbe essere trattato, nello Stato ideale, un uomo dotato di qualità superiori, un genio, insomma: ‘Noi l’onoreremmo come un essere degno d’adorazione, meraviglioso ed amabile; ma dopo avergli fatto notare che non c’è uomo di tal genere nel nostro Stato, e che non deve esserci, untogli il capo ed incoronatolo, lo scorteremmo fino alla frontiera” [9].


Questa centralità del capo nell’ideologia politica della destra italiana svela peraltro un ulteriore motivo specifico, estremamente inquietante, che è alla base della progettata riforma. La volontà da cui questa è animata è la rifondazione della Repubblica su basi opposte a quelle sulle quali è nata: non più l’antifascismo e la lotta di liberazione dall’occupazione nazista, ma la vecchia idea della massima concentrazione dei pubblici poteri nella figura del capo del governo. E’ in questa mutazione non soltanto dell’assetto costituzionale, ma dell’identità stessa della Repubblica, che si manifesta l’ambizione della destra, attualmente vincente, di superare il vecchio complesso di inferiorità e di sostituire, con un voto di maggioranza, una sua qualche egemonia culturale a quella della sinistra.


3. Il secondo fattore della crisi: il ribaltamento del rapporto tra economia e politica, in danno delle due dimensioni, quella formale e quella sostanziale, della democrazia costituzionale – Purtroppo questa idea della centralità del capo che informa questa progettata mutazione della nostra democrazia favorisce, di fatto, un risultato esattamente opposto a quello rivendicato dalla propaganda nazionalista e sovranista: la massima subalternità della politica e della sfera pubblica alla volontà dei grandi poteri economici e finanziari, per di più in prevalenza stranieri. Questo risultato perverso è dovuto al secondo fattore che ho all’inizio indicato come responsabile della crisi della rappresentanza politica: nell’età della globalizzazione, non è più la politica che governa l’economia, ma viceversa. La centralità dell’esecutivo e la sua tendenziale identificazione con il presidente del consiglio favorisce enormemente questo ribaltamento del rapporto tra politica ed economia e la conseguente riduzione, oltre che della dimensione formale o politica, anche della dimensione sostanziale della democrazia costituzionale.


La subalternità della politica all’economia, ovviamente, non è un fenomeno nuovo.


Essa è un elemento intrinseco del capitalismo. Ne hanno dato testimonianza due presidenti degli Stati Uniti del secolo scorso. “Uno dei fenomeni più allarmanti del nostro tempo”, affermò Woodrow Wilson più di un secolo fa, all’indomani della sua elezione nel 1913, “è la misura in cui il governo è giunto ad associarsi con gli interessi economici… Ma l’associazione attuale è di natura assolutamente intollerabile: la precedenza è sbagliata, l’associazione è capovolta. Il nostro governo è da alcuni anni sotto il controllo dei capi di grandi società anonime legate a interessi particolari. Non ha stabilito il suo controllo su questi interessi e assegnato loro un posto adeguato nell’intero sistema economico del paese, ma si è sottoposto al loro controllo… I padroni del governo degli Stati Uniti sono i capitalisti… Noi li conosciamo per nome… La politica di un grande paese non può essere legata a interessi particolari”[10]. Ancor più allarmante fu la denuncia pronunciata, mezzo secolo dopo, da Dwight David Eisenhower, nel suo discorso di commiato dalla presidenza del 17 gennaio 1961: “Questa congiunzione di un immenso sistema militare e di una grande industria produttrice d’armi è nuova nella nostra esperienza. L’influenza totale – economica, politica, anche spirituale – è palpabile in ogni città, ogni impresa pubblica, ogni ufficio del governo federale… Si tratta ormai della vera struttura della nostra società.


Negli organismi del governo dobbiamo vigilare contro l’acquisizione di una influenza incontrollata, cercata o meno, da parte del complesso militar‐industriale. Esiste e persisterà il rischio di una pericolosa ascesa di poteri mal riposti. Non dobbiamo permettere che il peso di questo complesso possa mettere a rischio le nostre libertà o il processo democratico” [11].


Dunque non si tratta di una novità. Marx definì lo Stato, nel 1848, come il comitato d’affari della borghesia[12]. Ma oggi la situazione è se possibile ancor peggiore: la globalizzazione, grazie all’asimmetria tra il carattere globale dell’economia e il carattere locale della politica e del diritto, ha trasformato i governi in istituzioni subalterne alla volontà dei mercati, affidando loro non la decisione ma l’esecuzione delle direttive dei mercati. E’ infatti totalmente cambiata in questi ultimi decenni la geografia dei poteri. I poteri economici che contano si sono trasferiti fuori dei confini degli Stati nazionali sottraendosi ai loro controlli, sia politici che giuridici. Non sono più gli Stati che garantiscono la concorrenza tra le imprese, ma sono i grandi poteri economici che mettono in concorrenza gli Stati, spostando i loro investimenti dove meglio possono sfruttare il lavoro, devastare l’ambiente naturale, evadere le imposte e corrompere i governi.


Ebbene, il presidenzialismo è sicuramente il sistema politico più funzionale a questo dominio dei mercati, i cui mandati sono attuabili da un organo monocratico assai più agevolmente che dal sistema parlamentare e dal pluralismo dei partiti, tanto più se radicati socialmente. Esso si rivela perciò il punto d’arrivo di un lungo processo, avviatosi con lo smantellamento dei partiti e con i mutamenti delle forme della comunicazione politica, proseguito con l’affermazione dei sistemi elettorali maggioritari e con il crollo del ruolo del parlamento. Perché la politica risponda ai mercati, la forma di governo più sicura è precisamente quella presidenziale, grazie alla quale una sola persona, eletta con i finanziamenti privati da parte di coloro che dovrà tutelare e rappresentare, sarà legittimata dall’investitura popolare a praticare politiche al tempo stesso anti-sociali e illiberali in danno delle parti più deboli della società.


C’è poi un secondo, importante aspetto del presidenzialismo che lo rende più idoneo di qualunque altra forma di governo alla governabilità della società richiesta dai mercati.


Coniugandosi con la personalizzazione della politica, esso è la forma di governo più congeniale a quel rapporto organico tra capi e popolo che è il tratto caratteristico di tutti i populismi. E favorisce perciò, ancor più del sistema parlamentare, l’alleanza perversa tra populismi e liberismo che in questi anni ha messo in crisi la nostra democrazia. Le politiche liberiste hanno infatti distrutto il vecchio diritto del lavoro, riducendo il lavoro a merce, imponendone la precarietà, cancellando i diritti dei lavoratori e così sopprimendo la loro uguaglianza nei diritti e, con essa, la solidarietà e la soggettività del mondo del lavoro.


Parole come classe operaia o movimento operaio sono divenute impronunciabili essendo venuta meno l’identità dell’insieme dei lavoratori come soggetto politico. Il conflitto sociale ha cambiato direzione. Non più la vecchia lotta di classe degli operai contro i padroni, ma la concorrenza tra lavoratori precari per la sopravvivenza. Non più la lotta alle disuguaglianze, ma la lotta alle differenze. La disgregazione del vecchio movimento operaio ha così fornito le basi sociali di tutti i populismi, che ne hanno promosso la riaggregazione su basi identitarie: italiani contro migranti, lavoratori garantiti contro disoccupati, soggetti deboli contro soggetti ancora più deboli.


A loro volta i populismi hanno ricambiato questo immenso contributo liberista al loro successo con tre non meno rilevanti contributi al successo delle politiche liberiste. Il primo contributo è consistito nel farsi tramiti di tali politiche a favore dei ricchi e contro i poveri, riducendo le imposte e con esse le spese sociali, abolendo sussidi e previdenze, tollerando ed anzi favorendo l’evasione fiscale e perfino promuovendo un diritto penale massimo e inflessibile per i deboli e minimo e garantista per i potenti. Il secondo contributo è stato il loro verboso e illusorio sovranismo, e perciò la loro tendenziale ostilità, in difesa di un’illusoria e ormai scomparsa sovranità nazionale, alle forme odierne di integrazione sovranazionale, dall’Unione Europea all’Onu, e perciò ai limiti e ai vincoli che da una sfera pubblica sovranazionale potrebbero provenire ai mercati. Il terzo contributo, non meno prezioso, è appunto il progetto presidenzialista, che è al tempo stesso il punto d’arrivo del processo di semplificazione e personalizzazione del sistema politico in atto da tre decenni, la formula politica più congeniale a tutti i populismi, caratterizzati appunto dalla concezione del popolo come entità omogenea destinata ad essere rappresentata da un capo se possibile carismatico, e anche la più idonea, ben più dei sistemi parlamentari e dei partiti socialmente radicati, a garantire la subalternità della politica all’economia.


E’ così che la democrazia è entrata in crisi. Altro che migliore difesa sovrana degli interessi nazionali propagandata dalla destra! Oggi la gerarchia dei poteri si è ribaltata. Al vertice si sono collocati quei nuovi sovrani assoluti, anonimi, impersonali, invisibili e irresponsabili che sono i mercati globali, che di fatto orientano e condizionano l’azione di governo, tanto responsabile nei loro confronti quanto irresponsabile nei confronti dei popoli che pure dovrebbe rappresentare. La comunicazione politica, d’altro canto, è sempre più solamente dall’alto verso il basso e sempre meno dal basso verso l’alto: non sono i rappresentati che comunicano dal basso istanze e proposte alla sfera pubblica, ma sono al contrario i rappresentanti che comunicano dall’alto la loro agenda politica per il tramite dei partiti, trasformati nel migliore dei casi in macchine elettorali e nel peggiore in gruppi di interesse esposti a inquinamenti malavitosi. E le elezioni hanno ormai la sola funzione di offrire al sistema dei poteri esistente la necessaria legittimazione “democratica”. In queste condizioni la politica non può che obbedire ai mercati, dai quali oltre tutto, venuto meno il finanziamento pubblico, essa è finanziata: abbassare i salari, smantellare le garanzie del lavoro, diminuire le imposte, ridurre le spese sociali, tollerare la devastazione dell’ambiente, compensare le proprie politiche antisociali con politiche illiberali a danno degli ultimi: dei poveri, dei devianti per ragioni di sussistenza e, soprattutto, dei migranti.


 


4. Quale alternativa? – Domandiamoci a questo punto: quale alternativa è oggi idonea a rifondare la democrazia? L’alternativa – improbabile, ma non per questo improponibile – consiste nel percorrere il processo opposto a quello percorso dalla crisi in atto: nel ripensare la geografia democratica dei poteri e nel ribaltare il ribaltamento del rapporto tra politica ed economia all’inizio illustrato. A questo scopo occorre liberarsi dall’ideologia realistica che a quanto accade non esistano alternative. L’alterativa esiste, e spetta a una politica democratica realizzarla e alla cultura giuridica elaborarla. Indicherò sommariamente quattro passi di un possibile processo di rifondazione della democrazia.


4.1. Rifondare i partiti – Il primo passo consiste nel riportare i partiti nella società, facendone i luoghi di formazione della volontà popolare. I partiti hanno subito una mutazione radicale per effetto della loro verticalizzazione e personalizzazione. Si sono, sostanzialmente, statalizzati. Alla loro separazione dalle loro basi sociali ha fatto riscontro il loro insediamento nelle istituzioni pubbliche, quali organi dello Stato ben più che della società. Oggi si dà per scontato nel dibattito pubblico, a destra e più ancora a sinistra, che i partiti appartengano a un’epoca ormai passata e non siano più riformabili. Dobbiamo invece essere consapevoli che senza partiti, come ammoniva un secolo fa Hans Kelsen, una democrazia fondata sul suffragio universale non può funzionare e degenera inevitabilmene in oligarchia o in autocrazia; e che l’ostilità ai partiti nasconde, in realtà, un’ostilità alla democrazia [13]. La vera garanzia costituzionale della democrazia politica è allora la rifondazione dei partiti quali organi della società e strumenti dei diritti dei cittadini, come dice l’art. 49 della nostra Costituzione, “a determinare la politica nazionale”, mediante il dibattito a livello di base, l’elaborazione nei congressi della linea politica, la designazione dei candidati alle cariche elettive e il controllo sull’operato dei loro rappresentanti.


A tal fine è necessaria la separazione dei partiti dalle istituzioni pubbliche, a cominciare da quelle elettive, sulla base di una rigida incompatibilità tra cariche di partito e cariche pubbliche. E’ la vecchia regola montesquieiana della separazione dei poteri, assolutamente necessaria per garantire l’alterità tra rappresentanti (gli eletti nelle istituzioni elettive) e rappresentati (gli elettori organizzati in partiti), senza la quale non si dà rappresentanza, e per assicurare il controllo e la responsabilità dei primi di fronte ai secondi. I partiti sarebbero così vincolati al loro ruolo di organi della società, quali rappresentati e non quali rappresentanti. Naturalmente i loro dirigenti sarebbero di regola destinati ad essere eletti in Parlamento e nelle altre istituzioni politiche rappresentative. Ma in tal caso dovrebbero lasciare il loro posto nel partito ad altri dirigenti, in grado di orientarli e controllarli. Solo così i partiti riacquisterebbero credibilità, capacità di attrazione e, grazie alla loro autonomia dai rappresentanti, funzioni di indirizzo politico e di controllo sul loro operato: un controllo e una valutazione costanti e non solo, retrospettivamente, al momento delle elezioni [14].


4.2. Restituire centralità al Parlamento – Il secondo passo è la restaurazione della centralità del Parlamento, la riappropriazione parlamentare della funzione legislativa, oggi in gran parte confiscata dal governo tramite decreti legge e leggi delegate, e la restituzione del governo al suo ruolo di “esecutivo” delle decisioni delle maggioranze parlamentari, accompagnate magari, a garanzia della stabilità dei governi, dal voto di sfiducia costruttiva. E questo è possibile solo con la reintroduzione del sistema elettorale proporzionale – senza sbarramenti e senza premi di maggioranza – che è il solo metodo democratico, in grado di produrre un’effettiva rappresentatività politica delle istituzioni elettive. Per più ragioni: la prima è che solo il sistema proporzionale è in grado di attuare il principio di uguaglianza nei diritti politici, cioè il principio una testa, un voto; la seconda è che il sistema elettorale proporzionale è un fattore essenziale della rinascita dei partiti e dello sviluppo delle loro identità politiche; la terza è la necessità di impedire false aggregazioni a fini unicamente elettorali e i conseguenti fenomeni di trasformismo.


4.3. Garantire i diritti fondamentali quali limiti a qualunque potere – Il terzo passo in direzione di una rifondazione della democrazia consiste nel prendere sul serio e nell’attuare il progetto costituzionale, assumendo la garanzia dei diritti fondamentali, a cominciare dai diritti sociali, come la vera, assoluta priorità, rigidamente incondizionata rispetto a qualunque altra. Questo richiede che siano capovolte le attuali politiche di austerità, che assumono al contrario il pareggio dei bilanci pubblici come l’assoluta rigidità, in Italia addirittura costituzionalizzata con l’assurda riforma dell’articolo 81 della Costituzione, a costo di tagli alla spesa pubblica in danno dei diritti alla salute, all’istruzione, alla previdenza e all’assistenza.


A tal fine occorre associare la rigidità, ben più che ai pareggi di bilancio, ai vincoli normativi imposti alla spesa pubblica dai diritti sociali, tramite la previsione della massima separazione e indipendenza e della tendenziale autonomia finanziaria delle istituzioni sociali di garanzia dalle istituzioni politiche di governo, dalla sanità all’istruzione e alla sussistenza. Non si tratta affatto di spese insostenibili sul piano economico. Le spese nella garanzia dei diritti sociali sono gli investimenti economicamente più produttivi, essendo la salute, l’istruzione e la sussistenza non soltanto fini a se stesse, ma anche le condizioni della produttività individuale e perciò collettiva.


4.4. Costruire una sfera pubblica globale – Il quarto passo è il più difficile. Consiste nel ristabilire il ruolo di governo della politica sull’economia: un ruolo, è bene ricordare, che fa parte del costituzionalismo profondo, prima ancora che della democrazia, dello Stato moderno, nato dalla separazione della sfera pubblica dalla sfera economica dei privati quale sfera a questa sopraordinata, in opposizione allo stato patrimoniale e feudale dell’ancien régime, basato invece sulla confusione tra le due sfere.


Oggi, come ho già detto, questo ruolo è stato travolto e capovolto dall’asimmetria tra il carattere globale dei mercati e il carattere ancora in prevalenza statale della politica e del diritto. Venuto meno il ruolo di limite e di controllo dei vecchi poteri pubblici, sia politici che giudiziari, i poteri economici e finanziari si sono trasformati in poteri dotati di una sovranità tanto più assoluta e selvaggia, quanto più impersonale e invisibile. Una risposta razionale alla crisi non solo della democrazia, ma della stessa economia, dovrebbe perciò consistere nella rifondazione e nello sviluppo di un governo sovranazionale dell’economia e nella costruzione di una sfera pubblica all’altezza dei poteri selvaggi dei mercati globali.


5. Costituzionalismo globale, realismo volgare e realismo razionale – Questi processi appaiono oggi inverosimili. Tuttavia, se è vero che il costituzionalismo è un sistema di limiti e vincoli a poteri altrimenti selvaggi, il mutamento della geografia dei poteri non può non imporne l’espansione a livello globale. Naturalmente questa prospettiva ha il sapore di un’utopia. Ma sarà l’urgenza delle sfide globali – dalle devastazioni ambientali alla crescita delle disuguaglianze e della miseria, dalle guerre ai terrorismi – che costringerà prima o poi, nell’interesse di tutti inclusi i ricchi e i potenti, a risposte globali consistenti in processi di progressiva integrazione: dall’istituzione di un demanio planetario o almeno europeo, in grado di impedire la privatizzazione e mercificazione di beni vitali della natura – come l’acqua potabile, l’aria, le grandi foreste e i grandi ghiacciai – alla riforma e al finanziamento di istituzioni planetarie di garanzia come la Fao e l’Organizzazione Mondiale della Sanità onde consentire loro di garantire effettivamente i diritti sociali di tutti, fino all’istituzione di un fisco planetario in grado di ridurre le sterminate ricchezze e di finanziare le istituzioni globali di garanzia.


E’ il progetto di un costituzionalismo globale, che è l’ultima tappa del percorso storico del costituzionalismo, implicato ed imposto dal carattere universale dei diritti fondamentali e dei principi della pace e dell’uguaglianza stabiliti nelle costituzioni più avanzate e nelle tante carte internazionali dei diritti umani [15]. Esso suppone due condizioni. La prima è che ci si liberi dalla concezione schmittiana, nazionalista, statalista e identitaria della costituzione come espressione dell’“identità” e dell’“unità del popolo come totalità politica”[16], riproposta oggi dai tanti populismi e sovranismi ma smentita dagli stessi principi di uguaglianza e di pari dignità delle persone solo perché tali stabiliti in tante carte internazionali dei diritti umani. Questi principi ci dicono che il costituzionalismo è intrinsecamente universalistico e non identitario, internazionalista e non nazionalista, antifascista e non fascista e che la Costituzione è un patto di convivenza pacifica – di reciproco rispetto tra differenti e di solidarietà tra disuguali – tanto più legittimo, necessario ed urgente quanto maggiori sono le differenze di identità personali che ha il compito di tutelare e le disuguaglianze materiali che è chiamato a rimuovere o quanto meno a ridurre. Dobbiamo d’altro canto essere consapevoli che è del tutto inverosimile che 8 miliardi di persone, 195 Stati sovrani nove dei quali dotati di armamenti nucleari, un capitalismo vorace e predatorio e un sistema industriale ecologicamente insostenibile possano a lungo sopravvivere senza andare incontro alla devastazione del pianeta, alla crescita delle disuguaglianze e della povertà e ai conseguenti fenomeni dei terrorismi, dei fanatismi, dei fondamentalismi, dei razzismi e della criminalità transnazionale.


La seconda condizione che si richiede perché questo progetto entri seriamente nel dibattito pubblico riguarda la nozione stessa di realismo. Naturalmente, come scrive giustamente Massimo Luciani, “le costituzioni non nascono se difettano i soggetti sociali, economici e politici che le vogliono, le impongono, le sorreggono”[17]. Ma questi soggetti non potranno mai nascere in assenza di un progetto politico e istituzionale razionale, sorretto dalla consapevolezza della sua possibilità, della sua necessità e della sua urgenza.


“Ammettiamo pure”, domanda Luciani, “che la strada sia quella della Costituzione della terra: come la si lastrica?”[18]. Facendo, per quanto ci riguarda, il nostro mestiere di giuristi: prendendo anzitutto sul serio, quali norme vincolanti, le norme edificanti delle tante carte costituzionali e internazionali sulla pace e sui diritti umani; mostrando in secondo luogo l’illegittimità delle loro violazioni per commissione e per omissione; infine elaborando e proponendo le tecniche di garanzia necessarie per renderle effettive. Potrà trattarsi di una Costituzione della Terra, con il vantaggio del suo carattere sistematico e razionale in ordine ai tanti problemi globali e istituzionali tra loro strettamente connessi; oppure di più trattati sulle diverse questioni – la pace, l’ambiente, i diritti, il lavoro, l’emigrazione – dalla cui soluzione dipende il futuro dell’umanità. L’importante è che si passi dalle proclamazioni di principio a patti effettivamente vincolanti, che al pari delle odierne costituzioni avanzate abbiano il requisito della rigidità, cioè della sopra-ordinazione a qualunque altra fonte, statale o internazionale e, soprattutto, impongano idonee istituzioni di garanzia dei principi e dei diritti proclamati.


Certamente nulla consente di essere ottimisti. Ma dobbiamo distinguere ciò che è impossibile da ciò che è improbabile. Il realismo volgare, che naturalizza la realtà sociale – la politica, il diritto, l’economia – a sostegno della tesi che non esistono alternative, è una mistificazione ideologica. L’alternativa esiste, ed è compito della cultura giuridica elaborarla. La storia del costituzionalismo – dalle prime Dichiarazioni settecentesche agli statuti e alle carte costituzionali dell’Ottocento, fino alle costituzioni rigide del secondo dopoguerra e alla stipulazione della Carta dell’Onu e delle tante carte internazionali dei diritti umani – è del resto una storia di progressivi ampliamenti e rafforzamenti, sia di carattere intensionale che di carattere estensionale. Il costituzionalismo, in forza di questa sua valenza universalistica, non è solo una conquista del passato. E’ anche, e direi soprattutto, un programma normativo per il futuro. Il suo itinerario non è ancora concluso, 1 non essendosi ancora compiuto il suo ultimo percorso: quello implicato ed imposto dall’universalismo dei diritti fondamentali e del principio della pace, stabiliti in tante carte internazionali, e consistente nell’introduzione delle garanzie globali parimenti universali che sono necessarie alla loro attuazione.


Non confondiamo perciò ciò che i poteri economici e politici non vogliono fare con ciò che è impossibile fare. A questa fallacia pseudo-realistica, che offre una legittimazione teorica allo stato di cose esistenti, dobbiamo opporre quello che possiamo chiamare realismo critico o razionale – il realismo di Hobbes, di Kant, di Marx, ma anche, e soprattutto, delle costituzioni avanzate – che di fronte alle ingiustizie e alle catastrofi determinate dal gioco naturale e incontrollato dei rapporti di forza prefigura sul piano teorico e formula sul piano normativo i rimedi razionali in grado di assicurare la dignità delle persone e la loro convivenza pacifica. Secondo questo tipo di realismo, nelle attuali violazioni e inadempienze dei diritti fondamentali stipulati nelle tante carte dei diritti non c’è nulla di inevitabile. La vera mancanza di realismo, al contrario, consiste nel non vedere la realtà e nell’illusione che l’umanità possa continuare nella sua corsa sfrenata e spensierata verso il riarmo, lo sviluppo insostenibile e la crescita delle disuguaglianze senza andare incontro a un futuro di catastrofi. Esiste sempre un’alternativa possibile, che dipende dalle scelte politiche e dalle lotte per i diritti capaci di orientarle. Ed esiste un ruolo non solo progettuale, ma anche performativo del senso comune che viene svolto dalla teoria giuridica e dalla cultura politica. Facciamo parte del mondo che indaghiamo e contribuiamo a costruirlo con le nostre scelte e con le nostre teorie.


E tutti ne portiamo, per come è e per come sarà, la responsabilità.


[1] M. Calise, Il partito personale. I due corpi del leader, Laterza, Roma-Bari 2010; Id., La democrazia del leader, Laterza, Roma-Bari 2016.


[2] L’espressione è di M. Bovero, Autocrazia elettiva, in “Costituzionalismo.it”, 2015, fasc. 2.


[3] C. Schmitt, Il custode della costituzione, (1931), tr. it. di A. Caracciolo, Giuffrè, Milano 1981, II, § 1, a], pp. 134-135: “si distrugge il presupposto fondamentale di ogni democrazia, se si abbandona l’assioma che la minoranza risultata in minoranza voleva soltanto il risultato elettorale (non la sua volontà particolare) ed abbia perciò aderito alla volontà della maggioranza come alla sua propria volontà”; laddove “l’assioma democratico dell’identità della volontà di tutti i cittadini” richiede che “si combatta la proliferazione dei partiti” che quell’assioma “non contiene”. “Lo Stato” infatti, precisa Schmitt, “è un’unità indivisibile e la parte messa in minoranza non è in realtà violentata e costretta, ma è ricondotta alla sua vera volontà” (ivi, III, § 2, p. 221), che con questo gioco di parole viene così annullata. E più oltre, ivi, cap. III, § 4, pp. 240‐242: “Il presidente del Reich sta al punto centrale di un intero sistema di neutralità politico‐partitica e di indipendenza, costruito su un presupposto plebiscitario… Il fatto che il presidente del Reich sia il custode della costituzione, corrisponde però anche da solo al principio democratico, su cui si basa la costituzione di Weimar. Il presidente del Reich è eletto da tutto il popolo tedesco… Facendo del presidente del Reich il punto centrale di un sistema plebiscitario come anche di funzioni e di istituzioni partiticamente neutrali, la costituzione vigente del Reich cerca di ricavare proprio dal principio democratico un contrappeso al pluralismo dei gruppi di potere sociale ed economico e di difendere l’unità del popolo come totalità politica… Essa presuppone tutto il popolo tedesco come una unità, che fa direttamente da mediatrice, senza le organizzazioni dei gruppi sociali, è capace d’agire, può esprimere la sua volontà e nel momento decisivo, superando le divisioni pluralistiche, deve riunirsi e imporsi. La costituzione cerca di dare soprattutto all’autorità del presidente del Reich la possibilità di unirsi direttamente con questa volontà politica generale del popolo tedesco e proprio perciò di agire come custode e difensore dell’unità costituzionale e della totalità del popolo tedesco. Sul fatto che questo tentativo riesca, si basano stabilità e durata dell’attuale Stato tedesco”. Ricordo qui la critica severa del presidenzialismo che accomuna i saggi di N. Bobbio, M. Bovero, A. Di Giovine, L. Ferrajoli, M.G. Losano, P. Meaglia, P.P. Portinaro, M. Revelli e E. Vitale raccolti in Argomenti per il dissenso. Contro il presidenzialismo, Celid, Torino 1996.


[4] “La specifica distinzione politica alla quale è possibile ricondurre le azioni e i motivi politici è la distinzione di amico (Freund) e nemico (Feind)… Non v’è bisogno che il nemico politico sia moralmente cattivo… Egli è semplicemente l’altro, lo straniero (der Fremde)… per modo che, nel caso estremo, siano possibili con lui conflitti che non possano venir decisi né attraverso un sistema di norme prestabilite né mediante l’intervento di un terzo ‘disimpegnato’ e perciò ‘imparziale’” (C. Schmitt, Il concetto di politico [1932] tr. it. in Id., Le categorie del politico, a cura di G. Miglio e di P. Schiera, Il Mulino, Bologna 1972, pp. 108-109); e questo vale anche “all’interno di uno Stato”, quando “i contrasti fra i partiti politici sono divenuti ‘i’ contrasti tout-court” e allora “diventano decisivi per lo scontro armato non più i raggruppamenti amico-nemico di politica estera, bensì quelli interni allo Stato” nella forma della “guerra civile” (ivi, p. 115). E più oltre, ivi, pp. 116-117: “I concetti di amico, nemico e lotta acquistano il loro significato reale dal fatto che si riferiscono in modo specifico alla possibilità reale dell’uccisione fisica…La guerra non è dunque scopo o meta o anche solo contenuto della politica, ma ne è il presupposto”.


[5] H. Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato (1945), tr, it. di S. Cotta e di G. Treves, Edizioni di Comunità, Milano 1959, parte II, cap. IV, B, g, p. 296: “La funzione di questa ideologia è di nascondere la situazione reale, di mantenere l’illusione che il legislatore sia il popolo, nonostante il fatto che, in realtà, la funzione del popolo – o, più esattamente, del corpo elettorale – sia limitata alla creazione dell’organo legislativo“.


[6] H. Kelsen, Chi deve essere il custode della costituzione? (1931), § 10, in Id., La giustizia costituzionale, tr. it. a cura di C. Geraci, Milano, Giuffrè 1981, pp. 275 e 273-274.


[7] Ivi, pp. 275‐276.


[8] Platone, Le Leggi, parte seconda, lib.IV, 715d, in Id., Opere politiche, a cura di F. Adorno, Utet, Torino 1958, vol. II, p. 329: “se qui ho chiamato servitori delle leggi quelli che oggi si dicon governanti, non l’ho certo fatto per puro gusto di parole nuove, ma perché sono convinto che soprattutto da questo dipende la salvezza o la rovina dello Stato. Là dove, infatti, la legge sia asservita e senza autorità, in quello Stato io vedo prossima la rovina; là dove invece essa regna sovrana sui governanti, e dove i governanti son della legge servitori, là io vedo fiorir la salvezza e tutti quei beni che gli dèi concedono agli Stati”. Ancor più radicale Aristotele, La politica, III, 16, 1287a, in Id., Politica. Costituzione degli Ateniesi, Laterza, Bari 1972, pp.178‐179: “Chi raccomanda il governo delle leggi sembra raccomandare esclusivamente il governo di Dio e della ragione, mentre chi raccomanda il governo dell’uomo v’aggiunge anche quello della bestia perché il capriccio è questa bestia e la passione sconvolge, quando sono al potere, anche gli uomini migliori. Perciò la legge è ragione senza passione”. L’espressione “servitori delle leggi” usata da Platone e da Aristotele sarà ripresa da Cicerone nella celebre massima “omnes legum servi sumus uti liberi esse possumus” (Pro Cluentio, cap. LIII).


[9] H.Kelsen, Essenza e valore della democrazia, (1929), cap.VIII, in Id., La democrazia, tr. it. a cura di G. Gavazzi, Il Mulino, Bologna 1981, p.120.


[10] W. Wilson, The New Freedom, New York 1913, tr.it. in Id., Principi e programmi della ‘Nuova Libertà’, in Il pensiero politico nell’età di Wilson, a cura di O. Barié, Il Mulino, Bologna 1962, pp. 189‐190.


[11] Citato da I. Mortellaro, I signori della guerra. La Nato verso il XXI secolo, Manifestolibri, Roma 1999, p.71


[12] “Il potere politico dello Stato moderno non è che un comitato, il quale amministra gli affari comuni di tutta Quante la classe borghese” (K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista, (1848), in Idd., Opere, Editori Riuniti, Roma 1973, vol. VI, ottobre 1845-marzo 1848, p. 488).


[13] H. Kelsen, Wom Wesen und Wert der Demokratie (1929), tr. it., Essenza e valore della democrazia (1929), in Id., La democrazia, a cura di G. Gavazzi, Il Mulino, Bologna, 1981, cap. II, pp. 50-66


[14] Ho insistito più volte sulla necessità di questa separazione: in Principia iuris. Teoria del diritto e della democrazia, Laterza, Roma-Bari 2007, vol. II, § 14.8, pp. 186-193; in La democrazia attraverso i diritti.


Il costituzionalismo garantista come modello teorico e come progetto politico, Laterza, Roma-Bari 2013, § 5.3, pp. 198-201; in Una rifondazione garantista della separazione dei poteri, (2015), in Iura Paria. I fondamenti della democrazia costituzionale, Editoriale Scientifica, a cura di D. Ippolito e F. Mastromartino, Napoli 2015, § 3.1, pp. 82-85; in Separare i partiti dallo Stato, riportare i partiti nella società, in “Lo Stato. Rivista semestrale di Scienza costituzionale e teoria del diritto”, a. IV, n. 6, gennaio-giugno 2016, pp. 11-33 e in La costruzione della democrazia. Teoria del garantismo costituzionale, Laterza, Roma-Bari 2021, §§ 2.9-2.10, pp. 112-120; §§ 3.8-3.9, pp. 160-168; §§ 5.6-5.8, pp. 251-263 e § 8.2, pp. 399-405.


[15] Ho sostenuto la necessità di un costituzionalismo globale in La sovranità nel mondo moderno. Nascita e crisi dello Stato nazionale, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 45-59; in Principia iuris. cit., vol. II, cap. XVI, §§ 16.14-16.26, pp. 548-612; in La democrazia attraverso i diritti cit., cap. V, pp. 181-255; in Costituzionalismo oltre lo Stato, Mucchi, Modena 2017; in La costruzione della democrazia cit., cap. IV, pp. 176-224 e cap. VIII, pp. 394-450; in Perché una Costituzione della Terra, Giappichelli, Torino 2021 e in Per una costituzione della Terra. L’umanità a un bivio, Feltrinelli, Milano 2022.


[16] C. Schmitt, Il custode della Costituzione, cit., pp. 135 e 241.


[17] M. Luciani, Dalla guerra giusta alla guerra legale? In “Teoria politica”, 2022, p. 126.


[18] Ibidem

Nessun commento: