Translate

mercoledì 14 agosto 2013

Cassazione: lavoratore non accetta il demansionamento? Può essere licenziato




Nuova pagina 1
Cassazione: lavoratore non accetta il demansionamento? Può essere licenziato
La Sezione Lavoro della Corte di Cassazione (Sent. n.
25313/2007) ha stabilito che è legittimo il comportamento del datore di
lavoro che adibisce i propri dipendenti a mansioni inferiori quando
detto demansionamento ha il fine di consentire la riorganizzazione
produttiva e l'accrescimento delle professionalità di ciascuno ed
evitare la crisi aziendale.
Gli Ermellini hanno quindi ribadito la
legittimità delle previsioni contrattuali intese nel senso della
flessibilità e della intercambiabilità nell'ambito di un'ampia area di
professionalità diverse.
Con questa decisione la Corte ha ritenuto
legittimo il licenziamento (per giusta causa) deciso dal datore di
lavoro nei confronti di un lavoratore che si era rifiutato di eseguire
la propria prestazione, ritenendola estranea alla qualifica di
appartenenza





Cass. civ. Sez. lavoro, 05-12-2007, n. 25313


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI
CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCIARELLI Guglielmo - Presidente

Dott. MONACI Stefano -
Consigliere

Dott. DE MATTEIS Aldo - rel. Consigliere

Dott. BALLETTI
Bruno - Consigliere

Dott. NOBILE Vittorio - Consigliere

ha
pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

E.G.,
elettivamente domiciliato in ROMA CORSO DEL RINASCIMENTO 11, presso lo
studio dell'avvocato PELLEGRINO GIANLUIGI, che lo rappresenta e
difende, giusta delega in atti;

- ricorrente -

contro

SIFIP S.R.L.
in persona del legale rappresentante pro tempore, quale società
incorporante la I.C.I. S.P.A., elettivamente domiciliata in ROMA VIA L.
MANTEGAZZA 24, presso lo studio dell'avvocato GARDIN LUIGI,
rappresentata e difesa dall'avvocato PERRONE ELIO, giusta delega in
atti;

- controricorrente -

avverso la sentenza n. 1157/04 della Corte
d'Appello di LECCE, depositata il 03/06/04 R.G.N. 2754/03;

udita la
relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 08/11/07 dal
Consigliere Dott. Aldo DE MATTEIS;

udito l'Avvocato Perrone;

udito il
P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DESTRO Carlo,
che ha concluso per il rigetto del ricorso.


--------------------------------------------------------------------------------
Fatto Diritto P.Q.M.
Svolgimento del processo
La S.p.A. I.C.I. -
Impresa Costruzioni Impianti ha demansionato il signor E.G., proprio
dipendente con qualifica impiegatizia e mansioni di assistente, alle
mansioni operaie, in esecuzione dell'accordo ministeriale 23 marzo
1999, il quale, al fine di evitare la procedura di mobilità per 144
unità in esubero nel territorio nazionale, ha previsto per la sede di
Lecce, dove l' E. prestava servizio, il demansionamento di due
assistenti e un addetto alla contabilità, ai sensi della L. 23 luglio
1991, n. 223, art. 4, comma 11.

Con lettera del 23 aprile 1999 l'ICI
ha contestato all' E. l'assenza ingiustificata dal giorno 19 aprile, e
con lettera del 14 maggio 1999 lo ha licenziato.

L'impugnazione del
licenziamento, accolta dal primo giudice, è stata respinta dalla Corte
d'appello di Lecce con sentenza 20 maggio/3 giugno 2004 n. 1157.

Il
giudice di appello ha premesso che il provvedimento di demansionamento
disposto dalla società nei confronti dell' E. era legittimo, perchè
fondato sull'accordo ministeriale del 23 marzo 1999, portato a
conoscenza dell' E. non già dopo il licenziamento ed in occasione di un
incontro presso la commissione di conciliazione - come da questi
sostenuto nel ricorso introduttivo del giudizio - ma molto prima del
licenziamento medesimo, con il telegramma 2 aprile 2004 (rectius 2
aprile 1999). Con questo telegramma la società comunicava al lavoratore
che, in esecuzione dell'accordo sottoscritto presso il ministero del
lavoro in Roma in data 23 marzo 1999, lo stesso sarebbe stato impiegato
nelle previste mansioni operaie quale addetto all'attività di
installazione di impianti e reti telefoniche, con conseguente sua
collocazione in solidarietà con riduzione d'orario al 50%; comunicava
altresì che dal 5 al 17 aprile 1999 sarebbe stato posto in solidarietà
a zero ore e successivamente sarebbe rimasto con l'attività definita,
in ossequio al programma di rotazione predisposto.

L' E. contestava
tali disposizioni con telegramma in data 5 aprile 1999, e nei giorni
successivi al 17 aprile si è presentato sul posto di lavoro pretendendo
di svolgere le mansioni di impiegato.

Il giudice d'appello ha valutato
che l' E., essendosi rifiutato di svolgere le mansioni che gli erano
state legittimamente assegnate, deve essere ritenuto assente
ingiustificato dal lavoro a partire dal 19 aprile 1999. Il giudice
d'appello ha concluso che il licenziamento è giustificato, in base alla
giurisprudenza di legittimità, che citava (Cass. 23 dicembre 2003 n.
19689, Cass. 7 settembre 2000 n. 11806).

Avverso tale sentenza ha
proposto ricorso per Cassazione l' E., con unico motivo.

Si è
costituita con controricorso, resistendo, la s.r.l. SIFIP, società
incorporante la s.p.a. ICI. Entrambi hanno depositato memoria ex art.
378 c.p.c..

Motivi della decisione
Con unico motivo il ricorrente,
deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 1460 e 2119 cod.
civ. (art. 360 c.p.c., n. 3); omessa motivazione su un punto decisivo
della controversia, (art. 360 c.p.c., n. 5), non contesta più la
legittimità del demansionamento, ma concentra le sue censure sulla
mancanza di proporzionalità tra illecito e sanzione.

Fa notare che il
lavoratore aveva contestato in buona fede l'esercizio da parte del
datore di lavoro dello jus variandi; lamenta che la sentenza impugnata
non abbia valutato la buona fede del suo comportamento, al fine di una
corretta applicazione dell'articolo 1460 del codice civile; lamenta
altresì che la sentenza impugnata non abbia attribuito efficacia
discriminante alla circostanza, di cui pur da atto, che l' E. non aveva
abbandonato il posto di lavoro, ma vi si era recato ogni giorno,
dichiarando la propria disponibilità a svolgere le mansioni cui prima
era applicato. Il motivo non è fondato.

La L. 23 luglio 1991, n. 223,
art. 4, comma 11, statuisce: "Gli accordi sindacali stipulati nel corso
delle procedure di cui al presente articolo, che prevedano il
riassorbimento totale o parziale dei lavoratori ritenuti eccedenti,
possono stabilire, anche in deroga al secondo comma dell'articolo 2103
del codice civile, la loro assegnazione a mansioni diverse da quelle
svolte".

Tale disposizione è stata interpretata da questa Corte, come
correttamente ricordato nella sentenza impugnata, nel senso che essa
implica la possibilità di attribuire mansioni anche peggiorative, e non
pone alcuna preclusione nell'assegnazione delle mansioni inferiori,
anche attribuendo all'impiegato quelle proprie dell'operaio; e ciò si
spiega considerando che trattasi di un rimedio per evitare il
licenziamento (Cass. 7 settembre 2000 n. 11806).

La ratio della
disposizione in esame è quindi coerente con il processo storico di
flessibilizzazione della originaria rigidità della disposizione, ad
opera sia della giurisprudenza, sia del legislatore.

L'art. 2103 c.c.,
come novellato dalla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 13, proibisce
l'adibizione del lavoratore a mansioni inferiori a quelle di assunzione
o corrispondenti alla categoria superiore successivamente acquisita e,
all'ultimo comma, fulmina di nullità qualsiasi patto contrario, volto a
derogare ai precetti in materia di tutela della professionalità.

Sul
piano giurisprudenziale la rigidità della disciplina complessiva
dell'articolo 2103 c.c. è stata messa in crisi dalla drammatica scelta
tra perdita del posto di lavoro e conservazione dello stesso a
condizioni deteriori. La primitiva risposta della giurisprudenza fu
fedele al dato testuale, con la motivazione che il legislatore, con la
L. 20 maggio 1970, n. 300, articolo 13 che detta il nuovo testo art.
2103 c.c., ha adottato uno strumento di tutela rigido che opera in
tutte le direzioni e può, in condizioni particolari, comportare anche
un sacrificio per il prestatore di lavoro (Cass. 13 febbraio 1980 n.
1026, Cass. 1 giugno 1983 n. 3753, Cass. 17 giugno 1983 n. 4189, Cass.
28 ottobre 1983 n. 6406). Successivamente il chiaro interesse del
lavoratore alla conservazione del posto di lavoro è stato privilegiato
prima dalla giurisprudenza di merito, e poi dalla stessa giurisprudenza
di legittimità, che si può ormai considerare consolidata, nonostante le
severe critiche della dottrina sulla infedeltà testuale, nel senso che
la nullità, sancita nella L. n. 300 del 1970, art. 13, di ogni patto
contrario alla disciplina dettata dalle precedenti disposizioni dello
stesso articolo, non è riferibile anche all'ipotesi in cui la modifica
in peius delle mansioni sia stata concordata nell'interesse del
lavoratore e al fine di evitare il licenziamento del medesimo; infatti,
in detta ipotesi, il patto concernente la diversa utilizzazione del
lavoratore non è in contrasto con le esigenze di dignità e libertà
della persona e configura, per il lavoratore, ma costituisce una
soluzione più favorevole di quella - ispirata ad un'esigenza di mero
rispetto formale della norma - rappresentata dal licenziamento con
successiva riassunzione (ad iniziare da Cass. 12 gennaio 1984 n. 266;
Cass. 7 marzo 1986 n. 1536, Cass. 4 maggio 1987 n. 4142; Cass. 29
novembre 1988 n. 6441, la quale ultima estende la legittimità del patto
anche al fine di evitare la messa in cassa integrazione, con indirizzo
tuttora perdurante: Cass. 7 febbraio 2005 n. 2375). Tale principio, cd.
della ammissibilità del patto di dequalificazione al fine di evitare il
licenziamento, è stato successivamente ampliato al fine di ritenere
legittima anche l'assegnazione datoriale unilaterale a mansioni
inferiori allo stesso fine, in caso di inabilità permanente alle
mansioni, ed in mancanza di altre equivalenti (Sezioni Unite 7 agosto
1998 n. 7755, Cass. 9 marzo 2004 n. 4790).

Ancora sul piano
giurisprudenziale si può ricordare la ritenuta legittimità della
adibizione a mansioni inferiori in misura non prevalente (Cass. 3
febbraio 2004 n. 1987), o l'espansione della nozione di lavoratore
assente con diritto alla conservazione del posto, con corrispondente
limitazione del diritto alla acquisizione della qualifica
corrispondente alla mansione superiore svolta (includendovi le ferie
del sostituto, prima escluse: Cass. 23 febbraio 2004 n. 3581, Cass. 6
maggio 1999 n. 4550, Cass. 8 ottobre 1997 n. 7541; i permessi
retribuiti: Cass. 17 settembre 1991 n. 9677;

la cassa integrazione
guadagni: Cass. 5 dicembre 1990 n. 11663), o sullo svolgimento di
mansioni vicarie di diverso livello, senza diritto al corrispondente
inquadramento (Cass. 13 maggio 2004 n. 91413, Cass. 30 dicembre 1999 n.
14738). Sul piano legislativo si può ricordare la L. 13 maggio 1985, n.
190, articolo 6 (come sostituito dalla L. 2 aprile 1986, n. 106,
articolo 2), che ha attribuito alla contrattazione collettiva il potere
di determinare, per i quadri, il periodo di maturazione del diritto
alle mansioni superiori in misura difforme e superiore, senza alcun
limite di tempo, a quella civilistica del trimestre; la L. 23 luglio
1991, n. 223, articolo 4, comma 11, in esame; il D.Lgs. 15 agosto 1991,
n. 277, articolo 8, comma 2, secondo cui il lavoratore che sia
allontanato per motivi sanitari dalla lavorazione cui è addetto può
essere temporaneamente adibito a mansioni deteriori a parità di
retribuzione.

Lo stesso metodo della delega alla contrattazione
collettiva, anzichè dell'approccio frontale all'articolo 2103 c.c., è
stato adottato dal legislatore per la riorganizzazione delle aziende
pubbliche, e poi del pubblico impiego (L. 17 maggio 1985, n. 210, art.
21, per il personale ferroviario, D.L. 1 dicembre 1993, n. 487,
convertito, con modificazioni, nella L. 29 gennaio 1994, n. 71 per i
dipendenti postali, etc; emblematico del nuovo corso il D.Lgs. 29
giugno 1996, n. 367, art. 22, comma 3, secondo cui l'articolo 2103 del
codice civile si applica al personale artistico degli enti lirici nei
modi disciplinati dalla contrattazione collettiva).

In tale ambito, le
Sezioni Unite di questa Corte hanno proceduto ad una revisione in senso
dinamico e collettivo della nozione di professionalità,
tradizionalmente intesa in senso statico, ammettendo la legittimità
delle previsioni contrattuali di flessibilità ed intercambiabilità
nell'ambito di un'ampia area di professionalità diverse, proprio per
consentire la riorganizzazione produttiva e l'accrescimento delle
professionalità di ciascuno (S.U. sentenza 24 novembre 2006 n. 25033;
Cass. sez. lav. 8 marzo 2007 n. 5285).

Posta dunque la legittimità
della adibizione alle mansioni inferiori, le censure dell'odierno
ricorrente in punto di proporzionalità appaiono prive di qualsiasi
fondamento, perchè attengono a circostanze di fatto attentamente
esaminate dal giudice d'appello, e correttamente valutate alla stregua
della giurisprudenza di legittimità.

Infatti costituisce grave
insubordinazione, come tale passibile del provvedimento disciplinare
del licenziamento per giusta causa, il comportamento del lavoratore che
si renda inadempiente, rifiutandosi di eseguire la propria prestazione,
ritenendola estranea alla qualifica di appartenenza. Come statuito da
Cass. 23 dicembre 2003 n. 19689, "l'eventuale adibizione a mansioni non
rispondenti alla qualifica rivestita può consentire al lavoratore di
richiedere giudizialmente la riconduzione della prestazione nell'ambito
di qualifica di appartenenza, ma non autorizza lo stesso a rifiutarsi
aprioristicamente e senza un eventuale avallo giudiziario (che può
essergli urgentemente accordato in via cautelare), di eseguire la
prestazione lavorativa richiestagli, in quanto egli è tenuto a
osservare le disposizioni per l'esecuzione del lavoro impartito
dall'imprenditore ai sensi degli artt. 2086 e 2104 c.c., da applicarsi
alla stregua del principio sancito dall'art. 41 Cost.;

solo in caso di
totale inadempimento dell'altra parte, infatti, si può legittimamente
invocare l'art. 1460 c.c. e rendersi inadempienti".

La giurisprudenza
di questa Corte ha ammesso la legittimità del rifiuto della prestazione
solo in determinati casi, che qui non ricorrono (quale il rifiuto dello
straordinario illegittimamente disposto: Cass. 19 febbraio 1992 n.
2073).

Il ricorso va pertanto respinto.

Le spese processuali del
presente giudizio sono compensate.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso e
compensa le spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, nella
Camera di consiglio della Sezione Lavoro, il 8 novembre 2007.

Depositato in Cancelleria il 5 dicembre 2007


 

Nessun commento: