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PRESCRIZIONE PENALE
Cass. pen. Sez. III, (ud. 24-10-2007) 26-11-2007,
n. 43840
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE
SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.
ri Magistrati:
Dott. PAPA Enrico - Presidente
Dott. PETTI Ciro -
Consigliere
Dott. TERESI Alfredo - Consigliere
Dott. MARMO Margherita
- Consigliere
Dott. SENSINI Maria Silvia - Consigliere
ha pronunciato
la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
B.S., nata a
(OMISSIS) e residente a (OMISSIS);
avverso la sentenza del Tribunale
di Firenze n. 199/05 in data 20 gennaio 2005, di condanna - con i doppi
benefici di legge - alla pena di Euro 3.000,00 di ammenda, per
contravvenzione alla L. n. 283 del 1962, art. 5, lett. d) e art. 6,
comma 3;
Sentita la relazione del cons. Dr. Sensini;
sentito il
Procuratore Generale, in persona del Sostituto dott. Angelo Di Popolo,
che ha concluso per la declaratoria d'inammissibilità del ricorso.
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Fatto - Diritto P.Q.M.
Svolgimento del processo - Motivi della
decisione
OSSERVA
Premesso - in fatto - che:
Condannata a pena di
giustizia per contravvenzione alla L. n. 283 del 1962, art. 5, lett.
d), e art. 6, comma 3 per avere, nella sua qualità di legale
rappresentante del ristorante pizzeria " (OMISSIS)", detenuto per
vendere e comunque distribuito per il consumo una pizza nella quale
veniva rinvenuto dal consumatore B.M. un dente umano. Reato commesso in
(OMISSIS) in data (OMISSIS), B.S. propone personalmente ricorso per
cassazione, deducendo:
1.- "erronea applicazione della legge penale.
Insussistenza del reato di cui alla L. n. 283 del 1962, art. 5, lett.
d)": sostiene non essere evitabile l'evento attribuitole in quanto,
ammesso che un dente (umano o non) od un corpo estraneo purchessia sia
stato rinvenuto nella pizza servita al cliente, "nessuno può obbligare
chi lavora in un ristorante ad indossare maschere o a visite
dentistiche", così come sarebbe impossibile al legale rappresentante
"controllare la qualità di prodotti confezionati" utilizzati per la
preparazione degli alimenti (in particolare, la presenza di un 'sasso
della dimensione di un dente umano in un barattolo di pelati impiegato
per confezionare una pizza);
2.- "contraddittorietà e manifesta
illogicità della motivazione risultante da una mera lettura del testo
della sentenza gravata":
alla incertezza sulla natura del misterioso
oggetto ignoto si aggiungerebbe quella sulla provenienza di esso
(eventualmente Ma un commensale di chi lo ha rinvenuto);
3.- "assoluta
assenza dell'elemento soggettivo della colpa. Palese applicazione della
cd. "responsabilit…" oggettivà da posizione.
Violazione dell'art. 27
Cost.": la censura si pone come simmetrica rispetto alla prima, laddove
ipotizza l'insussistenza delle violazioni enunciate in conseguenza
della inevitabilità dell'evento, che renderebbe censurabili le
affermazioni della sentenza impugnata, secondo cui "è sufficientemente
provata anche la diretta responsabilità dell'imputata, quale legale
rappresentante della società che gestiva il ristorante pizzeria, per
avere consentito le illecite modalità di produzione di quel cibo
concretamente riscontrate, e comunque per non aver sorvegliato
adeguatamente per impedire il verificarsi del fatto"; l'imputata
infatti, nella indicata qualità, avrebbe dovuto fornire "le opportune
direttive per la corretta esecuzione dell'attività di conservazione
degli ingredienti e di produzione degli alimenti" ed "avrebbe dovuto
quantomeno controllare le condizioni dei singoli alimenti";
4.-
"nullità della sentenza per violazione dell'art. 522 c.p.p. Violazione
dell'art. 24 Cost.": l'aver punito la ricorrente per la specifica
contestazione mossale avrebbe pregiudicato il suo diritto di difesa, a
salvaguardia del quale il P.M. "avrebbe dovuto procedere a modificare
l'imputazione sostituendo al "dente" un 'oggetto non meglio
identificato;
5.- "violazione di norma processuale. Mancata
applicazione dell'art. 530 c.p.p., comma 2": traducendo in termini
processuali le incertezze riscontrabili attraverso le precedenti
censure, "sembra in effetti di essere in presenza di un caso di scuola
per la corretta applicazione della norma processuale di cui al presente
motivo";
6.- "eccessività della pena. Violazione dell'art. 133 c.p.":
il giudice di merito, dopo aver scelto di applicare la pena pecuniaria
per "la apparente occasionalità del fatto e la assoluta incensuratezza
dell'imputata", non ha in alcun modo motivato la quantificazione della
pena base in Euro 4.500,00, che "diverge non poco dal minimo edittale";
7.- "concessione del beneficio di cui all'art. 163 c.p.": in presenza
di una pena solo pecuniaria, la sospensione 'ha costituito sicuramente
un danno per la odierna ricorrente;
8.- "intervenuta prescrizione",
con riguardo alla data del reato contravvenzionale contestato.
Ritenuto - in diritto - che:
Il ricorso è inammissibile per
inammissibilità di tutti i motivi con esso articolati.
1.-
Manifestamente infondato è il quarto motivo, da correlare alla corretta
- ed, in se, non censurata - affermazione del giudice del merito,
secondo cui non vi è alcun dubbio che il fornire ad un cliente una
pietanza che contiene al suo interno un oggetto quale quello descritto
costituisce il reato contestato: è infatti evidente che l'alimento
fornito al signor B.M. era insudiciato e nocivo, contenendo un corpo
estraneo, non commestibile, che ne alterava, la igienioità ed era
addirittura idoneo, per la sua durezza, a cagionare un danno al
consumatore, potendo rompere un dente se masticato o creare difficoltà
digestive se ingerito.
Sussiste quindi senza alcun dubbio l'elemento
oggettivo del reato di cui alla L. n. 283 del 1962, art. 5, lett. d)
punito dal successivo art. 6 L. cit.". A fronte di una costruzione
siffatta, non solo non è configurabile una indebita immutazione del
fatto, nella sostituzione della locuzione "dente umano" (rinvenuto
nella pizza servita al cliente) con quella di "corpo estraneo", non
commestibile - tanto più in relazione alla deposizione del B.M.,
secondo cui si sarebbe trattato di "un oggetto duro, dalle apparenze di
un dente" - ma soprattutto pare arduo sostenere che la formale
sostituzione della locuzione specifica con quella di "oggetto non
meglio identificato" avrebbe potuto garantire alla giudicabile una più
efficace difesa.
2.- Manifestamente infondato è il primo motivo, col
quale si vorrebbe costruire una sorta di inesigibilità del dovere di
impedire che corpi estranei 'cadanò nella pietanza in corso di
preparazione:
a parte la singolarità della prospettazione, si osserva,
in particolare, che, anche se il corpo estraneo si fosse trovato in un
barattolo di pelati, non per questo l'utilizzatore del barattolo
andrebbe esente da ogni dovere di controllo, che, una volta aperta la
confezione, grava invece esclusivamente su di lui.
3.- In diretta
correlazione è manifestamente infondato il terzo motivo, giacchè
l'obbligo di vigilare adeguatamente e di fornire - semmai attraverso un
apposito codice di sicurezza da seguire nella preparazione degli
alimenti - direttive producenti per l'opportuno controllo igienico
incombe su chi organizza il servizio, vale a dire proprio sul legale
rappresentante dell'ente, chiamato a risponderne per colpa diretta e
non certamente in via di responsabilità oggettiva.
4.- Intrinsecamente
inammissibile è il secondo motivo, con cui, sotto il profilo del vizio
di motivazione, si prospetta la mera eventualità che l'oggetto possa
essere rapportabile ad uno dei clienti, così indebitamente procedendosi
ad una mera valutazione diversa, che abbisognerebbe, oltre tutto, di
apposita indagine di fatto.
5.- In relazione a tali non verificabili
tesi difensive, appare formulata la censura di cui al quinto motivo,
inammissibile per le stesse ragioni che precedono.
6.- Pure
inammissibile è il sesto motivo: il giudice di merito risulta aver
fatto corretto uso del proprio potere discrezionale, nella
determinazione della pena: infatti, dopo aver scelto quella pecuniaria,
la ha fissata nella misura base di Euro 4.500,00 (ridotti a Euro
3.000,00 per il computo delle generiche, nella estensione massima): ed
è certamente apodittica la censura secondo cui tale pena "diverge non
poco dal minimo edittale", non essendosi considerato che non sussiste
un obbligo del giudice di irrogare il minimo, e che la critica è
intrinsecamente immotivata, in presenza di un minimo di Euro 2.582,00 e
di un massimo di Euro 46.481,00. 7.- Inammissibile è anche il settimo
motivo, per mancanza di interesse ad impugnare.
A partire da Cass.,
Sez. un., 6563/1994, infatti, si è univocamente affermato il principio,
secondo cui "La sospensione condizionale non può risolversi in un
pregiudizio per l'imputato in termini di compromissione del carattere
personalistico e rieducativi della pena:
l'interesse alla
impugnazione, condizionante l'ammissibilità dal ricorso, si configura
tutte le volte in cui il provvedimento di concessione del beneficio sia
idoneo a produrre il concreto la lesione della sfera giuridica
dell'impugnante e la sua eliminazione consenta il conseguimento di una
situazione giuridica più vantaggiosa. Il pregiudizio addotto
dall'interessato, tuttavia, in tanto è rilevante in quanto non attenga
a valutazioni meramente soggettive di opportunità e di ordine pratico,
ma concerna interessi giuridicamente apprezzabili in quanto correlati
alla funzione stessa della sospensione condizionale, consistente nella
reintegrazione sociale del condannato". Proprio in tale ottica, non
assume rilevanza giuridica la mera opportunità di riservare il
beneficio per eventuali condanne a pene più gravi, perchè valutazione
di opportunità del tutto soggettiva e per giunta eventuale, e comunque
in contrasto con la prognosi di non reiterazione criminale e quindi di
ravvedimento, imposta dall'art. 164 c.p., comma 1 per la concessione
del beneficio medesimo (negli stessi sensi, fra le altre, Cass., 1,
10791/1999; 3, 4954/2000; 3, 12279/2000; 1, 25513/2002; 5, 15791/2003;
5, 41557/2006; 3, 20469/2007).
8.- Da tutto ciò consegue
l'inammissibilità del ricorso. Essa non consente di rilevare la
prescrizione, che sarebbe maturata (il 19 giugno 2005) successivamente
alla pronuncia impugnata.
L'inammissibilità della impugnazione,
infatti, qualunque ne sia la causa, vale a dire originaria, per
mancanza nell'atto di impugnazione dei requisiti prescritti dall'art.
581 c.p.p. (Sez. un., 11 novembre 1994, Cresci) o derivante dalla
enunciazione di motivi non consentiti e dalla enunciazione di
violazioni di legge non dedotte con i motivi di appello (Sez. un., 30
giugno 1999, Piepoli), o, infine, derivante dalla manifesta
infondatezza dei motivi di ricorso (Sez. un., 22 novembre 2000, De
Luca), preclude l'esame della sussistenza di cause di non punibilità,
ai sensi dell'art. 129 c.p.p..
A mente dell'art. 616 c.p.p., alla
declaratoria di inammissibilità segue a carico della ricorrente l'onere
delle spese del procedimento, nonchè del pagamento di una somma alla
cassa delle ammende, non versandosi in ipotesi di carenza di colpa
della parte ricorrente nella determinazione della causa di
inammissibilità (Corte Cost.
186/2000).
P.Q.M.
La Corte dichiara
inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa
delle ammende.
Così deciso in Roma, il 24 ottobre 2007.
Depositato in
Cancelleria il 26 novembre 2007
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c.p.p. art. 129
c.p.p. art. 581
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