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martedì 28 maggio 2013

Cassazione: Il datore di lavoro deve controllare





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Cass. pen. Sez. IV, (ud. 29-01-2007) 24-04-2007, n. 16422
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MARZANO Francesco - Presidente
Dott. BRICCHETTI Renato - Consigliere
Dott. AMENDOLA Adelaide - Consigliere
Dott. BLAIOTTA Rocco - Consigliere
Dott. PICCIALLI Patrizia - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
...OMISSISVLD...., n. a (OMISSIS);
avverso la sentenza in data 4.3.2004 della Corte di Appello di Firenze;
udita la relazione fatta dal Consigliere Dott. Patrizia Piccialli;
udito il Procuratore Generale nella persona del Sost. Proc. Gen. Dott. Dott. BAGLIONE Tindari che ha concluso il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo - Motivi della decisione

Con la sentenza in epigrafe la Corte di appello di Firenze, in parziale riforma della sentenza di primo grado, pronunciata dal Tribunale di Prato, per quanto qui rileva, indicava il termine per l'adempimento dell'obbligo cui è stata subordinata la sospensione condizionale della pena in giorni 60 dal passaggio in giudicato della sentenza, e confermava il giudizio di responsabilità nei confronti di ...OMISSISVLD.... per il reato di lesioni colpose aggravate dalla violazione di norme antinfortunistiche (ex art. 590 c.p., commi 1 e 2), determinando la pena in mesi 3 gg. 15 di reclusione.
L'infortunio era occorso in data 31 marzo 2000 in danno del dipendente G.S., che, mentre era sul tetto di un capannone industriale per procedere alla riparazione di un lucernaio, precipitava dall'altezza di circa dieci metri a seguito della rottura di una lastra di vetroresina posta su di un altro lucernaio, riportando lesioni personali gravi al cranio, con pericolo di vita.
A carico del D.V. erano stati ravvisati profili di colpa, sia generica, per aver omesso di verificare ed imporre al lavoratore il rispetto delle cautele suggerite dalla comune prudenza, sia specifica, fondata, quest'ultima, sulla inosservanza del disposto del D.P.R. n. 164 del 1956, art. 70, secondo il quale, prima di procedere all'esecuzione di lavori su lucernari, tetti, coperture e simili, deve essere accertato il loro grado di resistenza in relazione al peso degli operai e del materiale di impiego.
Avverso la predetta decisione propone ricorso per cassazione D. V.F., articolando due motivi, strettamente connessi.
Con il primo denuncia la violazione dell'art. 521 c.p.p. sul rilievo che il giudice di primo grado avrebbe evidenziato un profilo di colpa non specificamente individuato prima,con precipuo riferimento alla disamina della condotta del D.V., che non avrebbe imposto l'uso di cinture di sicurezza D.P.R. n. 164 del 1956, ex art. 10 e che i giudici della Corte di appello avevano cercato di giustificare tale riferimento sostenendo inutilmente che il D.P.R. n. 164 del 1956, art. 70, ultima parte prescrive, in caso di dubbio sulla resistenza delle strutture, anche l'uso di cinture di sicurezza. Gli stessi giudici d'appello davano comunque atto che la condotta del D. V. non appariva censurabile, attese le difficoltà pratiche connesse, nel caso concreto, all'adozione di tale cautela. La mancanza di necessaria correlazione tra accusa e sentenza è configurabile, secondo il ricorrente, anche sotto un altro profilo: i giudici di appello hanno, infatti, contestato per la prima volta al ricorrente di non aver provveduto ad una chiara delimitazione delle zone di lavoro, comunque, pericolose.
Con il secondo motivo deduce l'assenza di motivazione in ordine all'istanza di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale ex art. 603 c.p.p., formulata in sede di giudizio di appello.
Con il terzo motivo lamenta la manifesta illogicità della motivazione, che fonderebbe il giudizio di responsabilità dell'imputato su valutazioni apodittiche, tra cui l'asserita pericolosità del tetto ricurvo di un capannone industriale con presenza di lucernari, costituenti una vera e propria insidia, non essendo facilmente rilevabili per l'omogeneità (in vetroresina) rispetto alla intera copertura (in eternit) da coloro che si fossero trovati sopra il tetto del capannone. Inoltre, contrariamente a quanto sostenuto in sentenza, la zona di lavoro doveva considerarsi ben delimitata ed i giudici del merito non avevano tenuto conto che la caduta del G. era avvenuta da un lucernaio distante circa dieci metri dal luogo in cui doveva essere eseguito l'intervento di riparazione. Apodittica, inoltre, sarebbe l'affermazione della Corte di merito dove sostiene l'inidoneità di tutti lucernari presenti su quel tetto a sostenere il peso di una o più persone.
Con il quarto motivo lamenta l'inosservanza della legge penale processuale penale in tema di valutazione delle prove ex art. 192 c.p.p. in quanto la Corte di appello non avrebbe tenuto conto che l'infortunio era stato determinato esclusivamente dal comportamento imprudente del G., il quale aveva ammesso di essere salito sul tetto passando da una tettoia non inclinata e che si trovava al momento dell'incidente in una zona distante da quella dove avrebbe dovuto essere eseguito il lavoro.
Il ricorso non può trovare accoglimento in quanto infondato.
Con riferimento al primo motivo, non può sostenersi, con la difesa, che i giudici del merito avrebbero evidenziato profili non evidenziati nel capo di imputazione (ciò con preciso riferimento alla adozione delle cinture di sicurezza, per evitare la caduta accidentale da uno dei lucernari), incorrendo, pertanto, nella violazione del principio di necessaria correlazione tra la sentenza e la contestazione.
Tale violazione non vi è stata alla luce di quella che risulta essere stata la contestazione formulata sin dall'origine nei confronti dell'odierno ricorrente e delle ampie possibilità defensionali che questi ha avuto, in relazione a tutti i profili di colpa addebitatigli.
Al riguardo non va innanzitutto dimenticato che, per assunto pacifico, il principio di correlazione tra sentenza e accusa contestata è violato soltanto quando il fatto ritenuto in sentenza si trovi rispetto a quello contestato in rapporto di eterogeneità o di incompatibilità sostanziale, nel senso che si sia realizzata una vera e propria trasformazione, sostituzione o variazione dei contenuti essenziali dell'addebito nei confronti dell'imputato, posto così, a sorpresa, di fronte ad un fatto del tutto nuovo senza avere avuto la possibilità di effettiva difesa. Tale principio non è invece violato quando nei fatti, contestati e ritenuti, si possa agevolmente individuare un nucleo comune e, in particolare, quando essi si trovano in rapporto di continenza (cfr., tra le tante, Cass., Sez. 6^, 29 aprile 2003, Carboni).
Nella fattispecie, non occorre neanche richiamare il principio suddetto, non potendosi revocare in dubbio, alla luce della sola disamina della contestazione formulata nei confronti dell'odierno ricorrente, che tale violazione non vi è stata. Il D.P.R. n. 164 del 1956, art. 70, la cui inosservanza è stata ritualmente contestata, applicabile a tutte le ipotesi di lavori su lucernari, tetti, coperture e simili, oltre a prescrivere i necessari e preventivi accertamenti per verificare la sufficiente resistenza degli stessi per sostenere il peso degli operai, nell'ipotesi di dubbia resistenza prescrive espressamente nella seconda parte l'adozione dei necessari apprestamenti atti a garantire l'incolumità delle persone addette, disponendo a seconda dei casi, tavole sopra le orditure, sottopalchi e l'uso di cinture di sicurezza.
Non è quindi dubitabile, rispetto ad una ricostruzione fattuale della vicenda qui non sindacabile, l'esatto richiamo alla normativa di prevenzione de qua a fondamento della ritenuta colpa specifica; in una vicenda in cui, del resto, a carico del datore di lavoro è stata ravvisata anche la violazione delle comuni regole di prudenza e, quindi, la colpa generica (con argomentare sintetico, ma all'evidenza in linea con il disposto dell'art. 2087 c.c., in forza del quale il datore di lavoro è costituito garante dell'incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale del prestatore di lavoro, essendo posto comunque a suo carico l'obbligo di adottare, secondo le regole della comune prudenza, le misure che secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori).
Anche il secondo motivo, relativo all'omessa motivazione in merito alla richiesta rinnovazione della istruttoria dibattimentale, è infondato, poichè non tiene conto delle caratteristiche della rinnovazione del giudizio in appello.
In vero, secondo assunto pacifico, poichè il giudizio d'appello, costituisce un procedimento critico che ha per oggetto la sentenza impugnata, la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale è un istituto di carattere eccezionale, rispetto all'abbandono del principio di oralità del secondo grado, nel quale vale la presunzione che l'indagine istruttoria abbia ormai raggiunto la sua completezza nel dibattimento svoltosi innanzi al primo giudice. In una tale prospettiva, l'art. 603 c.p.p., comma 1, non riconosce carattere di obbligatorietà all'esercizio del potere del giudice d'appello di disporre la rinnovazione del dibattimento, anche quando è richiesta per assumere nuove prove, ma vincola e subordina tale potere, nel suo concreto esercizio, alla rigorosa condizione che il giudice ritenga, nella sua discrezionalità, di non poter decidere allo stato degli atti. Con la conseguenza che, se è vero che il diniego dell'eventualmente invocata rinnovazione dell'istruzione dibattimentale deve essere spiegato nella sentenza di secondo grado, la relativa motivazione (sulla quale nei limiti della illogicità e della non congruità è esercitatale il controllo di legittimità) può anche ricavarsi per implicito dal complessivo tessuto argomentativo, qualora il giudice abbia dato comunque conto delle ragioni in forza delle quali abbia ritenuto di potere decidere allo stato degli atti (di recente, Cass., Sez. 4^, 28 ottobre 2005, Conti).
La Corte di appello si è posta in linea con il principio sopra enunciato ed ha in effetti logicamente ed implicitamente argomentato sul rigetto della richiesta di rinnovazione dell'istruzione dibattimentale richiamando i principi generali in tema di responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c., che imponevano al D.V. l'adozione delle necessarie cautele per tutelare la salute del lavoratore.
Infondato è anche il terzo motivo che denuncia la mancanza e la illogicità della motivazione con riferimento alla ricostruzione della dinamica del sinistro, fondata essenzialmente sul comportamento D.V., che, nonostante un contesto non solo generalmente pericoloso ma presentante una specifica insidia, aveva omesso l'adozione delle necessarie cautele. Si sostiene che il giudice di appello non avrebbe tenuto conto delle argomentazioni difensive formulate alla luce delle risultanze istruttorie (fotografie in atti e le dichiarazioni rese dalla stessa parte offesa), che avevano escluso la sussistenza di una situazione di pericolo e, più in generale, della inidoneità dei lucernari a sostenere il peso di una o più persone.
In realtà, dietro l'apparente deduzione di un vizio di legittimità, il ricorrente vorrebbe che in questa sede si procedesse ad una rinnovata valutazione degli elementi probatori posti a base del giudizio di responsabilità.
Ciò che non è consentito in sede di legittimità laddove non è possibile una rinnovata valutazione dei fatti e degli elementi di prova.
E' principio non controverso, infatti, che nel momento del controllo della motivazione, la Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga la migliore ricostruzione dei fatti, nè deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una "plausibile opinabilità di apprezzamento". Ciò in quanto l'art. 606 c.p.p., comma 1, lettera e), non consente alla Corte di cassazione una diversa lettura dei dati processuali o una diversa interpretazione delle prove, perchè è estraneo al giudizio di legittimità il controllo sulla correttezza della motivazione in rapporto ai dati processuali (Cass., Sezione 5^, 13 maggio 2003, Pagano ed altri). In altri termini, il giudice di legittimità, che è giudice della motivazione e dell'osservanza della legge, non può divenire giudice del contenuto della prova, in particolare non competendogli un controllo sul significato concreto di ciascun elemento di riscontro probatorio (Cass., Sezione 6^, 6 marzo 2003, Di Folco).
Ciò premesso in termini generali, deve ritenersi che, proprio con riguardo all'apparato argomentativo a supporto del ritenuto addebito di colpa, la sentenza di merito appare congruamente motivata in relazione a tutti i profili di interesse, con corretta applicazione dei principi in tema di accertamento della colpa e di nesso di causalità.
La Corte di appello, attraverso un'analitica disamina degli atti di causa, ha ampiamente argomentato sui profili della ritenuta responsabilità dell'imputato, corrispondendo del resto puntualmente rispetto alle doglianze proposte con l'appello.
In particolare, i giudici di appello, con motivazione logicamente ineccepibile, hanno ricostruito la dinamica del sinistro, esaminando il comportamento dell'imputato, anche alla luce delle deduzioni difensive, che sono state disattese puntualmente con argomentazioni che hanno tenuto conto degli esiti della istruttoria dibattimentale.
Sul punto, è stato sottolineato che l'incidente si era verificato in un contesto già genericamente pericoloso, quale quello del tetto ricurvo di un capannone di tipo industriale con presenza di lucernari, caratterizzato oltretutto da specifica insidia, costituita dal fatto che le parti della complessiva copertura aventi funzione di lucernari non presentavano, dal punto di vista strutturale, alcuna soluzione di continuità rispetto alle altre parti, potendo anzi, sia per la conformazione sia per il materiale impiegato( di una sfumatura di colore diverso), essere confuse con le altre zone del tetto (almeno per quanti, come l'infortunato, si fossero trovati al di sopra di esso).
Nessuna incoerenza logica è ravvisatale in tale motivazione, con la quale la Corte di merito ha altresì esaminato e fornito assorbentemente risposta alle altre ipotesi formulate dalla difesa in merito alla ricostruzione della dinamica del sinistro, tutte tese a prospettare la sussistenza di un comportamento colposo del lavoratore (v. in particolare, l'asserita e, peraltro, irrilevante, circostanza dedotta dal ricorrente al fine di escludere la sussistenza del rapporto di causalità secondo la quale la caduta del G. era avvenuta da un lucernaio distante circa dieci metri dal luogo in cui doveva essere eseguito l'intervento di riparazione).
Infondata è anche la quarta censura, volta a prospettare l'interruzione del nesso causale basata sul comportamento imprudente della parte offesa (che avrebbe inopinatamente assunto l'iniziativa di salire sul tetto passando da una tettoia non inclinata, come da lui stesso ammesso) e sulla asserita circostanza che la normale attività di riparazione non presentava alcun elemento di rischio.
Il ricorrente dimentica di considerare che, poichè le norme di prevenzione antinfortunistica mirano a tutelare il lavoratore anche in ordine ad incidenti che possano derivare da sua negligenza, imprudenza ed imperizia, la responsabilità del datore di lavoro e, in generale, del destinatario dell'obbligo di adottare le misure di prevenzione può essere esclusa, per causa sopravvenuta, solo in presenza di un comportamento del lavoratore che presenti i caratteri dell'eccezionalità, dell'abnormità, dell'esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle precise direttive organizzative ricevute, che sia del tutto imprevedibile o inopinabile. Peraltro, in ogni caso, nell'ipotesi di infortunio sul lavoro originato dall'assenza o inidoneità delle misure di prevenzione, nessuna efficacia causale, per escludere la responsabilità del datore di lavoro, può essere attribuita al comportamento del lavoratore infortunato, che abbia dato occasione all'evento, quando questo sia da ricondurre, comunque, alla mancanza o insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare proprio il rischio di siffatto comportamento (Cass., Sez. 4^, 16 novembre 2006, Perin).
Partendo da queste premesse indiscutibili in diritto e tenendo altresì conto che la dinamica del sinistro è stata chiarita dalle dichiarazioni rese dal solo lavoratore, in quanto il D.V. non ha ritenuto di rendere dichiarazioni spontanee, deve ritenersi corretta la decisione del giudice di merito che, con ricostruzione dei fatti e analisi convincente, ha escluso che la condotta dell'operaio avesse integrato alcunchè di esorbitante o di imprevedibile, tale da poter rilevare ai fini dell'interruzione del nesso causale, avendo ravvisato questo, sempre con argomentazioni qui incensurabili e giuridicamente corrette, nelle inosservanze colpose ascritte all'imputato (in particolare, di non essersi preoccupato assolutamente della sicurezza ed incolumità fisica dell'operaio, omettendo di predisporre, ai fini del lavoro da eseguire, alcuna opera provvisionale e venendo meno all'obbligo di informazione nei confronti del dipendente sulla specifica pericolosità del luogo di lavoro).
La decisione dei giudici di merito è peraltro in linea con la giurisprudenza di questa Corte in materia di responsabilità colposa del datore di lavoro.
In proposito è stato condivisibilmente ritenuto (v. Sez. 4^, la già citata sentenza Perin ed i riferimenti in essa contenuti) che, in materia di infortuni sul lavoro, il D.Lgs n. 626 del 1994, se da un lato prevede anche un obbligo di diligenza del lavoratore, configurando addirittura una previsione sanzionatoria a suo carico, non esime il datore di lavoro, e le altre figura ivi istituzionalizzate, e, in mancanza, il soggetto preposto alla responsabilità ed al controllo della fase lavorativa specifica, del debito di sicurezza nei confronti dei subordinati. Questo consiste, oltre che in un dovere generico di formazione ed informazione, anche in forme di controllo idonee a prevenire i rischi della lavorazione che tali soggetti, in quanto più esperti e tecnicamente competenti e capaci, debbono adoperare al fine di prevenire i rischi, ponendo in essere la necessaria diligenza, perizia e prudenza, anche in considerazione della disposizione generale di cui all'art. 2087 c.c., norma di "chiusura del sistema", da ritenersi operante nella parte in cui non è espressamente derogata da specifiche norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro.
Come è noto, in forza della disposizione generale di cui all'art. 2087 c.c. e di quelle specifiche previste dalla normativa antinfortunistica, il datore di lavoro è costituito garante dell'incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale dei prestatori di lavoro, con l'ovvia conseguenza che, ove egli non ottemperi agli obblighi di tutela, l'evento lesivo correttamente gli viene imputato in forza del meccanismo reattivo previsto dall'art. 40 c.p., comma 2.
Ne consegue che il datore di lavoro, ha il dovere di accertarsi del rispetto dei presidi antinfortunistici e del fatto che il lavoratore possa prestare la propria opera in condizioni di sicurezza, vigilando altresì a che le condizioni di sicurezza siano mantenute per tutto il tempo in cui è prestata l'opera (v. Sez. 4^, 4 luglio 2006, Civelli).
In altri termini, il datore di lavoro deve sempre attivarsi positivamente per organizzare le attività lavorative in modo sicuro, assicurando anche l'adozione da parte dei dipendenti delle doverose misure tecniche ed organizzative per ridurre al minimo i rischi connessi all'attività lavorativa: tale obbligo dovendolo ricondurre, oltre che alle disposizioni specifiche, proprio, più generalmente, al disposto dell'art. 2087 c.c., in forza del quale il datore di lavoro è comunque costituito garante dell'incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale dei prestatori di lavoro, con l'ovvia conseguenza che, ove egli non ottemperi all'obbligo di tutela, l'evento lesivo correttamente gli viene imputato in forza del meccanismo previsto dall'articolo 40 c.p., comma 2, (v., oltre la sentenza citata, anche Cass., Sez. 4^, 12 gennaio 2005, Cuccù).
Tale obbligo comportamentale, che è conseguenza immediata e diretta della "posizione di garanzia" che il datore di lavoro assume nei confronti del lavoratore, in relazione all'obbligo di garantire condizioni di lavoro quanto più possibili sicure, è di tale spessore che non potrebbe neppure escludersi una responsabilità colposa del datore di lavoro allorquando questi tali condizioni non abbia assicurato, pur formalmente rispettando le norme tecniche, eventualmente dettate in materia al competente organo amministrativo, in quanto, al di là dell'obbligo di rispettare le suddette prescrizioni specificamente volte a prevenire situazioni di pericolo o di danno, sussiste pur sempre quello di agire in ogni caso con la diligenza, la prudenza e l'accortezza necessarie ad evitare che dalla propria attività derivi un nocumento a terzi (cfr. Cass., Sez. 4^, 12 dicembre 2000, Bulferetti).
Non è pertanto dubitale che l'incidente sia riconducibile al comportamento colposo del D.V..
Il ricorso, pertanto, va rigettato, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 29 gennaio 2007.
Depositato in Cancelleria il 24 aprile 2007

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