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Cass. pen. Sez. IV, (ud. 29-01-2007) 24-04-2007, n. 16422
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REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MARZANO Francesco - Presidente
Dott. BRICCHETTI Renato - Consigliere
Dott. AMENDOLA Adelaide - Consigliere
Dott. BLAIOTTA Rocco - Consigliere
Dott. PICCIALLI Patrizia - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
...OMISSISVLD...., n. a (OMISSIS);
avverso la sentenza in data 4.3.2004 della Corte di Appello di Firenze;
udita la relazione fatta dal Consigliere Dott. Patrizia Piccialli;
udito
il Procuratore Generale nella persona del Sost. Proc. Gen. Dott. Dott.
BAGLIONE Tindari che ha concluso il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
Con
la sentenza in epigrafe la Corte di appello di Firenze, in parziale
riforma della sentenza di primo grado, pronunciata dal Tribunale di
Prato, per quanto qui rileva, indicava il termine per l'adempimento
dell'obbligo cui è stata subordinata la sospensione condizionale della
pena in giorni 60 dal passaggio in giudicato della sentenza, e
confermava il giudizio di responsabilità nei confronti di
...OMISSISVLD.... per il reato di lesioni colpose aggravate dalla
violazione di norme antinfortunistiche (ex art. 590 c.p., commi 1 e 2), determinando la pena in mesi 3 gg. 15 di reclusione.
L'infortunio
era occorso in data 31 marzo 2000 in danno del dipendente G.S., che,
mentre era sul tetto di un capannone industriale per procedere alla
riparazione di un lucernaio, precipitava dall'altezza di circa dieci
metri a seguito della rottura di una lastra di vetroresina posta su di
un altro lucernaio, riportando lesioni personali gravi al cranio, con
pericolo di vita.
A carico del
D.V. erano stati ravvisati profili di colpa, sia generica, per aver
omesso di verificare ed imporre al lavoratore il rispetto delle cautele
suggerite dalla comune prudenza, sia specifica, fondata, quest'ultima,
sulla inosservanza del disposto del D.P.R. n. 164 del 1956, art. 70,
secondo il quale, prima di procedere all'esecuzione di lavori su
lucernari, tetti, coperture e simili, deve essere accertato il loro
grado di resistenza in relazione al peso degli operai e del materiale di
impiego.
Avverso la predetta decisione propone ricorso per cassazione D. V.F., articolando due motivi, strettamente connessi.
Con il primo denuncia la violazione dell'art. 521 c.p.p.
sul rilievo che il giudice di primo grado avrebbe evidenziato un
profilo di colpa non specificamente individuato prima,con precipuo
riferimento alla disamina della condotta del D.V., che non avrebbe
imposto l'uso di cinture di sicurezza D.P.R. n. 164 del 1956,
ex art. 10 e che i giudici della Corte di appello avevano cercato di
giustificare tale riferimento sostenendo inutilmente che il D.P.R. n. 164 del 1956, art. 70,
ultima parte prescrive, in caso di dubbio sulla resistenza delle
strutture, anche l'uso di cinture di sicurezza. Gli stessi giudici
d'appello davano comunque atto che la condotta del D. V. non appariva
censurabile, attese le difficoltà pratiche connesse, nel caso concreto,
all'adozione di tale cautela. La mancanza di necessaria correlazione tra
accusa e sentenza è configurabile, secondo il ricorrente, anche sotto
un altro profilo: i giudici di appello hanno, infatti, contestato per la
prima volta al ricorrente di non aver provveduto ad una chiara
delimitazione delle zone di lavoro, comunque, pericolose.
Con
il secondo motivo deduce l'assenza di motivazione in ordine all'istanza
di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale ex art. 603 c.p.p.,
formulata in sede di giudizio di appello.
Con
il terzo motivo lamenta la manifesta illogicità della motivazione, che
fonderebbe il giudizio di responsabilità dell'imputato su valutazioni
apodittiche, tra cui l'asserita pericolosità del tetto ricurvo di un
capannone industriale con presenza di lucernari, costituenti una vera e
propria insidia, non essendo facilmente rilevabili per l'omogeneità (in
vetroresina) rispetto alla intera copertura (in eternit) da coloro che
si fossero trovati sopra il tetto del capannone. Inoltre, contrariamente
a quanto sostenuto in sentenza, la zona di lavoro doveva considerarsi
ben delimitata ed i giudici del merito non avevano tenuto conto che la
caduta del G. era avvenuta da un lucernaio distante circa dieci metri
dal luogo in cui doveva essere eseguito l'intervento di riparazione.
Apodittica, inoltre, sarebbe l'affermazione della Corte di merito dove
sostiene l'inidoneità di tutti lucernari presenti su quel tetto a
sostenere il peso di una o più persone.
Con il quarto motivo lamenta l'inosservanza della legge penale processuale penale in tema di valutazione delle prove ex art. 192 c.p.p.
in quanto la Corte di appello non avrebbe tenuto conto che l'infortunio
era stato determinato esclusivamente dal comportamento imprudente del
G., il quale aveva ammesso di essere salito sul tetto passando da una
tettoia non inclinata e che si trovava al momento dell'incidente in una
zona distante da quella dove avrebbe dovuto essere eseguito il lavoro.
Il ricorso non può trovare accoglimento in quanto infondato.
Con
riferimento al primo motivo, non può sostenersi, con la difesa, che i
giudici del merito avrebbero evidenziato profili non evidenziati nel
capo di imputazione (ciò con preciso riferimento alla adozione delle
cinture di sicurezza, per evitare la caduta accidentale da uno dei
lucernari), incorrendo, pertanto, nella violazione del principio di
necessaria correlazione tra la sentenza e la contestazione.
Tale
violazione non vi è stata alla luce di quella che risulta essere stata
la contestazione formulata sin dall'origine nei confronti dell'odierno
ricorrente e delle ampie possibilità defensionali che questi ha avuto,
in relazione a tutti i profili di colpa addebitatigli.
Al
riguardo non va innanzitutto dimenticato che, per assunto pacifico, il
principio di correlazione tra sentenza e accusa contestata è violato
soltanto quando il fatto ritenuto in sentenza si trovi rispetto a quello
contestato in rapporto di eterogeneità o di incompatibilità
sostanziale, nel senso che si sia realizzata una vera e propria
trasformazione, sostituzione o variazione dei contenuti essenziali
dell'addebito nei confronti dell'imputato, posto così, a sorpresa, di
fronte ad un fatto del tutto nuovo senza avere avuto la possibilità di
effettiva difesa. Tale principio non è invece violato quando nei fatti,
contestati e ritenuti, si possa agevolmente individuare un nucleo comune
e, in particolare, quando essi si trovano in rapporto di continenza
(cfr., tra le tante, Cass., Sez. 6^, 29 aprile 2003, Carboni).
Nella
fattispecie, non occorre neanche richiamare il principio suddetto, non
potendosi revocare in dubbio, alla luce della sola disamina della
contestazione formulata nei confronti dell'odierno ricorrente, che tale
violazione non vi è stata. Il D.P.R. n. 164 del 1956, art. 70,
la cui inosservanza è stata ritualmente contestata, applicabile a tutte
le ipotesi di lavori su lucernari, tetti, coperture e simili, oltre a
prescrivere i necessari e preventivi accertamenti per verificare la
sufficiente resistenza degli stessi per sostenere il peso degli operai,
nell'ipotesi di dubbia resistenza prescrive espressamente nella seconda
parte l'adozione dei necessari apprestamenti atti a garantire
l'incolumità delle persone addette, disponendo a seconda dei casi,
tavole sopra le orditure, sottopalchi e l'uso di cinture di sicurezza.
Non
è quindi dubitabile, rispetto ad una ricostruzione fattuale della
vicenda qui non sindacabile, l'esatto richiamo alla normativa di
prevenzione de qua a fondamento della ritenuta colpa specifica; in una
vicenda in cui, del resto, a carico del datore di lavoro è stata
ravvisata anche la violazione delle comuni regole di prudenza e, quindi,
la colpa generica (con argomentare sintetico, ma all'evidenza in linea
con il disposto dell'art. 2087 c.c., in forza del quale il
datore di lavoro è costituito garante dell'incolumità fisica e della
salvaguardia della personalità morale del prestatore di lavoro, essendo
posto comunque a suo carico l'obbligo di adottare, secondo le regole
della comune prudenza, le misure che secondo la particolarità del
lavoro, l'esperienza e la tecnica sono necessarie a tutelare l'integrità
fisica e la personalità morale dei lavoratori).
Anche
il secondo motivo, relativo all'omessa motivazione in merito alla
richiesta rinnovazione della istruttoria dibattimentale, è infondato,
poichè non tiene conto delle caratteristiche della rinnovazione del
giudizio in appello.
In vero,
secondo assunto pacifico, poichè il giudizio d'appello, costituisce un
procedimento critico che ha per oggetto la sentenza impugnata, la
rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale è un istituto di carattere
eccezionale, rispetto all'abbandono del principio di oralità del secondo
grado, nel quale vale la presunzione che l'indagine istruttoria abbia
ormai raggiunto la sua completezza nel dibattimento svoltosi innanzi al
primo giudice. In una tale prospettiva, l'art. 603 c.p.p.,
comma 1, non riconosce carattere di obbligatorietà all'esercizio del
potere del giudice d'appello di disporre la rinnovazione del
dibattimento, anche quando è richiesta per assumere nuove prove, ma
vincola e subordina tale potere, nel suo concreto esercizio, alla
rigorosa condizione che il giudice ritenga, nella sua discrezionalità,
di non poter decidere allo stato degli atti. Con la conseguenza che, se è
vero che il diniego dell'eventualmente invocata rinnovazione
dell'istruzione dibattimentale deve essere spiegato nella sentenza di
secondo grado, la relativa motivazione (sulla quale nei limiti della
illogicità e della non congruità è esercitatale il controllo di
legittimità) può anche ricavarsi per implicito dal complessivo tessuto
argomentativo, qualora il giudice abbia dato comunque conto delle
ragioni in forza delle quali abbia ritenuto di potere decidere allo
stato degli atti (di recente, Cass., Sez. 4^, 28 ottobre 2005, Conti).
La
Corte di appello si è posta in linea con il principio sopra enunciato
ed ha in effetti logicamente ed implicitamente argomentato sul rigetto
della richiesta di rinnovazione dell'istruzione dibattimentale
richiamando i principi generali in tema di responsabilità del datore di
lavoro ex art. 2087 c.c., che imponevano al D.V. l'adozione delle necessarie cautele per tutelare la salute del lavoratore.
Infondato
è anche il terzo motivo che denuncia la mancanza e la illogicità della
motivazione con riferimento alla ricostruzione della dinamica del
sinistro, fondata essenzialmente sul comportamento D.V., che, nonostante
un contesto non solo generalmente pericoloso ma presentante una
specifica insidia, aveva omesso l'adozione delle necessarie cautele. Si
sostiene che il giudice di appello non avrebbe tenuto conto delle
argomentazioni difensive formulate alla luce delle risultanze
istruttorie (fotografie in atti e le dichiarazioni rese dalla stessa
parte offesa), che avevano escluso la sussistenza di una situazione di
pericolo e, più in generale, della inidoneità dei lucernari a sostenere
il peso di una o più persone.
In
realtà, dietro l'apparente deduzione di un vizio di legittimità, il
ricorrente vorrebbe che in questa sede si procedesse ad una rinnovata
valutazione degli elementi probatori posti a base del giudizio di
responsabilità.
Ciò che non è
consentito in sede di legittimità laddove non è possibile una rinnovata
valutazione dei fatti e degli elementi di prova.
E'
principio non controverso, infatti, che nel momento del controllo della
motivazione, la Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione
di merito proponga la migliore ricostruzione dei fatti, nè deve
condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se
questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i
limiti di una "plausibile opinabilità di apprezzamento". Ciò in quanto l'art. 606 c.p.p.,
comma 1, lettera e), non consente alla Corte di cassazione una diversa
lettura dei dati processuali o una diversa interpretazione delle prove,
perchè è estraneo al giudizio di legittimità il controllo sulla
correttezza della motivazione in rapporto ai dati processuali (Cass.,
Sezione 5^, 13 maggio 2003, Pagano ed altri). In altri termini, il
giudice di legittimità, che è giudice della motivazione e
dell'osservanza della legge, non può divenire giudice del contenuto
della prova, in particolare non competendogli un controllo sul
significato concreto di ciascun elemento di riscontro probatorio (Cass.,
Sezione 6^, 6 marzo 2003, Di Folco).
Ciò
premesso in termini generali, deve ritenersi che, proprio con riguardo
all'apparato argomentativo a supporto del ritenuto addebito di colpa, la
sentenza di merito appare congruamente motivata in relazione a tutti i
profili di interesse, con corretta applicazione dei principi in tema di
accertamento della colpa e di nesso di causalità.
La
Corte di appello, attraverso un'analitica disamina degli atti di causa,
ha ampiamente argomentato sui profili della ritenuta responsabilità
dell'imputato, corrispondendo del resto puntualmente rispetto alle
doglianze proposte con l'appello.
In
particolare, i giudici di appello, con motivazione logicamente
ineccepibile, hanno ricostruito la dinamica del sinistro, esaminando il
comportamento dell'imputato, anche alla luce delle deduzioni difensive,
che sono state disattese puntualmente con argomentazioni che hanno
tenuto conto degli esiti della istruttoria dibattimentale.
Sul
punto, è stato sottolineato che l'incidente si era verificato in un
contesto già genericamente pericoloso, quale quello del tetto ricurvo di
un capannone di tipo industriale con presenza di lucernari,
caratterizzato oltretutto da specifica insidia, costituita dal fatto che
le parti della complessiva copertura aventi funzione di lucernari non
presentavano, dal punto di vista strutturale, alcuna soluzione di
continuità rispetto alle altre parti, potendo anzi, sia per la
conformazione sia per il materiale impiegato( di una sfumatura di colore
diverso), essere confuse con le altre zone del tetto (almeno per
quanti, come l'infortunato, si fossero trovati al di sopra di esso).
Nessuna
incoerenza logica è ravvisatale in tale motivazione, con la quale la
Corte di merito ha altresì esaminato e fornito assorbentemente risposta
alle altre ipotesi formulate dalla difesa in merito alla ricostruzione
della dinamica del sinistro, tutte tese a prospettare la sussistenza di
un comportamento colposo del lavoratore (v. in particolare, l'asserita
e, peraltro, irrilevante, circostanza dedotta dal ricorrente al fine di
escludere la sussistenza del rapporto di causalità secondo la quale la
caduta del G. era avvenuta da un lucernaio distante circa dieci metri
dal luogo in cui doveva essere eseguito l'intervento di riparazione).
Infondata
è anche la quarta censura, volta a prospettare l'interruzione del nesso
causale basata sul comportamento imprudente della parte offesa (che
avrebbe inopinatamente assunto l'iniziativa di salire sul tetto passando
da una tettoia non inclinata, come da lui stesso ammesso) e sulla
asserita circostanza che la normale attività di riparazione non
presentava alcun elemento di rischio.
Il
ricorrente dimentica di considerare che, poichè le norme di prevenzione
antinfortunistica mirano a tutelare il lavoratore anche in ordine ad
incidenti che possano derivare da sua negligenza, imprudenza ed
imperizia, la responsabilità del datore di lavoro e, in generale, del
destinatario dell'obbligo di adottare le misure di prevenzione può
essere esclusa, per causa sopravvenuta, solo in presenza di un
comportamento del lavoratore che presenti i caratteri
dell'eccezionalità, dell'abnormità, dell'esorbitanza rispetto al
procedimento lavorativo ed alle precise direttive organizzative
ricevute, che sia del tutto imprevedibile o inopinabile. Peraltro, in
ogni caso, nell'ipotesi di infortunio sul lavoro originato dall'assenza o
inidoneità delle misure di prevenzione, nessuna efficacia causale, per
escludere la responsabilità del datore di lavoro, può essere attribuita
al comportamento del lavoratore infortunato, che abbia dato occasione
all'evento, quando questo sia da ricondurre, comunque, alla mancanza o
insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a
neutralizzare proprio il rischio di siffatto comportamento (Cass., Sez.
4^, 16 novembre 2006, Perin).
Partendo
da queste premesse indiscutibili in diritto e tenendo altresì conto che
la dinamica del sinistro è stata chiarita dalle dichiarazioni rese dal
solo lavoratore, in quanto il D.V. non ha ritenuto di rendere
dichiarazioni spontanee, deve ritenersi corretta la decisione del
giudice di merito che, con ricostruzione dei fatti e analisi
convincente, ha escluso che la condotta dell'operaio avesse integrato
alcunchè di esorbitante o di imprevedibile, tale da poter rilevare ai
fini dell'interruzione del nesso causale, avendo ravvisato questo,
sempre con argomentazioni qui incensurabili e giuridicamente corrette,
nelle inosservanze colpose ascritte all'imputato (in particolare, di non
essersi preoccupato assolutamente della sicurezza ed incolumità fisica
dell'operaio, omettendo di predisporre, ai fini del lavoro da eseguire,
alcuna opera provvisionale e venendo meno all'obbligo di informazione
nei confronti del dipendente sulla specifica pericolosità del luogo di
lavoro).
La decisione dei
giudici di merito è peraltro in linea con la giurisprudenza di questa
Corte in materia di responsabilità colposa del datore di lavoro.
In
proposito è stato condivisibilmente ritenuto (v. Sez. 4^, la già citata
sentenza Perin ed i riferimenti in essa contenuti) che, in materia di
infortuni sul lavoro, il D.Lgs n. 626 del 1994, se da un lato prevede
anche un obbligo di diligenza del lavoratore, configurando addirittura
una previsione sanzionatoria a suo carico, non esime il datore di
lavoro, e le altre figura ivi istituzionalizzate, e, in mancanza, il
soggetto preposto alla responsabilità ed al controllo della fase
lavorativa specifica, del debito di sicurezza nei confronti dei
subordinati. Questo consiste, oltre che in un dovere generico di
formazione ed informazione, anche in forme di controllo idonee a
prevenire i rischi della lavorazione che tali soggetti, in quanto più
esperti e tecnicamente competenti e capaci, debbono adoperare al fine di
prevenire i rischi, ponendo in essere la necessaria diligenza, perizia e
prudenza, anche in considerazione della disposizione generale di cui all'art. 2087 c.c.,
norma di "chiusura del sistema", da ritenersi operante nella parte in
cui non è espressamente derogata da specifiche norme di prevenzione
degli infortuni sul lavoro.
Come
è noto, in forza della disposizione generale di cui all'art. 2087 c.c. e
di quelle specifiche previste dalla normativa antinfortunistica, il
datore di lavoro è costituito garante dell'incolumità fisica e della
salvaguardia della personalità morale dei prestatori di lavoro, con
l'ovvia conseguenza che, ove egli non ottemperi agli obblighi di tutela,
l'evento lesivo correttamente gli viene imputato in forza del
meccanismo reattivo previsto dall'art. 40 c.p., comma 2.
Ne
consegue che il datore di lavoro, ha il dovere di accertarsi del
rispetto dei presidi antinfortunistici e del fatto che il lavoratore
possa prestare la propria opera in condizioni di sicurezza, vigilando
altresì a che le condizioni di sicurezza siano mantenute per tutto il
tempo in cui è prestata l'opera (v. Sez. 4^, 4 luglio 2006, Civelli).
In
altri termini, il datore di lavoro deve sempre attivarsi positivamente
per organizzare le attività lavorative in modo sicuro, assicurando anche
l'adozione da parte dei dipendenti delle doverose misure tecniche ed
organizzative per ridurre al minimo i rischi connessi all'attività
lavorativa: tale obbligo dovendolo ricondurre, oltre che alle
disposizioni specifiche, proprio, più generalmente, al disposto dell'art. 2087 c.c.,
in forza del quale il datore di lavoro è comunque costituito garante
dell'incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale dei
prestatori di lavoro, con l'ovvia conseguenza che, ove egli non
ottemperi all'obbligo di tutela, l'evento lesivo correttamente gli viene
imputato in forza del meccanismo previsto dall'articolo 40 c.p., comma 2, (v., oltre la sentenza citata, anche Cass., Sez. 4^, 12 gennaio 2005, Cuccù).
Tale
obbligo comportamentale, che è conseguenza immediata e diretta della
"posizione di garanzia" che il datore di lavoro assume nei confronti del
lavoratore, in relazione all'obbligo di garantire condizioni di lavoro
quanto più possibili sicure, è di tale spessore che non potrebbe neppure
escludersi una responsabilità colposa del datore di lavoro allorquando
questi tali condizioni non abbia assicurato, pur formalmente rispettando
le norme tecniche, eventualmente dettate in materia al competente
organo amministrativo, in quanto, al di là dell'obbligo di rispettare le
suddette prescrizioni specificamente volte a prevenire situazioni di
pericolo o di danno, sussiste pur sempre quello di agire in ogni caso
con la diligenza, la prudenza e l'accortezza necessarie ad evitare che
dalla propria attività derivi un nocumento a terzi (cfr. Cass., Sez. 4^,
12 dicembre 2000, Bulferetti).
Non è pertanto dubitale che l'incidente sia riconducibile al comportamento colposo del D.V..
Il ricorso, pertanto, va rigettato, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 29 gennaio 2007.
Depositato in Cancelleria il 24 aprile 2007
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