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Mobbing nella Pa, i criteri per individuare la giurisdizione competente |
Controversie al giudice ordinario se la persecuzione è solo "fisicamente" nell'ambiente di lavoro, a quello amministrativo quando la vessazione si concretizza in demansionamenti o emanazione di provvedimenti illegittimi |
(Tar Lazio, sezione prima quater, sentenza n. 3315/07; depositata il 17 aprile) |
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ha pronunciato la seguente
e nei confronti
della dott.ssa L. Zainaghi, direttrice della Casa Circondariale femminile di Rebibbia, nonché del sig. M. Sambuca, in qualità di comandante di reparto
non costituiti in giudizio;
per l’annullamento
degli atti dei procedimenti disciplinari, già oggetto di ricorso gerarchico, nonché di atti non meglio specificati, concernenti le classifiche della dipendente in questione;
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio dell'Avv.ra Gen.le dello Stato;
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
Visti gli atti tutti della causa;
Relatore, alla pubblica udienza del 14 luglio 2006, il Consigliere G. De Michele e uditi, altresì, gli Avvocati delle parti, come da verbale di udienza in data odierna;
Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:
L’Amministrazione intimata, costituitasi in giudizio, resiste formalmente all’accoglimento dell’impugnativa.
In rapporto al contesto delle domande proposte in giudizio, il Collegio deve rilevare d’ufficio, in via preliminare, che la domanda di annullamento, contenuta nell’impugnativa nei termini sopra sintetizzati, risulta irricevibile oltre che inammissibile per genericità.
Sembra appena il caso di ricordare, infatti, che il giudizio amministrativo, avviato per la declaratoria di illegittimità di atti autoritativi e per il relativo annullamento, deve essere avviato con notifica del ricorso entro 60 giorni dalla comunicazione, o comunque dalla piena conoscenza del provvedimento, da parte del soggetto che si ritiene leso, con formalizzazione di censure che circoscrivano l’ambito della cognizione processuale, non potendo il Giudice Amministrativo, in sede di giudizio di legittimità, procedere ad accertamento “ultra petita” dei vizi dell’atto impugnato.
Nel caso di specie, non solo i provvedimenti contestati vengono indicati in modo confuso e generico, senza chiara esplicitazione dell’ordine di censure censure a ciascuno di essi riconducibile, ma risultano investiti delle pur generiche contestazioni provvedimenti (di natura disciplinare, o relativi all’assegnazione delle classifiche annuali) risalenti ad un periodo compreso fra gli anni 2000 e 2004, molto al di là di qualsiasi possibilità di impugnazione, entro i termini decadenziali di cui all’art. 21 L. n. 1034/71.
Più delicata – e relativamente nuova – appare invece la problematica riconducibile al cosiddetto “mobbing”, in ordine al quale si pone, innanzi tutto, un problema di giurisdizione, che il Collegio ritiene di poter superare solo in parte positivamente, in primo luogo per l’inapplicabilità dei criteri conseguenti alla privatizzazione del rapporto di pubblico impiego, essendo il personale del Corpo degli Agenti di Custodia (oggi Polizia Penitenziaria) compreso fra i settori lavorativi non privatizzati, a norma dell’art. 2, comma 4 del D.Lgs. 3.2.1993, n. 29 (cfr. anche, sul punto, TAR Marche, Ancona, 29.12.2003, n. 1930), mentre, sotto altro profilo, deve rilevarsi che – per il personale in questione – il più recente indirizzo della Corte di Cassazione a Sezioni Unite lascia sussistere quel “doppio binario” di giurisdizione, che il legislatore sembrava intenzionato a rimuovere, almeno fino alla nota pronuncia della Corte Costituzionale n. 204 del 6.7.2004.
Il dipendente può rivendicare, infatti, il risarcimento del danno derivante da mobbing in due modi: in via extra-contrattuale, a norma dell’art. 2043 cod. civ., ovvero in via contrattuale, tenuto conto dell’obbligo del datore di lavoro, riconducibile all’art. 2087 cod. civ., di tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro (cfr. in tal senso, fra le tante, Cass. SS.UU. 28.7.1998, n. 7394).
Un primo orientamento della giurisprudenza, in ogni caso (cfr. Cons. St., sez. V, 9.10.2002, n. 5414; TAR Lazio, Roma, sez. III, 25.6.2004, n. 6254; TAR Veneto, 8.1.2004, n. 2), tendeva a ricondurre alla giurisdizione amministrativa esclusiva tutte le controversie patrimoniali inerenti al rapporto di impiego, senza distinguere fra responsabilità contrattuale e aquiliana, essendo sufficiente per radicare la cognizione del giudice amministrativo – per i rapporti di lavoro rientranti nella giurisdizione del medesimo – un comportamento illegittimo del datore di lavoro e quindi un collegamento non occasionale fra la causa pretendi e il rapporto di impiego.
Non risulta conforme al predetto indirizzo, tuttavia, il più recente orientamento della Corte di Cassazione a Sezioni Unite, che pone a base del riparto di cui trattasi non la prospettazione delle parti, ma il cosiddetto petitum sostanziale, da individuare anche in funzione della causa pretendi, ovvero dell’intrinseca natura della posizione soggettiva dedotta in giudizio, come individuata dal Giudice in relazione ai fatti allegati ed al rapporto giuridico di cui tali fatti sono manifestazione; tenuto conto di quanto sopra, risulta necessario accertare la natura giuridica dell’azione di responsabilità in concreto proposta, in quanto solo l’azione per responsabilità contrattuale è ritenuta rientrante nella cognizione del Giudice Amministrativo, mentre deve ritenersi di competenza del Giudice Ordinario l’azione proposta in via extra-contrattuale (Cass. SS.UU. 4.5.2004, n. 8438).
Il predetto indirizzo, in effetti, appare più conforme alle linee-guida, che emergono dalla già citata sentenza della Corte Costituzionale n. 204/2004, in quanto la responsabilità extra-contrattuale per mobbing è riconducibile, sostanzialmente, a comportamenti vessatori dei superiori gerarchici o dei colleghi di lavoro del dipendente interessato, al di là quindi dei limiti, che la Suprema Corte ha indicato quali parametri di rango costituzionale per la giurisdizione del Giudice Amministrativo, da considerarsi sempre riferita ad atti e non a comportamenti (fatta salva, deve ritenersi, la valutazione in via incidentale di questi ultimi, trattandosi di valutazione indispensabile, in particolare, nel giudizio risarcitorio).
Nel caso di specie, esula pertanto dalla giurisdizione di questo Tribunale la domanda risarcitoria, direttamente ricondotta a quello che, nel ricorso, viene definito “il comportamento illegittimo e dispotico della sig.ra L. Zainaghi e del sig. M. Mambuca”, comportamento che si sarebbe estrinsecato in abuso ed uso strumentale del potere disciplinare, nonché in “boicottaggi, umiliazioni ed ingiustificati giudizi nelle progressioni di carriera, osservazioni e provocazioni quotidiane, atti e comportamenti di violenza privata, diniego di permessi” ed altri atti vessatori.
La medesima ricorrente, tuttavia, sottopone a giudizio non solo la tipica ipotesi di mobbing, riconducibile a conflitti caratteriali, che inducono alcuni soggetti a danneggiare in modo sistematico un lavoratore nel suo ambiente di lavoro (ipotesi che, si ripete, vede sussistere la giurisdizione del Giudice Ordinario), ma anche l’altra tipologia, pure riconducibile a mobbing, che si traduce in demansionamento, o comunque in emanazione di atti illegittimi, con violazione di specifici obblighi contrattuali derivanti dal rapporto di impiego (ipotesi, quest’ultima, in cui la responsabilità, anche per danno alla salute del dipendente, è di tipo contrattuale e rientra nella giurisdizione del Giudice Amministrativo, per i settori lavorativi per cui tale giurisdizione ancora sussista).
Nella situazione in esame, dunque, il Collegio ha giurisdizione per valutare l’eventuale danno biologico, derivante da mobbing, nella misura strettamente riconducibile ad un contesto di specifiche inadempienze agli obblighi del datore di lavoro, inadempienze che, nella situazione in esame, si affermano concretizzate in demansionamento, procedure disciplinari arbitrarie e incongrue valutazioni annuali, ovvero in una serie di atti illegittimi, che globalmente considerati potrebbero configurare violazione del già citato articolo 2087 del codice civile. Sotto tale ultimo profilo, in effetti, il più recente indirizzo della Corte di Cassazione a Sezioni Unite (Cass. SS.UU. ordinanze nn. 13660 del 13.6.2006 e 13911 del 16.6.2006) consente di superare il precedente orientamento giurisprudenziale (Cons. St., Ad. Plen. 26.3.2003, n. 4), secondo cui l’azione risarcitoria, proposta davanti al Giudice Amministrativo per lesione di interessi legittimi è ammissibile – dopo lo storico pronunciamento della Corte di Cassazione a SS.UU. con sentenza n. 500/99 – ma dovrebbe essere preceduta, entro gli ordinari termini decadenziali, da tempestiva impugnazione degli atti ritenuti affetti da vizi di legittimità.
A seguito, invece, dell’orientamento di cui alle citate ordinanze della Suprema Corte è ormai possibile proporre azione risarcitoria, per lesione di interessi legittimi, entro gli ordinari termini di prescrizione quinquennale, anche senza previa impugnazione dell’atto lesivo: un orientamento, quello appena indicato, di particolare rilievo proprio in situazioni – riconducibili a mobbing – normalmente connesse a vizi che interessano non un singolo provvedimento, ma una serie di atti, la cui illegittimità, complessivamente considerata, riveli intenti persecutori e sia fonte di danno per la salute del dipendente.
Quanto alla tipologia di vizi, rilevanti nell’ottica in esame, appare corretto riferirsi all’indirizzo già consolidato, in materia di risarcimento per lesione di interessi legittimi: indirizzo, in base al quale possono essere fatti valere solo i vizi di legittimità, riconducibili alla peculiare dimensione di colpevolezza, che la ricordata sentenza n. 500/99 della Cassazione e la successiva giurisprudenza amministrativa (cfr., fra le tante, TAR Sicilia, Catania, 12.2.2000, n. 103; TAR Puglia, Bari, 17.1.2000, n. 169; TAR Lazio, Roma, sez. II bis, 2.8.02, n. 6902) riferiscono in via esclusiva a violazione dei principi di buona amministrazione, in termini non coincidenti con quelli di cui all’art. 2043 Cod.civ. (da ritenere recettivo del concetto di colpa anche come mera “inosservanza di leggi, regolamenti, ordini e discipline”, ex art. 43, c. 3, cod. pen.; cfr. anche, per il principio, Cons. St., sez. V, 6.8.2001, n. 4239).
Anche per l’individuazione del danno biologico da mobbing, nei limiti in cui il medesimo rientra nella giurisdizione del Giudice Amministrativo, deve pertanto ricercarsi quella inosservanza delle regole di “imparzialità, correttezza e buona amministrazione”, che si traduce in violazione delle regole del giusto procedimento (come codificato, in particolare, dalla legge n. 241/1990). Detta violazione può ravvisarsi in comportamenti omissivi, contraddittori o dilatori dell’Amministrazione, ovvero in violazione di norme, sulle quali non sussistano incertezze interpretative o la cui interpretazione sia ormai pacifica, o ancora (nella fattispecie specifica del mobbing), nella reiterazione di atti affetti anche da illegittimità formali, ma che nel loro insieme denotino grave alterazione del rapporto sinallagmatico, tale da determinare un danno alla salute del dipendente.
Nella fattispecie, tuttavia, la domanda risarcitoria proposta dall’attuale ricorrente risulta, ad avviso del Collegio, inammissibile.
Il danno derivante da mobbing infatti, nei limiti in cui può considerarsi rimesso alla cognizione di questo Tribunale, non è sottratto alle regole del processo amministrativo, che richiedono – se non più, sotto il profilo in esame, tempestiva impugnazione dei singoli atti – quanto meno chiara individuazione dei provvedimenti lesivi, enunciazione dei vizi che determinerebbero l’illegittimità di ciascuno di essi e principio di prova, in ordine al danno morale e biologico del soggetto leso.
Nella vicenda sottoposta a giudizio, la difesa della ricorrente segnala vicende personali senz’altro drammatiche e dolorose, che avrebbero dovuto assicurare al soggetto coinvolto comprensione e sostegno anche nell’ambiente di lavoro; non si dà alcun riscontro, tuttavia, di un danno psicofisico, direttamente connesso ad atti di gestione illegittimi del rapporto sinallagmatico in corso e, soprattutto, non si fornisce né una chiara elencazione di tali atti, né una prospettazione di motivi di gravame, specificamente rilevanti nell’ambito del processo amministrativo.
In tale situazione, risulta impossibile al Collegio valutare i profili di responsabilità contrattuale, che vengono enunciati in termini sommari ed apodittici, tali da determinare l’inammissibilità della domanda, nella parte in cui la stessa può essere valutata da questo Tribunale; quanto alle spese giudiziali, tuttavia, il Collegio stesso ne ritiene equa la compensazione, in considerazione del peculiare carattere della vicenda in questione.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, nelle Camere di Consiglio in data 14 luglio e 29 settembre 2006 con l'intervento dei Magistrati:
Presidente Pio Guerrieri
Consigliere est. Gabriella De Michele
Consigliere Giancarlo Luttazi
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo regionale per il Lazio
Sez.I Quater
| N. Reg
Anno
N. Reg
Anno
|
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul
ricorso n. 5257/2005, proposto dalla signora ...OMISSISVLD...
...OMISSISVLD..., rappresentata e difesa dall’Avv. P. Chiarelli ed
elettivamente domiciliata presso lo stesso in Roma, via Carlo Sereni,
15;
contro
IL
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA – DIPARTIMENTO DELL’AMMINISTRAZIONE
PENITENZIARIA, costituitosi in giudizio, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege presso la
sede di Roma, via dei Portoghesi, 12;e nei confronti
della dott.ssa L. Zainaghi, direttrice della Casa Circondariale femminile di Rebibbia, nonché del sig. M. Sambuca, in qualità di comandante di reparto
non costituiti in giudizio;
per l’annullamento
degli atti dei procedimenti disciplinari, già oggetto di ricorso gerarchico, nonché di atti non meglio specificati, concernenti le classifiche della dipendente in questione;
e per il risarcimento
dei
danni riconducibili al comportamento vessatorio dei signori L. Zainaghi
e M Sambuca, cui il ricorso è stato notificato quali soggetti
controinteressati;Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio dell'Avv.ra Gen.le dello Stato;
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
Visti gli atti tutti della causa;
Relatore, alla pubblica udienza del 14 luglio 2006, il Consigliere G. De Michele e uditi, altresì, gli Avvocati delle parti, come da verbale di udienza in data odierna;
Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:
FATTO E DIRITTO
Attraverso
il ricorso in esame, notificato il 26.5.2005, la signora
...OMISSISVLD... ...OMISSISVLD... – Agente scelto del corpo di Polizia
Penitenziaria, alla data degli atti prodotti in giudizio – chiede il
risarcimento dei danni subiti per cosiddetto “mobbing”,
ovvero per il “comportamento illegittimo e dispotico della sig.ra L.
Zainaghi e del sig. M. Sambuca in vece di direttrice e comandante della
Casa Circondariale Rebibbia femminile, all’epoca dei fatti superiori
gerarchici” della ricorrente; nella medesima impugnativa è contenuta,
inoltre, una domanda di annullamento di non chiara definizione,
esplicitata solo nelle conclusioni del ricorso come richiesta di
“annullare totalmente il menzionato atto”, mentre nella parte espositiva
dei fatti di causa si afferma di voler impugnare “i procedimenti
disciplinari”, già oggetto di “memorie difensive” e di “regolare ricorso
gerarchico”; altre doglianze sembrano investire, inoltre, le
classifiche riportate dalla ricorrente negli anni 2000 e 2001, nonché un
non meglio precisato “demansionamento”.L’Amministrazione intimata, costituitasi in giudizio, resiste formalmente all’accoglimento dell’impugnativa.
In rapporto al contesto delle domande proposte in giudizio, il Collegio deve rilevare d’ufficio, in via preliminare, che la domanda di annullamento, contenuta nell’impugnativa nei termini sopra sintetizzati, risulta irricevibile oltre che inammissibile per genericità.
Sembra appena il caso di ricordare, infatti, che il giudizio amministrativo, avviato per la declaratoria di illegittimità di atti autoritativi e per il relativo annullamento, deve essere avviato con notifica del ricorso entro 60 giorni dalla comunicazione, o comunque dalla piena conoscenza del provvedimento, da parte del soggetto che si ritiene leso, con formalizzazione di censure che circoscrivano l’ambito della cognizione processuale, non potendo il Giudice Amministrativo, in sede di giudizio di legittimità, procedere ad accertamento “ultra petita” dei vizi dell’atto impugnato.
Nel caso di specie, non solo i provvedimenti contestati vengono indicati in modo confuso e generico, senza chiara esplicitazione dell’ordine di censure censure a ciascuno di essi riconducibile, ma risultano investiti delle pur generiche contestazioni provvedimenti (di natura disciplinare, o relativi all’assegnazione delle classifiche annuali) risalenti ad un periodo compreso fra gli anni 2000 e 2004, molto al di là di qualsiasi possibilità di impugnazione, entro i termini decadenziali di cui all’art. 21 L. n. 1034/71.
Più delicata – e relativamente nuova – appare invece la problematica riconducibile al cosiddetto “mobbing”, in ordine al quale si pone, innanzi tutto, un problema di giurisdizione, che il Collegio ritiene di poter superare solo in parte positivamente, in primo luogo per l’inapplicabilità dei criteri conseguenti alla privatizzazione del rapporto di pubblico impiego, essendo il personale del Corpo degli Agenti di Custodia (oggi Polizia Penitenziaria) compreso fra i settori lavorativi non privatizzati, a norma dell’art. 2, comma 4 del D.Lgs. 3.2.1993, n. 29 (cfr. anche, sul punto, TAR Marche, Ancona, 29.12.2003, n. 1930), mentre, sotto altro profilo, deve rilevarsi che – per il personale in questione – il più recente indirizzo della Corte di Cassazione a Sezioni Unite lascia sussistere quel “doppio binario” di giurisdizione, che il legislatore sembrava intenzionato a rimuovere, almeno fino alla nota pronuncia della Corte Costituzionale n. 204 del 6.7.2004.
Il dipendente può rivendicare, infatti, il risarcimento del danno derivante da mobbing in due modi: in via extra-contrattuale, a norma dell’art. 2043 cod. civ., ovvero in via contrattuale, tenuto conto dell’obbligo del datore di lavoro, riconducibile all’art. 2087 cod. civ., di tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro (cfr. in tal senso, fra le tante, Cass. SS.UU. 28.7.1998, n. 7394).
Un primo orientamento della giurisprudenza, in ogni caso (cfr. Cons. St., sez. V, 9.10.2002, n. 5414; TAR Lazio, Roma, sez. III, 25.6.2004, n. 6254; TAR Veneto, 8.1.2004, n. 2), tendeva a ricondurre alla giurisdizione amministrativa esclusiva tutte le controversie patrimoniali inerenti al rapporto di impiego, senza distinguere fra responsabilità contrattuale e aquiliana, essendo sufficiente per radicare la cognizione del giudice amministrativo – per i rapporti di lavoro rientranti nella giurisdizione del medesimo – un comportamento illegittimo del datore di lavoro e quindi un collegamento non occasionale fra la causa pretendi e il rapporto di impiego.
Non risulta conforme al predetto indirizzo, tuttavia, il più recente orientamento della Corte di Cassazione a Sezioni Unite, che pone a base del riparto di cui trattasi non la prospettazione delle parti, ma il cosiddetto petitum sostanziale, da individuare anche in funzione della causa pretendi, ovvero dell’intrinseca natura della posizione soggettiva dedotta in giudizio, come individuata dal Giudice in relazione ai fatti allegati ed al rapporto giuridico di cui tali fatti sono manifestazione; tenuto conto di quanto sopra, risulta necessario accertare la natura giuridica dell’azione di responsabilità in concreto proposta, in quanto solo l’azione per responsabilità contrattuale è ritenuta rientrante nella cognizione del Giudice Amministrativo, mentre deve ritenersi di competenza del Giudice Ordinario l’azione proposta in via extra-contrattuale (Cass. SS.UU. 4.5.2004, n. 8438).
Il predetto indirizzo, in effetti, appare più conforme alle linee-guida, che emergono dalla già citata sentenza della Corte Costituzionale n. 204/2004, in quanto la responsabilità extra-contrattuale per mobbing è riconducibile, sostanzialmente, a comportamenti vessatori dei superiori gerarchici o dei colleghi di lavoro del dipendente interessato, al di là quindi dei limiti, che la Suprema Corte ha indicato quali parametri di rango costituzionale per la giurisdizione del Giudice Amministrativo, da considerarsi sempre riferita ad atti e non a comportamenti (fatta salva, deve ritenersi, la valutazione in via incidentale di questi ultimi, trattandosi di valutazione indispensabile, in particolare, nel giudizio risarcitorio).
Nel caso di specie, esula pertanto dalla giurisdizione di questo Tribunale la domanda risarcitoria, direttamente ricondotta a quello che, nel ricorso, viene definito “il comportamento illegittimo e dispotico della sig.ra L. Zainaghi e del sig. M. Mambuca”, comportamento che si sarebbe estrinsecato in abuso ed uso strumentale del potere disciplinare, nonché in “boicottaggi, umiliazioni ed ingiustificati giudizi nelle progressioni di carriera, osservazioni e provocazioni quotidiane, atti e comportamenti di violenza privata, diniego di permessi” ed altri atti vessatori.
La medesima ricorrente, tuttavia, sottopone a giudizio non solo la tipica ipotesi di mobbing, riconducibile a conflitti caratteriali, che inducono alcuni soggetti a danneggiare in modo sistematico un lavoratore nel suo ambiente di lavoro (ipotesi che, si ripete, vede sussistere la giurisdizione del Giudice Ordinario), ma anche l’altra tipologia, pure riconducibile a mobbing, che si traduce in demansionamento, o comunque in emanazione di atti illegittimi, con violazione di specifici obblighi contrattuali derivanti dal rapporto di impiego (ipotesi, quest’ultima, in cui la responsabilità, anche per danno alla salute del dipendente, è di tipo contrattuale e rientra nella giurisdizione del Giudice Amministrativo, per i settori lavorativi per cui tale giurisdizione ancora sussista).
Nella situazione in esame, dunque, il Collegio ha giurisdizione per valutare l’eventuale danno biologico, derivante da mobbing, nella misura strettamente riconducibile ad un contesto di specifiche inadempienze agli obblighi del datore di lavoro, inadempienze che, nella situazione in esame, si affermano concretizzate in demansionamento, procedure disciplinari arbitrarie e incongrue valutazioni annuali, ovvero in una serie di atti illegittimi, che globalmente considerati potrebbero configurare violazione del già citato articolo 2087 del codice civile. Sotto tale ultimo profilo, in effetti, il più recente indirizzo della Corte di Cassazione a Sezioni Unite (Cass. SS.UU. ordinanze nn. 13660 del 13.6.2006 e 13911 del 16.6.2006) consente di superare il precedente orientamento giurisprudenziale (Cons. St., Ad. Plen. 26.3.2003, n. 4), secondo cui l’azione risarcitoria, proposta davanti al Giudice Amministrativo per lesione di interessi legittimi è ammissibile – dopo lo storico pronunciamento della Corte di Cassazione a SS.UU. con sentenza n. 500/99 – ma dovrebbe essere preceduta, entro gli ordinari termini decadenziali, da tempestiva impugnazione degli atti ritenuti affetti da vizi di legittimità.
A seguito, invece, dell’orientamento di cui alle citate ordinanze della Suprema Corte è ormai possibile proporre azione risarcitoria, per lesione di interessi legittimi, entro gli ordinari termini di prescrizione quinquennale, anche senza previa impugnazione dell’atto lesivo: un orientamento, quello appena indicato, di particolare rilievo proprio in situazioni – riconducibili a mobbing – normalmente connesse a vizi che interessano non un singolo provvedimento, ma una serie di atti, la cui illegittimità, complessivamente considerata, riveli intenti persecutori e sia fonte di danno per la salute del dipendente.
Quanto alla tipologia di vizi, rilevanti nell’ottica in esame, appare corretto riferirsi all’indirizzo già consolidato, in materia di risarcimento per lesione di interessi legittimi: indirizzo, in base al quale possono essere fatti valere solo i vizi di legittimità, riconducibili alla peculiare dimensione di colpevolezza, che la ricordata sentenza n. 500/99 della Cassazione e la successiva giurisprudenza amministrativa (cfr., fra le tante, TAR Sicilia, Catania, 12.2.2000, n. 103; TAR Puglia, Bari, 17.1.2000, n. 169; TAR Lazio, Roma, sez. II bis, 2.8.02, n. 6902) riferiscono in via esclusiva a violazione dei principi di buona amministrazione, in termini non coincidenti con quelli di cui all’art. 2043 Cod.civ. (da ritenere recettivo del concetto di colpa anche come mera “inosservanza di leggi, regolamenti, ordini e discipline”, ex art. 43, c. 3, cod. pen.; cfr. anche, per il principio, Cons. St., sez. V, 6.8.2001, n. 4239).
Anche per l’individuazione del danno biologico da mobbing, nei limiti in cui il medesimo rientra nella giurisdizione del Giudice Amministrativo, deve pertanto ricercarsi quella inosservanza delle regole di “imparzialità, correttezza e buona amministrazione”, che si traduce in violazione delle regole del giusto procedimento (come codificato, in particolare, dalla legge n. 241/1990). Detta violazione può ravvisarsi in comportamenti omissivi, contraddittori o dilatori dell’Amministrazione, ovvero in violazione di norme, sulle quali non sussistano incertezze interpretative o la cui interpretazione sia ormai pacifica, o ancora (nella fattispecie specifica del mobbing), nella reiterazione di atti affetti anche da illegittimità formali, ma che nel loro insieme denotino grave alterazione del rapporto sinallagmatico, tale da determinare un danno alla salute del dipendente.
Nella fattispecie, tuttavia, la domanda risarcitoria proposta dall’attuale ricorrente risulta, ad avviso del Collegio, inammissibile.
Il danno derivante da mobbing infatti, nei limiti in cui può considerarsi rimesso alla cognizione di questo Tribunale, non è sottratto alle regole del processo amministrativo, che richiedono – se non più, sotto il profilo in esame, tempestiva impugnazione dei singoli atti – quanto meno chiara individuazione dei provvedimenti lesivi, enunciazione dei vizi che determinerebbero l’illegittimità di ciascuno di essi e principio di prova, in ordine al danno morale e biologico del soggetto leso.
Nella vicenda sottoposta a giudizio, la difesa della ricorrente segnala vicende personali senz’altro drammatiche e dolorose, che avrebbero dovuto assicurare al soggetto coinvolto comprensione e sostegno anche nell’ambiente di lavoro; non si dà alcun riscontro, tuttavia, di un danno psicofisico, direttamente connesso ad atti di gestione illegittimi del rapporto sinallagmatico in corso e, soprattutto, non si fornisce né una chiara elencazione di tali atti, né una prospettazione di motivi di gravame, specificamente rilevanti nell’ambito del processo amministrativo.
In tale situazione, risulta impossibile al Collegio valutare i profili di responsabilità contrattuale, che vengono enunciati in termini sommari ed apodittici, tali da determinare l’inammissibilità della domanda, nella parte in cui la stessa può essere valutata da questo Tribunale; quanto alle spese giudiziali, tuttavia, il Collegio stesso ne ritiene equa la compensazione, in considerazione del peculiare carattere della vicenda in questione.
P.Q.M.
Il
Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, (Sez. I Quater)
DICHIARA il proprio parziale DIFETTO DI GIURISDIZIONE in ordine al
ricorso n. 5257/05, specificato in epigrafe, per quanto riguarda
l’istanza risarcitoria avanzata in via extra-contrattuale; DICHIARA il
ricorso stesso, per quanto riguarda le altre domande proposte, in parte
IRRICEVIBILE ed in parte INAMMISSIBILE, nei termini di cui in
motivazione; COMPENSA le spese giudiziali.Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, nelle Camere di Consiglio in data 14 luglio e 29 settembre 2006 con l'intervento dei Magistrati:
Presidente Pio Guerrieri
Consigliere est. Gabriella De Michele
Consigliere Giancarlo Luttazi
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