Translate

mercoledì 22 maggio 2013

Cassazione: Risponde di maltrattamenti chi manda un minore a mendicare


Nuova pagina 1

Risponde di maltrattamenti chi manda un minore a mendicare
Stessa
conclusione anche se invece che all'accattonaggio si costringe alla
vendita di oggetti ai semafori o situazioni analoghe. Irrilevanti,
dicono i giudici (il caso riguardava un piccolo extracomunitario), la
cultura d'origine dei soggetti
Cass. pen. Sez. VI, (ud. 09-11-2006) 30-
01-2007, n. 3419
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
Composta dagli Ill.mi
Sigg.ri Magistrati:
Dott. DE ROBERTO Giovanni - Presidente
Dott. DI
VIRGINIO Adolfo - Consigliere
Dott. MILO Nicola - Consigliere
Dott.
CONTI Giovanni - Consigliere
Dott. DI CASOLA Carlo - Consigliere
ha
pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
...OMISSISVLD..., nato
il (OMISSIS);
avverso la sentenza 20/6/2005 della Corte d'Appello di
Torino;
Visti gli atti, la sentenza denunziata e il ricorso;
Udita in
pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere Dr. Nicola Milo;
Udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dr. Viglietta G., che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito il difensore avv. non è comparso.
Fatto - Diritto P.Q.M.
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
La Corte d'Appello di
Torino, con sentenza 20/6/2005, confermava quella in data 25/1/2001 del
Gup del Tribunale della stessa città, che, all'esito del giudizio
abbreviato, aveva dichiarato B.B. B. colpevole del delitto di cui
all'art. 572 c.p. e, in concorso delle circostanze attenuanti
generiche, lo aveva condannato alla pena, condizionalmente sospesa, di
mesi cinque e giorni dieci di reclusione.
L'addebito specifico mosso
all'imputato è di avere maltrattato, nel periodo dicembre 1999 - aprile
2000, il minore infraquattordicenne E.Q.Y. (nipote), con lui convivente
e affidato alle sue cure, consentendo che lo stesso rimasse
abitualmente in giro per l'intera giornata a vendere piccoli oggetti
per le strade di Torino, disinteressandosi della condizione di
sofferenza in cui il minore versava (malnutrizione, esposizione ai
rigori invernali con abbigliamento inadeguato, stato di isolamento,
mancata frequentazione della scuola) e appropriandosi del ricavato del
commercio ambulante da costui praticato.
La Corte territoriale, sulla
base di quanto accertato dalla Polizia municipale, che aveva seguito
per diversi giorni le abitudini di vita del minore e ne aveva
constatato la condizione di degrado fisico e psichico in cui lo stesso
versava, nonchè sulla base della relazione di servizio 19/4/2000 del
mediatore culturale S., che aveva raccolto lo sfogo del minore sul
profondo disagio avvertito per l'intollerabile regime di vita
impostogli, riteneva integrati gli estremi del delitto di
maltrattamenti sia sotto il profilo oggettivo che sotto quello
soggettivo, sottolineando, in particolare, che l'imputato era venuto
meno ai suoi obblighi di cura e di vigilanza del minore a lui affidato
e non si era - anzi - fatto scrupolo di trarre un utile economico
dall'attività di commercio ambulante e di accattonaggio praticata
sistematicamente dal minore stesso.
Ha proposto ricorso per Cassazione,
tramite il proprio difensore, l'imputato, deducendo l'erronea
applicazione della legge penale e il vizio di motivazione sotto vari
profili: non si era provato il danno, quale evento imprescindibile del
reato di maltrattamenti, che non poteva ritenersi integrato dalla
semplice pratica dell'accattonaggio;
era difettata la prova di una
condotta abituale finalizzata ad imporre al soggetto passivo un sistema
di vita mortificante e non tollerabile; il malessere avvertito dal
minore non poteva, di per sè, integrare la prova del reato contestato
e, più specificamente, della ricollegabilità di tale malessere al
comportamento del prevenuto; l'affermazione che lo sfruttamento del
minore sarebbe stato preventivamente programmato rimaneva un mera
congettura; il fatto contestato doveva, al limite, essere inquadrato
nella meno grave previsione contravvenzionale di cui all'art. 671 c.p.;
doveva comunque essergli riconosciuta l'attenuante di cui all'art. 62 c.
p., n. 1, in considerazione dei notevoli sacrifici da lui affrontati
per conciliare i gravosi impegni lavorativi (pesanti turni di lavoro,
quale dipendente Fiat) con la vigilanza sul minore affidato alle sue
cure.
Il ricorso non è fondato.
La Corte di merito ha così ricostruito,
in punto di fatto, la vicenda: il piccolo Y., di origine marocchina,
era stato affidato dai suoi genitori, perchè studiasse in Italia, allo
zio ...OMISSISVLD..., pure di origine magrebina, che da tempo risiedeva e
lavorava in Torino; il minore, però, una volta giunto nel nostro Paese,
non era stato inserito in alcun ambiente scolastico ed era stato
sostanzialmente abbandonato a sè stesso, senza ricevere dallo zio
quella guida e quelle cure necessarie ad assicurargli una sana ed
equilibrata crescita; Y., infatti, come direttamente constatato dalla
Squadra minori della Polizia municipale di Torino, trascorreva l'intera
giornata fuori casa e girovagava, malvestito, per le strade cittadine,
praticando il commercio ambulante di fazzoletti e l'accattonaggio,
veniva qualche volta rifocillato dal gestore o da avventori di un bar,
il ragazzo consegnava il magro guadagno che giornalmente riusciva a
realizzare allo zio a titolo di rimborso della somma che costui aveva
anticipato per farlo venire in Italia e di contributo per il posto
letto e per il pasto serale;
Y., nel corso dell'incontro avuto con il
mediatore culturale S., aveva manifestato tutto il suo malessere per lo
stato d'isolamento in cui viveva e il desiderio di essere inserito in
una comunità lontana da Torino, proprio per tirarsi fuori dalla
situazione in cui, sino a quel momento, era stato costretto.
Ciò posto,
osserva la Corte che correttamente il giudice a quo ha ravvisato, in
tali dati di fatto, gli estremi del delitto di maltrattamenti,
ascrivibile soggettivamente a ...OMISSISVLD....
Costui aveva avuto in affidamento
il nipote, per farlo studiare in Italia, e quindi aveva assunto
l'obbligo di curarlo e vigilarlo; in ogni caso, si era prestato a
tenere con sè il ragazzo, con l'effetto che si erano instaurate tra i
due strette relazioni e consuetudini di vita, che avevano generato un
naturale rapporto di assistenza e solidarietà, i cui connessi doveri
gravavano essenzialmente - com'è intuibile - sulla persona adulta.
Sussisteva, quindi, quella relazione qualificata tra soggetto attivo e
passivo richiesta dalla previsione normativa dell'art. 572 c.p., che
delinea un reato considerato, di regola, "proprio", in quanto si
concretizza solo nell'ambito di relazioni familiari o rapporti fondati
sulla autorità o su precise ragioni di affidamento. Fa eccezione
l'ipotesi, pure prevista, che vede come soggetto passivo il "minore
degli anni quattordici", con riferimento al quale si prescinde dalla
relazione qualificata con il soggetto attivo; ma anche quest'ultimo
requisito ricorre nella fattispecie in esame, considerato che Y.,
essendo nato nel 1986, non aveva ancora compiuto - all'epoca dei fatti
- i quattordici anni, con la conseguenza che, nel caso concreto,
sussiste una doppia ragione per ritenere compatibile con la struttura
del reato contestato il rapporto tra i soggetti che ne sono rimasti
coinvolti.
L'oggetto della tutela apprestata dalla norma incriminatrice
non è solo l'interesse dello Stato a salvaguardare la famiglia, intesa
in senso lato, ma è anche, più specificamente, l'interesse del soggetto
passivo al rispetto della sua personalità nello svolgimento di un
rapporto fondato su vincoli familiari o sull'autorità o su specifiche
ragioni di affidamento che lo legano a una persona in posizione di
preminenza ovvero, se si tratta di infraquattordicenne, anche
nell'ambito di un semplice rapporto di frequentazione comunque
instaurato con l'agente.
Non v'è dubbio che i fatti, così come
ricostruiti dal giudice di merito, integrino la condotta tipica del
delitto di maltrattamenti, perchè lesivi dell'integrità fisica e del
patrimonio morale del soggetto passivo, incapace - per la tenera età -
di una qualunque reazione autonoma, e tali da rendere abitualmente
dolorosa la relazione del medesimo con l'agente.
La tutela del minore,
in quanto soggetto particolarmente fragile, non deve incontrare limiti
di alcun genere e deve essere orientata a garantire comunque la
protezione del medesimo, ponendolo nella condizione di non vivere
l'isolamento o l'abbandono, di non essere sottratto agli interessi
propri della sua età e di affrontare le tappe della crescita, col
supporto del soggetto affidatario, in modo equilibrato e sano.
Posto
che la norma, in quanto tutela la normale tollerabilità della
convivenza, non richiede una totale soggezione della vittima
all'agente, è evidente che imporre al minore o anche semplicemente
consentirgli un sistema di vita non adeguato alle sue esigenze e anzi
in contrasto con queste, lasciandolo esposto sistematicamente ai rischi
della vita di strada, all'aggressione dei valori di decoro, di libertà
morale, di integrità psichica e fisica ai quali ha diritto, facendogli
avvertire il sostanziale disinteresse di chi dovrebbe proteggerlo e i
avere cura di lui e, quindi, il senso della solitudine e
dell'abbandono, significa determinare nella vittima uno stato di
sofferenza fisica e morale, avvertito, proprio perchè frutto di una
condizione abituale e persistente, come intollerabile.
L'offensività
del bene protetto dalla norma di cui all'art. 572 c.p. si attua nel
momento in cui si crea per la persona offesa la situazione di
sofferenza in cui è costretta a vivere. Il verificarsi di tale
situazione integra l'evento del delitto e non si richiede che dalla
stessa derivi un ulteriore danno alla integrità fisica o psichica del
soggetto passivo.
E' il caso di sottolineare che il reato, a forma
liberta, può essere integrato non soltanto da condotte commissive, ma
anche da condotte omissive. Rientra certamente in queste ultime la
condotta della persona che costantemente si disinteressi del minore
affidato alle sue cure e alla sua vigilanza.
Quanto all'elemento
soggettivo, non è richiesta una particolare finalità della condotta del
reo, ma è sufficiente che sussistano la coscienza e la volontà di
determinare nel soggetto passivo uno stato continuativo e abituale di
sofferenza. Non è necessario che nell'agente vi sia una preventiva
rappresentazione e volontà della situazione che andrà a determinarsi,
ma è sufficiente che, nel momento in cui questa comincia a profilarsi
con una certa consistenza, l'autore si renda conto che, persistendo nel
suo comportamento commissivo od omissivo, infliggerà una ingiusta
sofferenza al soggetto passivo. E, nel caso in esame, l'imputato, come
puntualmente rilevato dal giudice di merito, si rese certamente conto
dello stato di grave sofferenza inflitto al nipote, non fosse altro
perchè, disinteressandosi completamente delle sorti del medesimo, se
non per incamerare i magri guadagni del commercio ambulante e
dell'accattonaggio praticati, era ben consapevole del degradato e
mortificante regime di vita di Y.; l'imputato aveva, invece, il dovere
di non consentire che ciò si verificasse.
Nè può evocarsi, per ritenere
scriminato o semplicemente attenuanti ex art. 62 c.p., n. 1 il reato di
maltrattamenti, "l'etica dell'uomo", affermata sostanzialmente, sia
pure in maniera criptica, sulla base di opzioni sub-culturali relative
a ordinamenti diversi dal nostro. Tale riferimento a principi di una
cultura arretrata e poco sensibile alla valorizzazione e alla
salvaguardi dell'infanzia deve cedere il passo, nell'ambito della
giurisdizione italiana, ai principi base del nostro ordinamento e, in
particolare, ai principi della tutela dei diritti inviolabili dell'uomo
sanciti dall'art. 2 Cost., i quali trovano specifica considerazione in
tema di rapporti etico-sociali nell'art. 29 Cost. ("La Repubblica
riconosce i diritti della famiglia ...") e art. 31 Cost. (La Repubblica
... protegge la maternità, l'infanzia e la gioventù ...").
Il fatto non
può essere ricondotto, come pure si sollecita in ricorso, nella
fattispecie contravvenzionale di cui all'art. 671 c.p.. Questa meno
grave previsione punisce l'impiego di minore nell'accattonaggio da
parte di chi su di essi ha autorità, custodia o vigilanza, rappresenta
un minus rispetto a quella di cui all'art. 572 c.p. e può eventualmente
con essa concorrere. Nella specie, non si versa nella ipotesi
contravvenzionale, posta a tutela dei beni dell'ordine pubblico e della
pubblica tranquillità e finalizzata a prevenire il degrado morale dei
soggetti non imputabili e dei minori in particolare, ma in quella
delittuosa dei maltrattamenti verso fanciulli, considerato che
l'accattonaggio praticato dal piccolo Y. è l'espressione di una più
complessa condizione di vita riservata al medesimo e caratterizzata da
mancanza di effettività familiare, da sofferenze fisiche e
psicologiche, da mortificazioni di ogni genere.
Il ricorso deve,
pertanto, essere rigettato. Consegue, di diritto, la condanna del
ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il
ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 9 novembre 2006.
Depositato in Cancelleria il
30 gennaio 2007


Nessun commento: