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mercoledì 22 maggio 2013

TAR: Mobbing nella Pa, se la responsabilità è extracontrattuale rivolgersi al giudice ordinario


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Ricorso n. xxxxxxx       Sent. n. 795/07

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

  Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto, prima Sezione, con l’intervento dei magistrati:

Avviso di Deposito

del

a norma dell’art. 55

della   L.   27  aprile

1982 n. 186

Il Direttore di Sezione

  Bruno Amoroso  Presidente

  Italo Franco                        Consigliere

  Fulvio Rocco   Consigliere, estensore

  ha pronunciato la seguente

SENTENZA

  sul ricorso R.G. xxxxxxxxx, proposto da xxxxxxxxx, rappresentato e difeso dall’Avv. Anna Tomaello e dall’Avv. Catia Cacco, con domicilio eletto presso la Segreteria della Sezione, a’ sensi e per gli effetti dell’art. 35 del T.U. approvato con R.D. 26 giugno 1924, n. 1054,

contro

  l’Università Ca’ Foscari di Venezia, in persona del suo Rettore pro tempore, costituitosi in giudizio, rappresentato e difeso dall’Avv. Gianfranco Perulli, ed selettivamente domiciliato presso il suo studio in Venezia, ,

  per l’accertamento

   dei danni esistenziali, psichici e patrimoniali subiti dal ricorrente in dipendenza del suo anticipato pensionamento, con conseguente condanna dell’Università Cà Foscari di Venezia al pagamento dei danni medesimi, maggiorati di interessi legali e di rivalutazione del credito sino al soddisfo.

  Visto il ricorso con i relativi allegati, notificato il 18 – 26 ottobre 2005 e depositato il 14 novembre 2005;

  visto l’atto di costituzione in giudizio dell’Università Ca’ Foscari;

  viste le memorie prodotte dalle parti;

  visti gli atti tutti di causa;

  uditi nella pubblica udienza del 12 ottobre 2006 (relatore il consigliere Fulvio Rocco) l’Avv. A. Tomaello per il ricorrente e l’Avv. G. Perulli per l’Università Ca’ Foscari;

  ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:

FATTO  E  DIRITTO

        Il ricorrente, Prof. xxxxxxxxxx, espone di essere cittadino turco e italiano, di essersi laureato in lettere presso l’Università degli Studi di Pavia nel 1966 e, dopo aver insegnato per tre anni la lingua italiana e turca in Turchia, di aver assunto in data 1 novembre 1970 l’incarico di insegnamento di “Lingua e letteratura turca” presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia (cfr. doc. 1 di parte ricorrente).

  Il ricorrente precisa, altresì, di aver impartito tale insegnamento quale professore incaricato stabilizzato sino alla data del 31 luglio 1980, e di essere divenuto, quindi, con decorrenza giuridica 1 agosto 1980 e con decorrenza economica 30 maggio 1983 professore associato di “Lingua turca” presso la medesima Università (cfr. ibidem, doc. 2).

  In data 1 novembre 1997 il Prof. xxxxxxxxxx ha, peraltro, rassegnato le proprie dimissioni ed è stato collocato in quiescenza (cfr. ibidem, doc.ti 3 e 4).

  Nell’atto introduttivo del presente giudizio, il medesimo ricorrente precisa di aver più volte segnalato alle Autorità Accademiche vari accadimenti non consoni al prestigio e all’onorabilità del corpo docente e dell’Università (cfr. ibidem, doc.ti 5, 6, 7, 7a, 7b e 7c), senza peraltro che ciò sortisse effetto.

  Da ultimo, con lettera indirizzata - tra gli altri - al Rettore, al Consiglio di Facoltà di Lingue e Letterature Straniere e al Preside della medesima Facoltà, il Prof. xxxxxxxxx ha denunciato la costituzione irregolare di una Commissione per la pubblica selezione di candidati esperti collaboratori di madre lingua turca (cfr. ibidem, doc. 8), posto che tale organo risultava composta da un solo turcologo (Prof. xxxxxxxxxxxxxxxxxx, già allievo dello stesso Prof. xxxxxxx) e da due iranisti (Prof. xxxxxxxxxxxxxxxxxxx e Prof. xxxxxxxxxxxx xxxxxxall’evidenza incompetenti nel valutare la conoscenza della lingua turca.

  Il ricorrente ha in tal senso lamentato che l’Università aveva costituito la Commissione anzidetta in modo del tutto illogico, avendo escluso il suo nominativo dai membri di tale organo ignorando la circostanza della sua ultraventennale docenza nella medesima materia oggetto della selezione.

  Il medesimo ricorrente riferisce di essere stato informato di quanto avvenuto soltanto a posteriori e in via del tutto casuale, e di aver ribadito le proprie censure sia nel corso della seduta del Consiglio di Facoltà tenutasi il giorno 11 gennaio 1994 (cfr. ibidem, doc.ti 9 e 10), sia con lettera dd. 13 gennaio 1994 da lui inviata ai membri del Consiglio medesimo (cfr. ibidem, doc. 11) e allo stesso Rettore (cfr. ibidem, doc. 12) e recante  la richiesta di annullare in via di autotutela la graduatoria formata dalla Commissione anzidetta e di sostituire tale organo con altro composto da almeno due docenti turcologi: ma senza ottenere risultato.

  Il Prof. xxxxxxxxx ha reiterato le proprie censure con ulteriore lettera dd. 12 marzo 1994 indirizzata al Magnifico Rettore dell’Università (cfr. ibidem, doc. 18), nella quale peraltro si espongono anche altre irregolarità, quali l’asserita distrazione di fondi destinati alla Cattedra di Lingua e Letteratura Turca, l’artificiosa creazione e gestione dispotica di cattedre, l’utilizzo di insulti, prepotenze e minacce ai danni propri e di altri docenti, l’imposizione di lettori e di supplenti privi di adeguata competenza tecnico-scientifica, l’ubriachezza molesta e continuata di un altro docente, l’assunzione di un incarico o di un a supplenza in lingua e letteratura turca da parte di un docente che mai avrebbe svolto attività di insegnamento e sostenuto prove scritte e il ricatto ai danni di altra docente che avrebbe scoperto irregolarità in un concorso nazionale e che sarebbe stata costretta in  tal modo al silenzio.

  Il ricorrente riferisce che tale sua ulteriore segnalazione venne riscontrata dal Rettore soltanto con nota dd. 10 maggio 1994 (cfr. ibidem, doc.ti 20, 21 e 22), scritta soltanto dopo la proposizione di una diffida a rispondere (cfr. ibidem, doc. 19) e con la quale, in buona sostanza, si respingono le accuse, anche se contestualmente si sollecitano chiarimenti da parte degli altri docenti coinvolti nelle vicende.

  Il ricorrente riferisce pure di essere stato querelato in data 15 giugno 1994 per diffamazione da parte dei professori xxxxxx xxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxx xxxxxxxxxx (cfr. ibidem, doc.ti 23 e 24), e che il relativo procedimento (R.G. n. 8564/1994) è stato definito dal Pretore di Venezia con sentenza n. 750 dd. 17 giugno 1999 recante la propria assoluzione per mancata punibilità a’ sensi del combinato disposto dell’art. 59, ultimo, comma e 596, ultimo comma, cod. pen. (cfr. ibidem, doc. 25).

  Il ricorrente precisa – altresì – che per i capi di imputazione segnatamente riguardanti la distrazione di fondi e le prepotenze e minacce dei denuncianti, in ordine ai quali il Pretore aveva reputato la sussistenza dell’esimente putativa, è stato da lui proposto appello (cfr. ibidem, doc.ti 26 e 27).

  Il ricorrente riferisce pure di essere stato processato per il reato di calunnia (cfr. ibidem, doc. 28), e che in relazione a tale ulteriore procedimento egli è stato assolto con sentenza n. 388 dd. 21 ottobre 1999 emessa dal Tribunale di Venezia “dal reato ascrittogli relativamente all’ipotesi di distrazione di fondi perchè il fatto non  costituisce reato, e per tutte le altre ipotesi contestate, ivi comprese quelle suppletive di cui ai verbali 01.07.1996 e 12.02.1997, perché il fatto non sussiste” (cfr. ibidem, doc. 29).

  Il ricorrente precisa di aver proposto anche in questo caso appello in data 1 marzo 2000 avverso il capo della sentenza relativo alla distrazione di fondi (cfr. ibidem, doc. 30), ma di avervi poi rinunciato (cfr. ibidem, doc. 31) in relazione alla propria difficile situazione di salute e familiare indotta dalle vicende sin qui descritte.

  Il ricorrente afferma – altresì – che, a fronte dei sopradescritti sviluppi, complessivamente favorevoli, da lui ottenuti in sede di giudizi penali promossi nei suoi confronti, egli si è risolto a denunciare a sua volta i medesimi fatti alla Procura della Repubblica di Venezia, affinché fossero perseguiti i responsabili: ma la denuncia stessa sarebbe stata “rapidamente” archiviata dall’Autorità inquirente “per oscuri motivi” (cfr. pag. 5 dell’atto introduttivo del presente giudizio).

  Il ricorrente evidenzia anche che la stessa Università Ca’ Foscari non avrebbe svolto indagini interne su quanto da lui segnalato e assistito, in ordine alla fondatezza delle relative censure, dall’autorità delle predette pronunce giudiziali.

  A tale ultimo proposito, il medesimo Prof. xxxxxxxxxx riferisce che l’Università si sarebbe limitata a redigere delle relazioni riservate (cfr. ibidem, doc.ti 32, 33 e 34), apparentemente per vagliare la fondatezza delle proprie denunce.

  Tali relazioni, peraltro, ad avviso dello stesso ricorrente, non assumerebbero a proprio fondamento la documentazione pur esistente presso l’Ateneo: e ciò nonostante la lettera del Rettore dd. 22 aprile 1994 (cfr. ibidem, pag. 35) recante la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica di Venezia e che diede avvio al predetto procedimento a suo carico per calunnia, nonché una consistente corrispondenza da lui intrattenuta con la medesima Università finalizzata ad ottenere, a’ sensi dell’art. 22 e ss. della L. 7 agosto 1990 n. 241, copia della documentazione utile alle indagini.

  Il ricorrente riferisce di essere stato nel frattempo oggetto di “prevaricazioni,  soprusi, minacce, prepotenze e angherie sul posto di lavoro” (cfr. pag. 7 e ss. dell’atto introduttivo del presente giudizio) che lo avrebbero indotto dapprima al trasferimento ad altro Dipartimento della stessa Università e, quindi, “quando la situazione era ormai diventata insostenibile anche in considerazione delle vicissitudini giudiziarie subite e dell’atteggiamento che anche in quell’occasione era stato assunto dall’Università” medesima (cfr. ibidem), a chiedere il collocamento a riposo per dimissioni, che peraltro il ricorrente nega siano state “volontarie” , configurandosi le stesse – semmai – quale evento indotto “dalla pressante condotta posta in essere dalla resistente Università”, posto che “il comportamento omissivo e/o commissivo” di quest’ultima”in merito alle denunce ripetutamente sollevate … e che portarono ai fatti, anche di rilevanza penale, in precedenza descritti” avrebbe avuto, sempre secondo la prospettazione del ricorrente medesimo, l’ “unico e ben definito scopo” di “esasperarlo … al punto tale di provocarne le dimissioni” (cfr. ibidem), da lui – per l’appunto – chieste in data 20 maggio 1997 (cfr. doc. 3 di parte ricorrente) e ottenute con decreto rettorile dd. n. 609/int./132-Sez. P.D. dd. 22 maggio 1997 (cfr. ibidem, doc. 4).

  1.2. Con il ricorso in epigrafe, il Prof. xxxxxxxxx, essendo risultata vana la propria richiesta di risarcimento dei danni da lui subiti in asserita dipendenza del comportamento antigiuridico tenuto nei suoi confronti dall’Università (cfr. ibidem, doc. 79: richiesta dd. 19 aprile 2001) e avendo avuto esito parimenti negativo l’istanza da lui parimenti proposta innanzi alla Commissione di conciliazione di cui all’art. 66 del D.L.vo 30 marzo 2001 n. 165 (cfr. ibidem, doc.ti 82 e 83), aziona pertanto nella presente sede di giudizio le proprie istanze risarcitorie avverso la medesima Università.

  La difesa del ricorrente reputa, innanzitutto, necessario considerare il tipo di inadempimento posto in essere dalla resistente Università, non senza però preliminarmente dar conto - ai sensi dell'art. 115 c.p.c. e, quindi, nel quadro delle circostanze appartenenti al "fatto notorio" acquisito alle conoscenze della collettività in modo da non esigere dimostrazione alcuna in giudizio - di alcuni profili direttamente evocati dalla vicenda prospettata in ricorso.

  La parte ricorrente rileva, a tale riguardo, che da alcuni anni gli psicologi, i medici del lavoro, i sociologi e, più in generale, coloro che si occupano di studiare il sistema gerarchico esistente negli ambienti di lavoro ed i suoi riflessi sulla vita del lavoratore, ne hanno individuato alcune gravi e reiterate distorsioni, capaci di incidere pesantemente sulla salute individuale: si tratta del fenomeno ormai internazionalmente noto come mobbing.

  Il termine, proveniente dal verbo inglese to mob (attaccare, assalire) e mediato dall’etologia, notoriamente si riferisce al comportamento di alcune specie animali, solite circondare minacciosamente un membro del gruppo per allontanarlo.

  Spesso nell'ambiente di lavoro – afferma sempre la parte ricorrente - accade qualcosa di simile, allorquando il dipendente è oggetto di ripetuti soprusi da parte dei colleghi o dei superiori e, in particolare, vengono poste in essere nei suoi confronti pratiche dirette ad isolarlo dall'ambiente di lavoro e, nei casi più gravi, ad espellerlo; pratiche il cui effetto è quello di intaccare gravemente l'equilibrio psichico del prestatore di lavoro, menomandone la capacità lavorativa e la fiducia in se stesso.

  La parte ricorrente riferisce che il fenomeno ha ormai assunto - a seguito delle denunce di numerosi esperti di settore e delle vittime stesse - proporzioni senza dubbio rilevanti, così da coinvolgere percentuali non indifferenti di lavoratori (in base alle stime ufficiali, oltre il 4% dell'intera forza lavoro occupata in Italia è attualmente oggetto di pratiche di mobbing).

  La parte ricorrente richiama in tal senso due note sentenze emesse al riguardo dal Tribunale di Torino: la prima, del 30 dicembre 1999, con la quale è stato stabilito che integrano la fatti specie del c.d. mobbing le pratiche poste in essere nell’ambiente di lavoro per isolare il dipendente e, nei casi più gravi, per espellerlo con effetto lesivo sul suo equilibrio psichico; la seconda, del 16 novembre 1999, con la quale si è chiarito che il datore di lavoro risponde a titolo di responsabilità contrattuale per i danni psicologici subiti dai propri dipendenti e dovuti ai trattamenti incivili e ingiuriosi dagli stessi subiti sul luogo di lavoro.

  La parte ricorrente precisa, inoltre, che Il quadro normativo in tema di tutela in favore del lavoratore, preso in considerazione della dottrina e dalla giurisprudenza nelle fattispecie di mobbing, comprende sia disposizioni di carattere generale che disposizioni più specifiche.

  Quanto alle prime, viene in considerazione l'art. 2 Cost. che letteralmente "riconosce e garantisce i diritti inviolabili della persona sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità", nonché l'art. 3 Cost., in forza del quale a tutti gli individui viene assicurata l'uguaglianza formale e sostanziale, attuata –quest’ultima – dalla Repubblica (ossia dall’intero complesso delle Pubbliche Amministrazioni italiane) attraverso la rimozione degli ostacoli che di fatto limitano la libertà e l'uguaglianza ed impediscono il pieno realizzarsi della persona umana e la partecipazione dell'individuo alla vita del Paese.

  La parte ricorrente richiama, inoltre,  l’art. 4 Cost., laddove è garantito il diritto al lavoro - il quale, come è ben noto,  rappresenta non solo lo strumento per assicurare a sé e alla propria famiglia un’esistenza libera e dignitosa, ma costituisce anche un ambito essenziale per la realizzazione della propria personalità – anche mediante la sua correlazione al dovere del cittadino di svolgere, secondo le proprie possibilità e le proprie scelte, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale e spirituale della società.

  Né va sottaciuto il concomitante rilievo assunto dall’art. 35 Cost. che tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni.

  Per quanto attiene alle disposizioni più specifiche, la parte ricorrente richiama innanzitutto l’art. 2094 cod. civ. che definisce il prestatore di lavoro subordinato come colui che si obbliga a prestare la propria attività in cambio della retribuzione, secondo un rapporto non solo di subordinazione ma di collaborazione, nonché l'art. 2043 c.c. quale norma di carattere generale che prevede il principio del neminem laedere.

  La parte ricorrente richiama, altresì, l’art. 2049 cod. civ., laddove contempla la responsabilità del committente per il fatto dei suoi preposti e, soprattutto, l’art. 2087 cod. civ., che invero reca una norma di carattere generale eccedente la previsione della tutela antinfortunistica e che comprende, pertanto, non solo l‘integrità psicofisica del lavoratore, ma anche la sua personalità morale e la sua dignità.

  A tale riguardo la parte ricorrente evidenzia che la giurisprudenza ha già avuto modo di affermare che “sul datore di lavoro gravano sia il generale obbligo di neminem laedere espresso dall’art. 2043 cod. civ. (la cui violazione è fonte di responsabilità extracontrattuale), sia il più specifico obbligo di protezione dell’integrità psicofisica del lavoratore sancito dall’art. 2087 cod. civ. ad integrazione ex lege delle obbligazioni nascenti dal contratto di lavoro (la cui violazione è fonte di responsabilità contrattuale)” (cfr., ad es., Cass. Sez. Lav., 5 febbraio 2000 n. 1307 e 2 maggio 2000 n. 5491) e che “la responsabilità del datore di lavoro - che è tenuto alla predisposizione e all’adozione di tutte le misure idonee a tutelare l’integrità psicofisica del lavoratore - ha natura contrattuale” (cfr. sent. 1307 del 2000 cit.), nel mentre in ordine all’onere probatorio, “la necessità della colpa - che accomuna la responsabilità contrattuale a quella aquiliana - va poi coordinata con il particolare regime probatorio della responsabilità contrattuale che è quello previsto dall’art. 1218 cod. civ. (diverso da quello di cui all’art. 2043 cod. civ.) sicché grava sul datore di lavoro l'onere di provare di aver ottemperato all’obbligo di protezione in argomento” (cfr. sent. n. 5491 del 2000 cit.).

  La parte ricorrente, fatta questa premessa, passa quindi ad esaminare le problematiche oggetto di causa, affermando che il comportamento omissivo o commissivo tenuto al riguardo dell’Università integrerebbe i presupposti normativi del mobbing testè descritto.

  Secondo la medesima parte, infatti, l’Università non avrebbe fatto quanto era nel suo dovere, quale datore di lavoro, al fine di tutelare la dignità e l'integrità personale del Prof. xxxxx, reso  - come si è detto - costantemente oggetto di insulti, prepotenze, minacce, denigrazioni ed angherie da parte dei suoi superiori, ovvero dei suoi stessi colleghi.

  Secondo la parte ricorrente, la prova documentale di tale omissione si evincerebbe sia dalla lettera dd. 8 maggio 1978 con la quale il Prof. xxxxxxxxxxx (iranista e direttore del Seminario di Letteratura Iranica) definisce “vassalli suoi Turco ed Afgano”, il medesimo Prof. xxxx e il suo collega prof. xxxxxxxxxxxxx (cfr. ibidem. doc.6), sia dalla lettera del 12 marzo 1983 che il Prof. Scarcia ha inviato al ricorrente per scusarsi  del comportamento tenuto all'interno dell’ateneo (cfr. ibidem, doc. 7 c), sia dalla lettera del 28 febbraio 1980 con la quale il Prof. xxxxxxxxxxxxxx confessa al medesimo Prof. xxxx che era stato organizzato un apposito incontro per insultarlo (cfr. ibidem, doc. n. 7a).

  Sempre secondo la parte ricorrente, la prova delle omissioni dell’Università a fronte agli atteggiamenti di prevaricazione e di prepotenza dei superiori e dei colleghi nei confronti del Prof. xxxxx sarebbe emersa con lapidaria chiarezza nel corso dell’istruttoria svoltasi nell’ambito dei procedimenti penali che videro imputato il medesimo ricorrente.

  A tale proposito la difesa del Prof. xxx riporta il seguente passo della deposizione del prof. xxxxxxxxxxxx, che all’udienza del 5 ottobre 1999 tenutasi innanzi al Tribunale penale di Venezia ebbe a riferire: "...la cosa che mi impressionò fu che durante tutto l’anno ci fu questa diatriba tra il professor xxxxx e la facoltà, diciamo. E quindi, fui impressionato dal fatto che il professor xxxxx inviava lettere a tutti i componenti del Consiglio di facoltà prima dei Consigli di facoltà, dopo interveniva, leggeva le lettere e io, che venivo da altra realtà accademica, che era quella di Urbino, rimasi impressionato dal fatto che di fronte alle esternazioni del professor xxxxx che erano a volte anche dure, sì, la Facoltà taceva imbarazzata, non prendeva posizione... ...il professor Paladini si alzò e disse che, interpretando lo spirito, l'animo di molti dei partecipanti del Consiglio, disse che si trovava molto imbarazzato e a disagio per questo atteggiamento della Facoltà che, di fronte a denunce anche dettagliate, non riusciva ad esprimere una...un proprio dissenso o assenso, in modo...non prendeva posizione. E questo naturalmente si spiega...qui viene alla luce un pò  tutta l’essenza del mondo universitario. Qui si tratta di una struttura piramidale in cui la base della piramide per salire ed arrivare al culmine della piramide, deve soggiacere a desideri, imposizioni, volontà di chi sta sopra. Per cui si tratta di un mondo che nel Consiglio di Facoltà non riesce sicuramente a trovare un'espressione perché il silenzio è la parola d'ordine (domanda: ma quando lui faceva queste denunce, c’era una risposta da parte di qualcuno, pro o contro?) No, non ci fu. Non ci furono risposte, ci fu soltanto in un Consiglio di facoltà, decise di istituire una Commissione che dovesse esaminare il caso del professor xxxxs; c'era il professor xxxxxx, la professoressa xxxxxxxx, un terzo che non mi ricordo; però … mi preme sottolineare questo fatto: che le lamentele del professor xxxx espresse in Consiglio di Facoltà erano forti. Ora non posso dire che fossero giuste o non giuste, però erano espresse con precisione ed avrebbero preteso una risposta da parte delle autorità accademiche dello stesso tenore. Invece, in alcune occasioni, ho notato, così dall’esterno, diciamo, una specie di accanimento, per esempio l’allora Vice Presidente, no, il verbalizzatore, il segretario del Consiglio di Facoltà, si rifiutò addirittura di verbalizzare delle dichiarazioni del professor xxxx che lui stesso aveva richiesto di mettere a verbale. Qui è notorio che in sede di Consiglio di Facoltà, chiunque ha diritto di poter far mettere a verbale le proprie dichiarazioni. Perché il professor xxxx mi ricordo che disse: “io non metterò mai a verbale queste dichiarazioni, in quanto sono d’accordo con il Rettore su questo fatto”, cioè stabilivano una nuova regola che probabilmente a tutti era chiaro che questo incontro con il Rettore, a proposito della verbalizzazione o meno di dichiarazioni con il professore, non c’era mai stato. E lì ricordo che il professore era molto seccato del fatto di essere stato interpellato per mettere a verbale questa dichiarazione" (cfr. ibidem, doc. n. 85; sul punto la difesa del ricorrente richiama pure la deposizione resa dalla Prof. xxxxxxxxxxxxxxxx all’udienza del 14 aprile 1999 e la deposizione del Prof. xxxxxxxxxxxxxx all’udienza del 5 ottobre 1999, il quale alla domanda se il Prof. xxxx avesse ricevuto risposte alle proprie contestazioni da parte dell'Università, rispose: “La Facoltà mi pare che non reagì nel senso che una volta praticamente fu, come dire,  obbligato a tacere … il professor xxxxxxx, che era il segretario allora della facoltà, disse che comunque era inutile che intervenisse perché tanto non avrebbe verbalizzato quello che il professor xxxxxs  - domanda: e giustificò in qualche modo questa decisione, cioè perché? - Mi pare che quando gli fu fatta l’obiezione da parte del professor xxxx, però mi pare di ricordare che avesse detto che era d’accordo con il Rettore su questo, evidentemente il Preside deve aver parlato con il rettore su questo argomento e quindi la decisione o comunque l’intenzione del professor xxxxxx di non verbalizzare credo che fosse.... diciamo che era d’accordo con il rettore? Mi pare di ricordare di sì””: cfr., rispettivamente, ibidem, doc.ti 86 e 87).

  La parte ricorrente richiama pure, ad ulteriore conforto delle proprie tesi, la seguente deposizione resa dalla dott. xxxxxxx    xxxxxxxxx all’udienza del 25 novembre 1998, parimenti tenuta innanzi al Tribunale penale di Venezia: “Il clima era infuocato perché c’erano le lettere e il professor xxxxx, quando chiedeva la parola, spesso gli veniva negata nel Consiglio di Facoltà, su questo può essere un elemento aggiuntivo, per cui ovviamente, di fronte ad una parola negata il clima diventa ancor più... questa era una Commissione, in cui io non c’ero, una commissione di laurea in cui mi fu riferito da un collega che era presente che in realtà c'era stato... un candidato che si laureava in turco e hanno preferito per non avere problemi chiamando qualcuno che conosceva evidentemente il turco, l’hanno lasciato fuori e questa Commissione di laurea si è svolta senza un competente di lingua turca per non chiamare cioè era chiaramente un caso palese di discriminazione. Questo lo confermo, non gli veniva lasciata la parola, cioè veniva in un modo o nell'altro zittito e Quindi aveva una difficoltà ad esprimere la sua... io mi ricordo che veniva alzata la voce...nei miei ricordi era Zipoli  … il Professore aveva dei rapporti molto tesi, molto difficili ed io appunto ricordo che mi è stato raccontato perchè io non c’ero, che non era stato chiamato pur essendo l’unico turcologo presente disse: “Pensa che questo si è laureato, non c'era nessuno in grado di seguire l'inizio, diciamo, della relazione di questo che si laureava perché appunto pur di non mettere xxxx in commissione questo si è laureato” … era emarginato, certamente... io ho avuto spesso l’impressione, per questo dico il discorso quello dell’orientale, tra virgolette, che da noi, una Facoltà di orientali, spesso gli orientali presenti fossero tenuti in una posizione emarginata, quindi non soltanto il professor xxx, ma anche altri prima di lui o ancora. Questa secondo me è una questione che in generale ho notato in una Facoltà di Lingue orientali.Quindi idealmente mi sono trovata, cioè mi sono identificata in uno straniero che si viene a trovare in una posizione di disagio che non capisce tutte le regole del gioco e che quindi può essere, può avere bisogno di aiuto in qualche momento, proprio perché è uno straniero e perché viene considerato tutto sommato un estraneo" (cfr. ibidem, doc. n. 88)

  La parte ricorrente afferma anche che le omissioni dell’Università troverebbero conferma pure nella deposizione della prof. xxxxxx xxxxxxxxxxxxx alle udienze del 15 e 18 febbraio 1999, sempre tenute presso il Tribunale di Venezia : “... alla fine il professor xxxx chiede di parlare del suo concorso per la selezione del lettore. Ed allora in quel momento il professor xxxxxx, questo l’ho già deposto mi pare, c'è una deposizione... ...gli impedisce di parlare e dice “No lei non può parlare perché io, che sono il Presidente del Corso di laurea, in questo momento, che sono il decano con tutta la mia autorità le tolgo la parola”. Poi dopo non mi ricordo cosa ha aggiunto, forse ha detto: “La commissione doveva essere... è stata fatta bene, a regola d’arte e lei non doveva far parte”. Allora il professor xxxx dice: “lo vorrei precisare”, cominciava cioè ad interferire, a dire: “Voglio dire qualcosa”. E il professor xxxxxx gli ha tolto la parola: “No lei non può dire niente”, basta e chiuso. Allora io ho avuto un momento di paura perché ho detto: “Povero xxxxx, questo scoppia”, è logico e invece è stato molto fine e all'inglese e ha detto “Vedremo ...”, al che xxxxxa ha ripetuto che la Commissione è stata fatta regolarmente, fa fatto capire che lui non aveva diritto a far parte e basta e che li toglieva la parola” (cfr. ibidem, doc. n. 89).

  La parte ricorrente rimarca, inoltre, i seguenti, ulteriori episodi riferiti dalla xxxx nelle proprie deposizioni in sede penale.

  Il primo episodio riguarda l’asserita “ubriachezza molesta” del Prof. xxxxxxxxxxx: “Di xxxxxx posso dire questo: passavo per campo San Polo assieme ad un collega e a un certo punto vediamo il professar xxxxs che esce dalla calletta del nostro istituto. Noi stavamo invece entrando... e seguito ..insieme al professor xxxxxxxxx il quale lo teneva per la manica, lo tirava, lo strattonava, diciamo, no? e il Professor xxxx che si divincolava, tutto rosso e, direi, impaurito, molto impaurito. Noi siamo rimasti lì a guardare e il professor xxxxxxxxx si è allontanato, ha mollato e il Professor xxxxx è scappato via. ... ...1 'ho chiesto al professar xxxx. Ecco: “ieri ti ho visto con xxxxxx che ti tirava per la manica” ed allora lui per la prima volta si è aperto e ha detto: “non ne posso più”, ecco era spaventato, era fuori di sé “non ne posso più”, dice: “da quando sono passato qui da voi xxxxxxx mi corre dietro ed è ubriaco, e mi corre dietro e mi dice: “devi tornare da noi, devi tornare da noi, devi tornare da noi e mi tira per la manica, poi mi fa degli agguati, io cambio strada ogni sera, non riesco, per rincasare mi corre dietro e ti dico la verità ho paura che mi picchi che passi a vie di fatto...” (cfr. doc. 89 cit.; la parte ricorrente afferma, altresì, che gli episodi di ubriachezza del Prof. xxxxxx si sarebbero manifestati anche in seno all’Università, nel corso delle lezioni, secondo quanto riferito nel medesimo processo dal Prof. xxxxxxxxx e dalla dott. xxxxxxxxxx: cfr., rispettivamente, ibidem, i doc.ti 92 e 93).

  Il secondo episodio è, viceversa, relativo alle ritorsioni di cui il ricorrente sarebbe stato gravato (“.. allora c’è stato un convegno al Cini, tra i partecipanti c'è stata una dottoressa di Bologna che era la moglie di un nostro collega, un ex collega nostro, turcmena, ed aveva fatto una bella relazione su un manoscritto di medicina turca, manoscritto turco insomma di medicina. Allora nell’intervallo io mi sono avvicinata per congratularmi con lei e stavamo parlando di questa raccolta di manoscritti, e si è avvicinato il Professor xxxxx, che non c’entrava, ha introdotto, diciamo, ha fatto un’interruzione al nostro discorso e ha detto: “Ecco xxxxxxx, tu stai parlando con questa signora molto affabilmente, probabilmente ti stai congratulando”,, era così, “e questa brava signora, questa è quella brava signora che il Professor xxxx non vuole”. Ecco, ha detto così, basta, queste parole strane anche: “Bene” , dice: “Tu devi fare smettere il Prof. … devi dire al Professor xxx che smetta di scrivere quelle stupide lettere al Consiglio di Facoltà”, “perché devo farlo io?” ho detto, “perché devo fare questo?”, “perché il Professor xxx appartiene al tuo gruppo, a voi arabisti...” (sic!) ha fatto capire: “avete la responsabilità di quello che fa e dovete impedirglielo perché sono lettere stupide” . Cfr. ibidem, doc. n. 89 cit.. Secondo la prospettazione della parte ricorrente, poiché il gruppo del prof. xxxxxx non voleva ammettere la summenzionata dottoressa turcmena, ma d'altro canto non poteva neppure dirle di no perché era la moglie di un ex collega, allora la soluzione la si poteva trovare addossando al prof. xxxxx la responsabilità dell'esclusione: cfr. pag. 17 dell’atto introduttivo del presente giudizio).

  Sempre secondo la parte ricorrente, l’Università non avrebbe adempiuto ai propri obblighi di dato di lavoro, al fine di evitare dapprima il cambio di Dipartimento e poi il pensionamento anticipato del Prof. xxxx.

  In tal senso, la parte ricorrente rimarca ancora la circostanza che il Prof. xxxxx è di madre lingua turca e che era pertanto naturalmente deputato a far parte del Dipartimento di Studi Eurasiatici: e, nondimeno, egli sarebbe stato costretto, segnatamente in conseguenza degli atteggiamenti di prevaricazione e di angheria perpetrati nei suoi confronti, a cambiare Dipartimento per poter lavorare con tranquillità.

  A tale riguardo, la medesima parte definisce significative le ulteriori deposizioni della Prof.ssa xxxxxxxxxxxxxxx, rese nel predetto procedimento penale innanzi al Tribunale di Venezia: “ …lui è venuto da noi ed è stato molto corretto, perché ha detto: “Non chiedermi niente del passato” e non ha mai detto, salvo appunto nelle sue ultime battute quando è venuto fuori proprio un po’ di tutto, ma lui allora scriveva le lettere al Consiglio di Facoltà diciamo, ma non ha mai toccato le sue... i suoi screzi, le sue liti, chiamiamole così, con l'altro Dipartimento, ha detto: “Non chiedermi niente e io non ti chiederò niente, dammi un posticino per insegnare, per stare tranquillo e vivere in maniera democratica, non chiedo di avanzare, non voglio cattedre, so che non potrò fare carriera, so che, perché i posti sono pochi, diciamo, non ti chiedo niente, nessun avanzamento, nessun ...lasciami solo lavorare”. E così ha fatto, ecco, devo dire la verità, era allegro, con i ragazzi era sempre disponibile, era sempre presente, faceva ore in più di lezione,insomma lavorava allegramente e contento e i ragazzi erano contenti" (cfr. ibidem, doc. n. 89 cit).

   A sua volta, nel medesimo procedimento il prof. xxxxxxxxxxx ebbe a riferire quanto segue: "Il Dipartimento di studi eurasiatici che è il Dipartimento che il professar xxxx ha lasciato per entrare nel nostro dove, da quanto posso sapere e capire, lui si è trovato molto più a proprio agio insomma, se non altro non era più tormentato dalla situazione che gli veniva imposta dagli altri. Parlo per quanto mi ricordo e per quanto ne so, ovviamente, e le mie opinioni sono queste. Io avrei molto da ridire sul comportamento complessivo degli afferenti a questo Dipartimento, o almeno di alcuni afferenti a questo Dipartimento che però non centra niente con quanto si sta dibattendo adesso, immagino” ( cfr. ibidem, doc.90).

  Riferisce sempre la parte ricorrente che la Prof. xxxxxxxxxxxx, alla quale  venne chiesto nella medesima occasione se il ricorrente avesse avuto dei risentimenti per essere passato dal Dipartimento di Studi Eurasiatici a quello di Arabistica, ebbe a precisare: "Sicuramente, non credo che uno passi da un Dipartimento all’altro senza un motivo ed anche molto serio...i motivi che lo avevano spinto probabilmente erano più d'uno e così gravi, ritengo, da spingerlo ad andarsene ed anche in modo deciso, fermo, e più volte ho sentito dire dal professor xxxx come sentisse la differenza di clima, di ambiente, di libertà all'interno del nuovo Dipartimento rispetto a questa sensazione di grave disagio che aveva nell’altro” (cfr. ibidem, doc. n. 91).

  La parte ricorrente reputa che l’Università nulla avrebbe fatto al fine di evitare la sottoposizione del medesimo Prof. xxxxx agli insulti e alle umiliazioni dei suoi colleghi, omettendo in tal modo dio salvaguardarne l’integrità fisica.

  Su questo specifico profilo la parte ricorrente richiama le dichiarazioni rese – sempre nel medesimo procedimento penale – dal Prof. xxxxxxxxxxxx, secondo il quale “quando il Professor xxx cercava di far valere le proprie ragioni”, egli veniva “osteggiato in questo suo diritto ad esprimersi", dovendosi imputare questo comportamento di denigrazione e di ostracismo segnatamente ai colleghi  xxxx e xxxx (cfr. ibidem, doc. n. 87), nel mentre la dott. xxxxxxxxx ha riferito che “il professor xxxx era un pò isolato rispetto al resto dell’ambiente universitario e faceva un pò, come dire, era un pò isolato, rispetto al resto ecco questa è la mia sensazione come studente (domanda: quindi, emarginato?) sì, diciamo che si capiva abbastanza chiaramente che i rapporti tra il professore xxxxx e magari anche i docenti non sempre erano ottimi. Nel senso, sì, era un po' isolato rispetto al resto” (cfr. ibidem, doc. n. 93).

  La parte ricorrente riporta, sempre a tale riguardo, anche quanto riferito dalla dott. xxxxxxxxxxxxxxxxx, ossia che il Prof. xxxxxx “era molto turbato e sentiva che aveva dei problemi, si sentiva sotto la pressione. C'era un altro parente suo che lo accompagnava quando usciva dall’Università fino Piazzale Roma, io andavo il mercoledì, certe volte il giovedì alla sua lezione, per imparare meglio ‘italiàno, perché c’erano le traduzioni nelle sue lezioni. Allora l’accompagnavo anch’io fino a Piazzale Roma. Dunque un certo timore ce l'aveva. … Quello che io capivo che lo tenevano fuori da tutte le attività. La gestione o il meccanismo di gestione della Turcologia e lui ne soffriva" (cfr. ibidem, doc. n. 94).

  La parte ricorrente afferma che in questo contesto si inserisce la nota vicenda della costituzione della Commissione per la selezione di un esperto collaboratore di madre lingua turca, essendo stato infatti appurato in sede penale che il rapporto di parentela tra il ricorrente e la signora xxxxxxxx è stato strumentalizzato dall’Università al solo fine di coprire le irregolarità nella gestione della selezione pubblica di un esperto collaboratore linguistico di madre lingua turca.

  Viceversa, risulterebbero puntualmente confermate nella medesima sede la malafede e il comportamento inadempiente dell’Università.

  A tale ultimo proposito il ricorrente reputa illuminante quanto si legge nella sentenza resa dal Tribunale di Venezia resa in data 21 ottobre 1999, ossia: “In sintesi cos’era successo: che far parte di quella Commissione di nuova istituzione che secondo la nuova normativa, attesa da anni, avrebbe dovuto procedere alla valutazione dei nuovi lettori di lingua turca attraverso un metodo, quello della selezione pubblica, che per definizione doveva garantire, nell'interesse dell’Università e a tutela degli stessi aspiranti, l’assunzione dei candidati più competenti, non era stato chiamato proprio l'unico docente di madre lingua turca: con la conseguenza che il madrelinguismo dei candidati avrebbe dovuto essere accertato da due docenti che ignoravano il turco corrente (xxxxxxxxxxxxxxx e da un terzo, questi sì pienamente titolato, ma che per essere stato allievo del Prof. xxxxx ben poteva capire il peso e la valenza della sua esclusione. … La qual cosa suscita, invero. non poche perplessità. soprattutto alla luce degli avvenimenti successivi alla nomina della Commissione, i quali sono sintomatici della precisa volontà di escludere il xxxxx: ed infatti il “problema” della sua incompatibilità con la candidata xxxxx non era affatto un “problema” al momento in cui la Commissione venne nominata, per il semplice motivo che i commissari furono designati il 15 dicembre, mentre il bando di concorso usci più tardi, e cioè il 24 dicembre: quindi il giorno 15 nessuno poteva sapere se fra i candidati vi sarebbe stata la xxxx,quello che invece si poteva sapere (o, comunque, intuire) era che la predetta, essendo già dipendente a tutti gli effetti – dell’Università in forza della sentenza pretorile, non avrebbe proprio dovuto essere sottoposta alla pubblica selezione, riguardando questa procedura solo le assunzioni Oltretutto si osserva che se la mancata nomina del Prof. xxxxx, con il provvedimento del 15 dicembre, fosse stata solo frutto di un’affrettata decisione, ben si sarebbe potuto rimediare il giorno 27, sostituendo al Prof. xxxx, impedito, il Prof.  xxxx e non il Prof. xxxxxxxx: ma ciò non si fece, cosi come, se veramente la prima ed unica preoccupazione dei docenti fosse stata quella dell’incompatibilità del collega, correttezza avrebbe loro imposto quantomeno di parlarne con lui prima della formazione della commissione, informandolo di ciò che per loro rappresentava un elemento ostativo alla sua designazione: cosa che nessuno fece … E’ evidente. dunque. che l’obiettivo era quello di tenere all’oscuro il Prof. xxxx e di estrometterlo dalla Commissione. E’ chiaro, dunque, che l’incompatibilità fu un pretesto per far sì che della Commissione non facesse parte il Prof. xxxx: essa pacificamente non rappresentava un reale ed obiettivo elemento ostativo alla sua nomina” (cfr. ibidem,doc. n. 29).

  Del resto – rileva sempre la parte ricorrente – anche il Pretore di Venezia aveva avuto modo di evidenziare, a sua volta, nella propria sentenza n. 750 dd. 17 giugno 1999: “Che la xxxxxxxxxxx nulla doveva avere a che fare con la selezione pubblica, in quanto non doveva essere assunta ma continuava ad essere dipendente con contratto di lavoro a tempo indeterminato, e ciò per accertamento della magistratura del lavoro, non è più una opinabile affermazione del xxxx, ma è la motivazione che l’Autorità Giudiziaria, il Pretore del lavoro, pone a base di una sentenza, dichiarando che gli atti di “non assunzione”, di fatto “licenziamento”, sono erronei ed illegittimi proprio perché il tutto è stato, erroneamente inquadrato nella procedura concorsuale di selezione. Quindi se non v’era una giuridica ragione per escludere il Pro! xxxx dalla Commissione, e se si conviene che sarebbe stato strano escluderlo per altre imprecisate ed arbitrarie e formalistiche ragioni... ..quella Commissione,così come è stata composta, poteva dare adito alle rimostranze e critiche del xxxxx che ne ha contestato la legalità, la regolarità e la legittimità. In questo senso: o è stato davvero pretestuoso il tirar fuori l’affinità con la xxxxxxxx …oppure realmente quando il Prof. xxxx ebbe a proporre la terna dei professori al Rettore in data 14 dicembre 1993 si era ritenuto che la “questione cognata”, in generale, poteva costituire un problema per la Commissione, ma in tal caso, data la gravità dell'esclusione (del xxxxx) che si andava ad operare, sarebbe stato doveroso ed opportuno chiarire la questione con lo stesso Prof. xxxxx,. o comunque formalmente investirne le Autorità accademiche competenti. Non è stato fatto nè l’uno, né l’altro, e ciò non può essere considerata una svista o una semplice mancanza di riguardo verso il collega, ma ben si inquadra in una gestione e visione autorevole-autoritaria di vicende accademiche e didattiche, con spirito solidale e decisioni unanimi tra professori culturalmente affini, con esclusione ed emarginazione dei dissenzienti ... L’oggettiva esclusione del Prof. xxxxx significava far procedere più speditamente i lavori della commissione senza pregiudiziali ed insanabili contrasti, ma ciò significava anche far tacere una voce che doveva avere piena legittimità di essere espressa nelle competenti sedi decisionali per aprirsi al confronto, e alla critica, con altre idee ed altre visioni... ...Le posizioni del Prof.. xxxxx andavano affrontate e discusse, cosa certamente più laboriosa e defatigante rispetto alla comoda soluzione di lasciarlo fuori dalla Commissione. In fondo,  il tutto è nato poiché al xxxxx non è stata data la possibilità di esprimersi con franchezza e di essere ascoltato con lealtà, così che lo stesso, che da tempo sentiva calpestata la sua dignità di docente, ha finito con l'urlare le sue ragioni” (cfr. ibidem doc. n. 25 di parte ricorrente, pag. 13).

  “Quanto, infine, alla vis polemica, va rilevato che le sue critiche e le sue doglianze erano contro una 1ogica di potere e di prevaricazione nella quale, subendo, era rimasto imbrigliato per anni ed anni” (cfr. ibidem, doc. n. 25, pag. 31).

  La parte ricorrente evidenzia che anche i testimoni escussi in sede penale hanno puntualmente confermato che l’esclusione del Prof. xxxxx dalla commissione che doveva nominare i candidati lettori di madre lingua turca discendeva dalla volontà di ritorsione e di denigrazione del ricorrente da parte dei suoi colleghi di lavoro.

  Il Prof. xxxxxxxxxxxxxxxx ha affermato a tale proposito che  abbiamo riconosciuto, personalmente ho riconosciuto, ma anche colleghi, che era stata una scorrettezza quella di escludere il titolare più qualificato della lingua e letteratura turca da una commissione che doveva poi stabilire o decidere quale dei candidati scegliere per l'ufficio di lettore... io ho espresso solidarietà al professor xxxx dicendo che personalmente condividevo totalmente la lotta che lui portava avanti" (cfr. ibidem, doc. n. 87), e la Prof. xxxxxxxxxxxxxx, xxxxxx sua volta, ha precisato: “Direi che quando l’ho chiesto al Prof. xxxx, lui ha detto: “Perché è una specie di ritorsione, io sono passato da voi e loro mi fanno capire che loro possono scegliere, andare avanti, scegliere il lettore anche senza di me mi escludono- dice – per ritorsione perché sono passato da voi e quindi non esisto più e mi vogliono umiliare, vogliono far capire che sono zero”...”(cfr. ibidem,  doc. n. 89).

  La Prof. xxxxxxxxxxxxxxxxxx ha pure affermato che “ad un certo punto il professor xxxxxxx,  siccome dobbiamo spiegare questo perché giustamente il giudice ha diritto di sapere… Il professor xxxxxx, diciamo, quando chiede qualcosa in Consiglio di Facoltà, ha la maggioranza dei voti. Può anche chiedere “io so il cinese, voi dite che io so il cinese” e tutti dicono sì e capita, in qualche facoltà capita che una forte personalità, bisogna dirlo, e il professor xxxx ha questo, quando chiede qualcosa lui ha i numeri il tono, diciamo, era più che deciso, ecco, deciso è un eufemismo; era piuttosto violento, però direi, sì fa impressione in un primo momento, poi il Professor xxxxx ha questo stile,ecco direi non è una novità che lui imponga" (cfr. ibidem).

  La parte ricorrente riferisce anche la seguente dichiarazione della Prof. xxxxx: “Episodi di, chiamiamola, violenza morale oppure forse è troppo pesante come termine, ma di una presenza forte di un capo, questo si aveva una sensazione ben precisa che avvenisse nel Dipartimento (domanda: ha sentito mai parlare ad esempio che professori considerati come schiavi che scuotono le catene?) si diceva anche (domanda: chi lo diceva?) Credo lo stesso xxxxxxx" (cfr. ibidem, doc. n. 91).

  La parte ricorrente afferma pure che l’Università neppure avrebbe intrapreso idonee iniziative al fine di verificare la fondatezza delle denunce presentate dal Prof. xxxx: e ciò anche dopo le anzidette due sentenze rese in sede penale, e seguitando ad opporre difficoltà e cavilli di ogni tipo (cfr., ad es., ibidem, doc. n. 78).

  Nondimeno, tutto quanto sopra avveniva in un contesto “molto pesante, dove contrasti di natura personale, malfunzionamento di persone ed organi, gestione personalistica ed autoritaria vengono descritti come fatti nonepisodici . . .” (cfr. ibidem, doc. n. 32).

  1.3. La parte ricorrente, dopo aver descritto quanto occorsole e già testimoniato dai propri colleghi, reputa che il comportamento omissivo dell’Università avrebbe per certo compromesso l’equilibrio del medesimo Prof. xxxx, diminuendone apprezzabilmente la stessa autostima.

  La medesima parte afferma, quindi, che la complessiva illegittimità della condotta posta in essere dall’Università costituirebbe titolo per il risarcimento a fronte di molteplici voci di danno, tutte tra loro autonomi, concorrenti ed indipendenti, ossia:

  A) Danno patrimoniale

  La parte ricorrente afferma che i fatti oggetto di causa avrebbero determinato, in capo al Prof. xxxxx, un ingente danno, oltre che fisico e psichico (di cui infra si dirà), anche patrimoniale.

  In tal senso, infatti, ad avviso della parte ricorrente non potrebbe dubitarsi che dapprima il trasferimento dal Dipartimento di Studi Eurasiatici al Dipartimento di Scienze Storico-Archeologiche e, poi,  il pensionamento anticipato, siano stati determinati esclusivamente dall’illegittima condotta dell’Amministrazione qui intimata, la quale non avrebbe posto rimedio agli atteggiamenti di prevaricazione, di sopruso e di angheria posti in essere dai colleghi e dai superiori del Prof. xxxx.

  Per quanto segnatamente attiene al proprio pensionamento anticipato, la parte ricorrente evidenzia che il Prof. xxxxx sarebbe stato obbligato ad aggiungere a mano sulla nota dattiloscritta da lui inoltrata al Magnifico Rettore l’aggiunta a mano “per volontarie dimissioni” dopo la proposizione “chiede di essere collocato a riposo” (cfr. ibidem, doc. 3).

  La parte ricorrente afferma che i fatti sopradescritti le avrebbero arrecato gravi danni, e ciò sia nell’esplicazione della propria personalità alla quale è deputata la sede lavorativa, sia per la diminuzione di reddito derivante dal pensionamento anticipato.

  A quest’ultimo proposito, la difesa del Prof. xxx evidenzia che questi sarebbe stato  costretto ad andare in pensione all’età di 55 anni, avendo maturato 33 anni ed 11 mesi di contributi, nel mentre in condizioni di normalità il medesimo ricorrente sarebbe stato collocato in pensione all’età di 70 anni.

  La stessa difesa afferma che la differenza tra quanto il Prof. xxx avrebbe percepito se avesse continuato a lavorare sino all’età di normale pensionamento, con quanto dallo stesso percepito a titolo di pensione nel periodo dal dicembre 1997 sino alla data della proposizione del presente ricorso e per il periodo successivo sino al normale pensionamento (2012), ammonta ad € 250.000,00.- : somma che la parte ricorrente chiede le sia integralmente corrisposta con la maggiorazione degli interessi e della rivalutazione del credito sino al soddisfo.

  La parte ricorrente chiede, comunque, sia pure disposta una consulenza tecnica contabile finalizzata a determinare l’esatto ammontare del danno patrimoniale patito dal ricorrente in conseguenza dei fatti oggetto di causa e, in particolare, della sua anticipata collocazione in congedo.

  b) Danno biologico.

  Secondo la difesa del ricorrente, questi avrebbe titolo ad essere risarcito non soltanto per il danno patrimoniale propriamente qualificato, ma anche per il danno biologico da lui subito, stante i ben delicati risvolti sul suo benessere fisico e psichico determinati dai fatti oggetto di causa e che lo hanno indotto ad interrompere anzitempo il rapporto di lavoro.

  La parte ricorrente evidenzia che il danno biologico è notoriamente determinato dalla compromissione del bene-salute costituzionalmente protetto, ossia di un valore eminentemente fondato sull’integrità psicofisica della persona: integrità da cui deriva lo stato di benessere personale e la possibilità di godere - per l’appunto - della salute e di svolgere la vita per tutta la sua durata secondo le ordinarie attività proprie del consorzio in cui il soggetto vive.

  Detto altrimenti, lo stato di salute consente al soggetto di poter realizzare il personale progetto di vita, comprendendo in ciò anche le relazioni interpersonali e sociali.

  La difesa del ricorrente rimarca che, a’ sensi dell’art. 2087 cod. civ. datore di lavoro deve prevenire i danni alla salute adottando tutti gli strumenti resi disponibili dall’attuale stato della scienza e della tecnica, benchè non espressamente contemplati dalle norme antinfortunistiche.

  Secondo tale prospettazione, il datore di lavoro sarebbe tenuto, quindi, al risarcimento sia del danno patrimoniale che del danno non patrimoniale (danno biologico e danno morale) subito da colui che è stato vulnerato dal mobbing: e dall’esame della documentazione medica dimessa agli atti di causa dal ricorrente medesimo (cfr. ibidem, doc. n. 96) emergerebbe con assoluta chiarezza che le sintomatologie attualmente lamentate dal Prof. xxx, ossia crisi d’ansia, sensazioni di soffocamento, somatizzazioni intestinali, stato di tensione emotiva ed episodi di tachicardia (cfr. ibidem, doc. n. 97), avrebbero avuto inizio in concomitanza con i fatti oggetto di causa.

  In tal senso, la parte ricorrente rinvia alla lettura della relazione medico-legale del Prof. xxxxxxxxxxxxxxxxx, specialista in Neurologia, Psichiatria, Medicina del Lavoro e in Medicina Legale e delle Assicurazioni (cfr. ibidem, doc. n. 98), laddove si reputa provato, senza ombra di dubbio, il nesso causale tra la riferita condotta dell'Università e la grave patologia insorta nel Prof. xxxx.

  In tal senso, ivi infatti si legge che il grave stress cui il Prof. xxxx era stato sottoposto a seguito delle diverse e spiacevoli vicende giudiziarie che lo hanno visto coinvolto nel periodo 1994 - 2000 ha determinato la comparsa nel soggetto di gravi crisi di ansia con dispnea e somatizzazioni gastrointestinali nonché, “a causa del precoce pensionamento, una spiccata e netta sintomatologia depressiva con un vissuto negativo e la tendenza ad avere difficoltà relazionali, le quali si sono riverberate e ripercosse anche sulla sua famiglia" (cfr. ibidem).

  In particolare, il Prof. xxxxxxx ha riscontrato nel paziente la seguente sintomatologia: 1) ideazione prevalente sulla vicenda trascorsa in questi ultimi otto anni; 2) uno stato continuo di tensione con tachicardia e picchi d’ansia, soprattutto serotina; 3) attacchi dispnoici, che lo costringono a portare sempre con sé un  inalatore di Locabiotal; 4) disturbi della funzione visiva da probabile difetto circolatorio cerebrale; 5) disturbi del transito gastrointestinale con periodi alternati di diarrea e stitichezza; 6) diminuzione della funzionalità sessuale; 7) sonno disturbato con frequenti risvegli notturni.

  La valutazione medico-legale cui perviene il Prof. xxxxxx è la seguente: “Trattasi di Disturbo dell’Adattamento cronico con aspetti misti di ansia ed umore depresso (DSM - IV) che ha una invalidità biologica psichica del 20” (cfr. ibidem).

  La parte ricorrente, ferma restando una possibile diversa quantificazione (mediante espletanda C.T.U. medico-legale o anche in via equitativa), evidenzia che in applicazione dei coefficienti previsti nelle tabelle in uso presso i Tribunali (doc. n. 99) deriverebbeto conto della riscontrata percentuale di invalidità del 20%, un danno biologico pari ad € 35.316,40.-: somma che essa reputa debba essere corrisposta dall’Università e in ordine alla quale chiede, quindi, sia pronunciata sentenza di condanna.

  c) Danno morale.

  La parte ricorrente afferma che, in considerazione dell’eccezionale rilevanza del danno biologico subito dal ricorrente, si verserebbe in una fattispecie di rilevanza anche penale, e che da tale circostanza discenderebbe pure l’obbligo di risarcire nei confronti del Prof. xxxx anche danno morale, asseritamente consistente nel rilevante grado di sofferenza inflitta al Prof. xxxxxxxxxx,: sofferenza che essa afferma sia quantificabile in via equitativa in una percentuale pari al 75% del danno biologico e, dunque, in € 26.487,30.-

  Sempre secondo la parte ricorrente, il danno morale subito dovrebbe essere risarcito anche senza un espresso rinvio alla fattispecie di rilevanza penale e richiamano, a tale riguardo, le recenti sentenze secondo le quali la tradizionale e restrittiva lettura dell’art. 2059 cod. civ. in relazione all’art. 185 c.p.. dovrebbe essere superata, allorquando la lesione riguardi interessi costituzionalmente garantiti (cfr. sul punto, ad es., Corte Cost., 11 luglio 2003 n. 233 e Cass. Sez. II, 31 maggio 2003, nn. 8827 e 8828), con la conseguente, piena risarcibilità del danno non patrimoniale da inadempimento contrattuale, compreso l’inadempimento nel contratto di lavoro, con la fattispecie ricondotta a mobbing.

  d) Danno esistenziale

  La parte ricorrente evidenzia pure che, indipendentemente dalla sussistenza del danno biologico quale pregiudizio alla salute suscettibile di accertamento e di rilevazione medica risarcibile in via equitativa sulla base delle risultanze mediche medesime, la giurisprudenza ha evidenziato ulteriori profili di lesione che possono manifestarsi in rapporto alle molteplici esplicazioni della personalità umana.

  Tale posizione giurisprudenziale risulterebbe finalizzata ad apprestare una tutela giuridica per chi abbia subito un danno, che sia o meno suscettibile di accertamento medico, allo scopo di tutelare in senso pieno la persona, ossia in modo più aderente al dettato costituzionale e sempre più svincolato dalle ristrette ed anacronistiche maglie dell'art. 2059 cod. civ.

  La relativa tutela si sarebbe realizzata attraverso il riconoscimento della risarcibilità del danno esistenziale o danno alla vita di relazione.

  La parte ricorrente richiama in tal senso la ben nota sentenza di Cass., Sez. I, 7 giugno 2000 n. 7713 che riconosce pienamente la risarcibilità di tale voce di danno, delineandone una nozione in base alla quale esso ricomprende qualsiasi evento che, per la sua negativa incidenza sul complesso dei rapporti facenti capo alla persona, è suscettibile di ripercuotersi in maniera consistente e talvolta permanente sull’esistenza di questa.

  Sempre ad avviso della parte ricorrente, conseguirebbe da ciò il carattere decisivo di una valutazione non restrittiva degli eventi potenzialmente lesivi, non strettamente ancorata a valutazioni tecniche basate su parametri e tabellazioni, bensì capace di rilevare queste interferenze comunque negative e pregiudizievoli in senso ampio.

  Il danno in questione, infatti, si realizzerebbe – in buona sostanza - ogniqualvolta il lavoratore viene aggredito nella sfera della sua dignità e dell’immagine: e ciò consentirebbe, quindi – secondo la parte ricorrente – di superare le incertezze evocate dall’uso dell'aggettivo morale collocando più propriamente la previsione in un’ottica di immediata tutela dei valori della personalità che sono direttamente coinvolti dallo svolgimento della attività lavorativa.

  Né, sempre in tal senso, andrebbe sottaciuto che il mobbing è stato definito come violenza morale e che, pertanto, il danno esistenziale risulterebbe particolarmente congeniale a tale situazione, ancorchè in termini ancora non del tutto esaustivi.

  La parte ricorrente chiede, pertanto, che l’Università sia condannata a corrispondere al ricorrente, a tale specifico titolo di responsabilità, la somma di  € 200.000,00 salva la diversa maggiore o minore somma che sarà ritenuta di giustizia o anche equitativamente determinata ai sensi dell’art. 1226 cod.civ.

  La parte ricorrente formula, in subordine, varie istanze istruttorie.

  2.1. Si è costituita in giudizio l’Università Ca’ Foscari, la quale, ha in primo luogo rettificato – o, meglio, diversamente interpretato -  talune circostanze di fatto esposte nell’atto introduttivo del presente giudizio.

  Innanzitutto, la difesa dell’Università riferisce che in data 5 maggio 1994 il xxxxx ha lamentato con un proprio scritto indirizzato al Rettore l’avvenuta sua esclusione dalla Commissione giudicatrice per l'assunzione di un esperto collaboratore di madre lingua turca (cfr. doc. 8 di parte ricorrente).

  La medesima difesa afferma che, “tempestivamente”” (cfr. pag. 1 della propria  memoria dd. 28 settembre 2006), ossia l’11 gennaio 1994, fu convocato il Consiglio di Facoltà al quale, data l'importanza, delle questioni trattate, partecipò pure il Rettore,.

  L'ordine del giorno conteneva proprio l’esame della questione sottoposta dall’attuale ricorrente e nella seduta fu dato spazio all'intervento di questi (cfr. doc. 9 di parte ricorrente, pag. 6).

  Come specificamente illustrato dal Rettore nella lettera del 10 maggio 1994 in risposta alle censure formulate dal medesimo Prof. xxxx (cfr. ibidem, doc. 21), "il criterio seguito per la formazione di tali commissioni è stato quello di confermare, possibilmente, le commissioni a suo tempo costituite nell'ambito di ciascun Dipartimento per la designazione dei lettori a contratto secondo quanto previsto dall'apposito regolamento approvato nel 1990 dal senato accademico. La Commissione designata ai sensi di tale regolamento per la lingua turca e che nel marzo 1993 aveva proposto il lettore per il corrente anno accademico 1993/1994 (come fatto anche l'anno prima per l'anno accademico 1992/1993) era costituita, come Lei certamente saprà, dai proff. xxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxx, docenti del competente dipartimento di studi eurasiatici".

  La difesa dell’Università afferma, quindi, che il Direttore del dipartimento, Prof xxx, in ottemperanza al criterio testè descritto, aveva confermato i summenzionati nominativi in prossimità dell’emanazione del bando, salvo sostituire il Prof. xxxxxxx, che aveva rappresentato una propria indisponibilità al riguardo, con il Prof. xxxxx.

  Nella comunicazione esplicativa inviata al Prof. xxxx il Rettore evidenzia pure che la sua trovava, comunque, una “motivazione giuridicamente ineccepibile nella Sua relazione di affinità a una candidata alla selezione” (cfr. ibidem, doc. 21).l

  Tale circostanza è particolarmente valorizzata dalla difesa dell’Università al fine di smentire la fondatezza degli assunti del ricorrente secondo i quali sarebbero state sia ignorate le suesposte censure in ordine alla composizione della Commissione di cui trattasi, sia predisposte macchinazioni ai suoi danni.

  La difesa dell’Università evidenzia pure che con nota dd. 12 marzo 1994 indirizzata sempre al Rettore (cfr. ibidem, doc. 18), il Prof. xxxxx aveva formulato altre accuse idonee, in astratto, ad integrare fatti penalmente rilevanti (distrazione di fondi, prepotenze,minacce, ingiurie, gestione dispotica di cattedre, ricatti contro una collega, ecc.) a carico di taluni docenti.

  La presentazione, da parte di questi ultimi, di  una querela per diffamazione nei riguardi del medesimo Prof. xxxx dovrebbe, pertanto, riguardarsi – sempre ad avviso della difesa dell’Università – quale “fisiologica conseguenza” di tale episodio (cfr. pag. 4 della memoria dd. 28 settembre 2006 prodotta dalla difesa dell’Università, nonché doc.ti 23 e 24 di parte ricorrente).

  La medesima difesa rimarca che, se e’ vero che il Prof. xxx, all’esito del processo penale scaturitone, fu assolto, va nondimeno considerato che la stessa formula assolutoria fu decisa anche in virtù dell’applicazione dell’istituto dell’esimente putativa (cfr. artt. 59 e 596 cod. pen.) e che tale esito del giudizio venne pure confermato in sede di appello.

  In tal senso, quindi, è stato giudizialmente accertato che le condotte ritenute dal Prof. xxxxxx illecite (ossia le asserite distrazioni di fondi, le supposte minacce, i pretesi insulti, ecc.) avevano assunto tale connotato soltanto nella sua immaginazione, con la conseguenza che, avendo la falsata percezione della realtà contribuito ad alterare il processo di formazione della volontà dell’agente, non si poteva affermare che questi avesse nella specie inteso diffamare.

  A tal proposito la difesa dell’Università richiama ampie parti della sentenza resa al riguardo dal Pretore di Venezia, laddove in particolare si afferma (cfr. ivi, doc. 25 di parte ricorrente, pag. 23 e ss.) “che l'atteggiamento fisicamente aggressivo e costantemente cospiratorio (...tranelli,agguati) addebitato ai suoi colleghi nemici …” è “solo un’infondata preoccupazione del xxxx  che ha travisato alcuni fatti, e (che) di tale distorta visione è rimasta preoccupata la vittima. … E’ invece inverosimile che egli sia stato l’oggetto privilegiato di incomprensibili pulsioni aggressive di alcuni suoi colleghi, che peraltro avrebbero dovuto essere costantemente dediti a complottare contro di lui. … Lo sfogo del xxxxxxxxxxxx alla Prof.ssa      xxxxx e l’elezione della Prof.ssa xxxxxxxxxxxxxx (a) custode della sua verità testimoniano la reale e forte preoccupazione di un uomo che si sente insicuro e minacciato, e (che) di tale incombente minaccia si dà una spiegazione cercandola tra fatti e persone a lui ostili”: ossia, il xxx andava assolto in quanto, avendo travisato la realtà, “era stato il primo, in termini di disagio, paura e sofferenza, a pagare tale sua distorta visione delle cose”.

  La difesa dell’Università evidenzia, poi, che per quanto segnatamente attiene all’accusa di “dispostica e allegra gestione di cattedre”,  lo stesso Pretore di Venezia ha rilevato “che sul punto xxxxx, “l'accusa” l’ha lasciata senza specificazione di nomi” (cfr. ibidem, pag. 20).

  La medesima difesa afferma che anche dal procedimento penale scaturito dalla tempestiva trasmissione alla Procura della Repubblica da parte del Rettore degli atti aventi rilevanza penale ed avente ad oggetto l'accertamento del reato di calunnia riferito al Prof. xxxx, si evince la non veridicità delle affermazioni di quest’ultimo, posto che nella relativa sentenza si legge – tra l’altro – che “contrariamente a quanto obiettivamente insinuato nella lettera del xxxxx, non risulta che il Prof. xxxxxxx si sia appropriato, per fini personali,di denaro del seminario, né che egli abbia fatto uso del proprio potere discrezionale per finalità illecite o comunque per scopi diversi da quello per cui i poteri stessi gli furono conferiti” (cfr. doc. 29 di parte resistente, pag. 18).

  “In sintesi” – osserva sempre la difesa dell’Università – “una legittima scelta sull'utilità o meno di alcuni materiali didattici e sul loro acquisto - quindi sull'esercizio del  “potere discrezionale che pure spettava al prof. xxxxxx” (sempre doc. 29 pag. 18 xxxx) - aveva assunto le sembianze, nella mente dell'odierno ricorrente, di un'illecita distrazione di fondi” (cfr. pag. 6 e ss. memoria difensiva dell’università dd. 28 settembre 2006); e, quanto alla denuncia di presunti ricatti perpetrati ai danni di una collega, “ritiene il Collegio che le suddette affermazioni siano a tal punto vaghe e generiche da non mettere in grado l’Autorità Giudiziaria di avviare alcun procedimento penale a carico di chicchessia: ed invero il denunciante non offre elementi idonei per individuare chi sia la collega ricattata, quale sia il concorso nazionale asseritamente irregolare, a quando risalgono i fatti, e soprattutto chi siano gli autori dei ricatti” (cfr. doc. 29 di parte ricorrente, pag 35).

  Sempre secondo la prospettazione della difesa dell’Università, il ricorrente avrebbe pure fornito una ricostruzione fuorviante anche sugli  episodi che egli afferma si siano verificati nel corso delle riunioni del Consiglio di Facoltà.

  Come si è visto innanzi, il Prof. xxxx afferma che in occasione delle sedute di tale organo gli sarebbe stato impedito di  esprimere il proprio pensiero e che non abbiano trovato accoglimento le sue richieste di verbalizzazione:  ciò risulterebbe, peraltro, smentito dalla lettura della pag. 12 dello stesso atto introduttivo del presente giudizio, laddove si riferisce di una deposizione resa in sede penale dal Prof. Sergio Leone, membro del medesimo Consiglio, del seguente tenore: “Il Prof xxxx inviava lettere a tutti i componenti del Consiglio di Facoltà prima dei consigli di facoltà, dopo interveniva, leggeva le lettere”: ossia “il ricorrente assumeva di essere stato ridotto ad un forzato silenzio mentre risulta che egli aveva preso parte attiva ai dibattiti tenutisi negli organi di facoltà ed era stato posto nelle condizioni di esercitare tutte le prerogative spettategli anche in relazione ai propri stati di disagio (ex pluris ad es. il verbale della seduta dell' 11 gennaio 1994 del Consiglio della facoltà di Lingue e Letterature straniere pago 6 (doc. 9 xxx) ove si legge: “Interviene alla fine il prof xxxxxx che illustra in generale, la situazione personale di disagio in cui si è venuto a creare negli ultimi anni nel Corso di Laurea in Lingue e letterature Orientali e in particolare riguardo alla composizione . della commissione preposta a giudicare i candidati per il lettorato di lingua turca”” (cfr. pag. 8 della memoria defensionale dell’Università dd. 28 settembre 2006).

  La difesa dell’Università, nel richiamare quanto affermato a pag. 16 dell’atto introduttivo del presente giudizio, ossia che in una calle vicina a Campo San Polo il Prof Bellingeri, descritto come persona dedita all’alcol, sarebbe stato visto tirare l’attuale ricorrente dalla manica chiedendogli insistentemente di ritornare al Dipartimento di studi eurasiatici, rileva che l’episodio stesso risulterebbe in sé inconferente per l’economia della presente causa in quanto avvenuto al di fuori dell’ambito universitario e che, comunque, quanto accaduto evidenzierebbe – semmai – la volontà del Bellingeri di ripristinare i rapporti di studio con il proprio maestro, e non già la volontà di emarginarlo o di vituperarlo.

  Ancora una volta, quindi, la percezione erronea del dato reale aveva fatto sì che il xxxx avesse reputato vessatorio e minaccioso un comportamento, al più, “esuberante e stravagante” (cfr. pag. 9 della memoria defensionale dell’Università dd. 28 settembre 2006).

  La difesa dell’Università, dopo aver ricordato che il Prof. xxx sarebbe stato costretto prima a cambiare Dipartimento di afferenza (cfr. doc. 84 di parte ricorrente) e, quindi, a dimettersi dall’impiego universitario (cfr. ibidem, doc.ti 3 e 4), e che nella prospettazione del medesimo ricorrente tutto ciò sarebbe avvenuto senza che l’Università medesima tutelasse la sua persona, evidenzia l’intrinseca contraddizione tra le inequivoche affermazioni dello stesso xxx di “respirare un clima di libertà e di non provare più disagio nel nuovo luogo di lavoro” (cfr. pag. 19 dell’atto introduttivo del presente giudizio) con  la sua volontà di dimettersi, comunque, dall’impiego in relazione al disagio da lui subito.

  La medesima difesa afferma, altresì, che il xxxx “richiede … all'interprete della domanda di collocamento (in quiescenza) un’operazione divinatoria. Dal fatto che la richiesta di dimissioni contenesse l'aggiunta scritta a mano a mano “per volontarie dimissioni” egli deduce che la volontà persecutrice  dell’Università, materializzatasi in un’anonima dipendente, abbia fino alla fine tentato di imporre la propria forza. orza. E' molto più semplice ritenere che la dipendente cui il ricorrente presentò la domanda abbia solo richiesto la specificazione del titolo :in base al quale si richiedeva  il collocamento a riposo , dato che non era contenuto nella richiesta originaria del Prof. xxx” (cfr. pagg. 10 e 11 della memoria dell’Università depositata il 28 settembre 2006).

  Pertanto – sempre secondo la prospettazione della difesa dell’Università – “sulla base della corretta ricostruzione dei fatti …, poiché “l’esito assolutorio per il xxx non comporta un giudizio di colpevolezza per nessuno”, come traspare chiaramente  anche dalle comunicazioni dei docenti (cfr. doc.ti 3, 4, 5, 6, 7, 8 e 9 di parte resistente) che il Rettore aveva interpellato affinché fornissero delucidazioni sui fatti contestati a seguito del passaggio in giudicato di una delle due  predette sentenze penali, le deduzioni del medesimo Prof. xxx evidenzierebbero un dato già riscontrato nelle sentenze stesse”, ossia che “il Prof. xxxx, nella sua carriera lavorativa, avrebbe  manifestato in diverse occasioni la tendenza a fraintendere dati dell’esperienza reale (il comportamento dei colleghi ed in particolare ai fini che qui rilevano, degli organi universitari) ed a trasfigurarli in eventi da lui immaginati e temuti” (cfr. pag. 11 della memoria dell’Università depositata il 28 settembre 2006).

  2.2. La difesa dell’Università eccepisce, comunque, l’irricevibilità del ricorso in dipendenza dell’intervenuta inoppugnabilità, per decorso del termine decadenziale di cui all’art. 21, primo comma, della L. 6 dicembre 1971 n. 1034, di tutti gli atti da lui considerati al fine della prospettazione del mobbing ai suoi danni (costituzione di commissioni concorsuali, atti conclusivi di procedimenti reputati illegittimi, silenzio dell’Università a fronte di richieste di attivarsi per l’emanazione di provvedimenti di varia natura, trasferimento in altro Dipartimento, collocazione in quiescenza, ecc.), nonché il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo.

  In via subordinata, la difesa dell’Università conclude per la reiezione nel merito del ricorso, reputando che non sia stata fornita la prova degli elementi che, nella specie, integrerebbero la figura del mobbing e che il comportamento complessivamente tenuto dall’Università medesima sia immune da qualsivoglia censura sotto il profilo sia della legittimità che della liceità.

  Sotto il profilo dei danni richiesti dal ricorrente, la difesa dell’Università esclude con ampia argomentazione la loro sussistenza, ed eccepisce comunque la prescrizione del relativo credito.

  3. Alla pubblica udienza del 12 ottobre 2006 la causa è stata trattenuta per la decisione.

  4.1. Tutto ciò premesso, il Collegio, avuto riguardo alla descrizione dei fatti di causa, non può che dichiarare in proposito il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo.

  4.2. Va opportunamente evidenziato che le parti, pur rimanendo ferme nelle diverse conclusioni da esse rassegnate e che – come ben si è visto – scaturiscono da un’insanabile divergenza nell’interpretazione dei fatti di causa, concordano comunque, in linea strettamente teorica, sugli elementi che un’ormai concorde giurisprudenza – sia amministrativa, che ordinaria - richiede in astratto agli effetti della configurabilità del c.d. mobbing a carico di un dipendente.

  In tal senso, quindi, è assodato che il cosiddetto mobbing consiste  in una condotta del datore di lavoro sistematica e protratta nel tempo, con le caratteristiche della persecuzione, finalizzata all’emarginazione del lavoratore e che concreti, per le sue caratteristiche vessatorie, una lesione dell’integrità fisica e alla personalità morale del prestatore di lavoro (cfr., ex multis, Cass. Sez. Lav., 6 marzo 2006 n. 4774).

  Il mobbing può essere pure efficacemente descritto quale  condotta del datore di lavoro sistematica nel tempo e diretta all'emarginazione del lavoratore, e si qualifica per il nesso che lega i diversi atti e comportamenti del primo in un disegno unitario finalizzato a tale scopo. La sua sussistenza deve essere desunta da una analisi complessiva del quadro in cui si esplica la prestazione del lavoratore, attraverso indici presuntivi quali la reiterazione di richiami e sanzioni disciplinari o la sottrazione di vantaggi precedentemente acquisiti, che avvengano con carattere di ripetitività (così T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. I, 21 luglio 2006 n. 1844), ovvero quale situazione illecita di conflittualità sistematica, persistente ed in costante progresso all'interno del luogo di lavoro, in cui gli attacchi reiterati e sistematici hanno lo scopo di danneggiare la salute, i canali di comunicazione, il flusso di informazioni, la reputazione e la professionalità della vittima, sicché quest'ultima può pretendere il risarcimento da parte dell'autore delle condotte illecite del danno biologico, morale ed esistenziale; in altri termini, deve trattarsi di diffusa ostilità proveniente dall'ambiente di lavoro che si realizza in una pluralità di condotte, frutto di una vera e propria strategia persecutoria, piuttosto che in un singolo comportamento, sia pure reiterato (così T.A.R. Campania, Salerno, Sez. I, 29 giugno 2006 n. 881).

  Ciò che, dunque, distingue il mobbing dalle mere situazioni di conflittualità interpersonali che caratterizzano qualsiasi ambiente di lavoro è la sistematicità dei comportamenti vessatori e il reiterarsi nel tempo, nonché l'unitaria e intenzionale finalizzazione di tali comportamenti allo svilimento della professionalità del lavoratore e alla mortificazione della sua dignità (cfr., puntualmente, Tribunale Milano, 4 gennaio 2006); ossia, detto altrimenti, la fattispecie del mobbing presuppone, nell'accezione che va consolidandosi (pur con varietà di accentuazioni) in dottrina e giurisprudenza, una durevole serie di reiterati comportamenti vessatori e persecutori, tali da creare una situazione di sofferenza nel dipendente, che si concreta in un danno ingiusto, incidente sulla persona del lavoratore e, in particolare, sulla sua sfera mentale, relazionale e psicosomatica.

  Pertanto, per aversi mobbing ci si deve trovare di fronte ad una serie prolungata di atti volti ad “accerchiare” la vittima, a porla in posizione di debolezza, sulla base di un intento persecutorio sistematicamente perseguito (cfr. T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III, 25 giugno 2004 n. 6254).

  Autore del mobbing (o più soggetti in concorso fra loro) può essere chiunque (sia esso solo un opportunista, o autoritario di carattere, sia esso, ben oltre le prime apparenze, anche un malvagio e perverso) che, servendosi di un potere - vantato o reale - invade sistematicamente e consapevolmente la sfera privata della vittima, con azioni che possono dirigersi contro la persona del soggetto da colpire, contro la sua funzione lavorativa, contro il suo ruolo e contro lo status della vittima: “il tutto finalizzato ad un progressivo isolamento fisico, morale e psicologico dall'ambiente di lavoro, sì da lasciare la vittima nella convinzione che è solo colpa sua se non vale nulla, per cui è meglio che se ne vada”  (così T.A.R. Lazio, Roma, Sez. I, 6 giugno 2006 n. 4340).

  Né va sottaciuto che le controversie dirette ad accertare fattispecie di mobbing comportano per loro stessa natura una penetrazione psicologica dei comportamenti, al di là di atti che possono presentarsi anche come legittimi e inoffensivi, in modo da indagarne il carattere eventualmente vessatorio, ossia dolosamente diretto a svilire, nuocere o ledere la dignità personale e professionale di un dipendente; in tal senso, quindi, la coscienza e volontà del mobber si pone rispetto al fatto non solo come elemento essenziale e costitutivo dell'illecito, ma come elemento idoneo persino a darvi significato: in altri termini, senza il dolo specifico del mobber gli atti potrebbero tutti apparire legittimi e leciti (cfr. Tribunale Trieste, 10 dicembre 2003).

   L’ illecito da mobbing rappresenta, innanzitutto, una violazione dell’obbligo di sicurezza posto dall’art. 2087 cod. civ. a carico del datore di lavoro, e si può realizzare con comportamenti materiali o provvedimenti del datore di lavoro anche indipendentemente dall’inadempimento di specifici obblighi contrattuali previsti dalla disciplina del rapporto di lavoro subordinato (Cass. Sez. Lav. n. 4774 del 2006 cit.), fermo restando che nell'ipotesi in cui la tutela invocata attenga a diritti soggettivi derivanti direttamente dal medesimo rapporto di lavoro, lesi da comportamenti che rappresentano l'esercizio di tipici poteri datoriali, in violazione non solo del principio di protezione delle condizioni di lavoro, ma anche della tutela della professionalità prevista dall'art. 2103 cod. civ., la fattispecie di responsabilità va ricondotta alla violazione degli obblighi contrattuali stabiliti da tali norme, indipendentemente dalla natura dei danni subiti dei quali si chiede il ristoro e dai riflessi su situazioni soggettive (quale il diritto alla salute di all’art. 32 Cost.) che trovano la loro tutela specifica nell'ambito dei rapporto obbligatorio (cfr. sul punto Cass. SS.UU. 4 maggio 2004 n. 8438).

  Detto altrimenti, la responsabilità da mobbing può dar luogo ad un danno esistenziale o danno alla vita di relazione, di natura sia contrattuale che extracontrattuale, che si realizza ogniqualvolta il lavoratore venga aggredito nella sfera della dignità senza che tale aggressione offra sbocchi per altra qualificazione risarcitoria (Tribunale Como, 22 maggio 2001); e se, dunque, la responsabilità del datore di lavoro assume, al riguardo, connotazione sia contrattuale a’ sensi dell’art. 2087 cod. civ., sia extracontrattuale a’ sensi dell’art. 2043 cod. civ., il regime di ripartizione dell'onere della prova è quello più favorevole al dipendente e, pertanto, quello contrattuale; conseguentemente spetta al datore di lavoro dimostrare di aver posto in essere tutte le misure necessarie per tutelare l’integrità psico-fisica del dipendente, mentre spetta al lavoratore dimostrare l’esistenza del nesso causale tra l'evento lesivo e il comportamento del datore di lavoro (così Tribunale Forlì, 15 marzo 2001; in termini del tutto consonanti, T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III, 22 giugno 2004 n. 6254 afferma che in tema di mobbing è ammissibile il concorso tra la responsabilità aquiliana ex art. 2043 cod. civ. e la responsabilità specifica ex art. 2087 cod. civ. - nella parte cui obbliga il datore di lavoro ad adottare tutte le misure necessarie a tutelare la personalità morale dei prestatori di lavoro - anche alla luce dell’obbligo di eseguire il contratto secondo buona fede, e che nell’ipotesi in cui il ricorrente faccia valere un'ipotesi di responsabilità al tempo stesso contrattuale ed extracontrattuale della P.A. resistente trova in ogni caso applicazione la disciplina dell'onere probatorio più favorevole al ricorrente, ossia quello contrattuale, con la conseguenza che spetta al datore di lavoro dimostrare di aver posto in essere tutte le misure necessarie per tutelare l'integrità psico-fisica del dipendente).

  4.3. Sussiste, viceversa, un dissenso di fondo tra le parti in ordine all’individuazione della giurisdizione tenuta a pronunciarsi sulla vicenda dianzi descritta.

  La parte ricorrente, nell’atto introduttivo del presente giudizio, fonda nella specie la sussistenza della giurisdizione di questo giudice avuto riguardo alla predetta sentenza di Cass. SS.UU. 4 maggio 2004 n. 3438, in forza della quale in tema di azione promossa da un dipendente nei confronti del suo datore di lavoro pubblico per il risarcimento del danno all’integrità psicofisica derivante da condotte antigiuridiche configuranti fattispecie di mobbing, il riparto di giurisdizione risulterebbe strettamente subordinato all’accertamento della natura giuridica dell’azione di responsabilità in concreto proposta: “e ciò in quanto, se trattasi di azione contrattuale, la cognizione della domanda rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo - allorquando la controversia abbia per oggetto una questione relativa ad un periodo del rapporto di lavoro antecedente al 30 giungo 1998 - mentre, se trattasi di azione extracontrattuale, la giurisdizione appartiene al giudice ordinario”., con la precisazione che “al fine di tale accertamento, deve ritenersi proposta l’azione di responsabilità extracontrattuale tutte le volte che non emerga una precisa scelta del danneggiato, mentre si può ritenere proposta l'azione di responsabilità contrattuale quando la domanda di risarcimento del danno sia espressamente fondata sull’inosservanza, da parte del datore di lavoro, di una puntuale obbligazione contrattuale” (cfr. ivi).

  La parte ricorrente afferma, quindi, che “nella fattispecie che ci occupa, poiché la controversia ha ad oggetto un periodo del rapporto di lavoro antecedente alla novella del 31 marzo 1998 n. 80 e poiché viene dedotta una responsabilità di natura contrattuale della resistente Università, sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo a conoscere del presente giudizio” (cfr. pag. 35 del ricorso).

  Il Collegio, per parte propria, dopo aver premesso che per effetto del testè richiamato D.L.vo 31 marzo 1998 n. 80 il rapporto di impiego dei docenti universitari non è stato “privatizzato”  - o, meglio, “contrattualizzato” - e che pertanto rimane assoggettato alla giurisdizione di questo giudice (cfr. al riguardo, ora, il combinato disposto degli artt. 63, comma 4, e 3, comma 2, del D.L.vo 30 marzo 2001 n. 165), evidenzia che la parte ricorrente muove da un presupposto palesemente erroneo, ossia che la responsabilità dell’Università nella specie invocata assuma le connotazioni proprie della responsabilità contrattuale: il che - per l’appunto - non è, con la conseguenza che dalla sussistenza di una responsabilità extracontrattuale discende la necessità di rimettere la causa in esame alla giurisdizione del giudice ordinario.

  Nel caso di specie, infatti, le prospettazioni della ricorrente risultano, all’evidenza, per ampia parte finalizzate a far valere una sorta di culpa in vigilando dell’Università, laddove questa non avrebbe impedito comportamenti illeciti di propri dipendenti: comportamenti  che, ove provati nella loro materialità, risulterebbero per certo ascrivibili ad una responsabilità extracontrattuale dei dipendenti medesimi,. in quanto configgenti con la generale norma del neminem laedere contenuta nell’art. 2043 cod. civ.

  Del resto, e ben vedere, i pregiudizi subiti dal Prof. xxxx non si sostanziano - per la maggior parte delle fattispecie da lui illustrate in giudizio come costitutive del mobbing da lui asseritamente subito - in una pretesamente distorta applicazione della disciplina propria del rapporto di lavoro che lo riconnetteva all’Università, ma traggono origine in via esclusiva da fatti che, seppur accaduti nel contesto dello svolgimento da parte del Prof. xxxx delle proprie mansioni lavorative e formalmente ascrivibili a soggetti che hanno agito nel medesimo contesto quali veri e propri “organi” dell’Amministrazione universitaria, non hanno comportato nei confronti del medesimo Prof. xxxx l’adozione di specifici provvedimenti illegittimi, ma la ben più generica realizzazione di comportamenti illeciti, in ordine ai quali la naturale sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario si ricava pure in via sistematica, avuto riguardo anche alla stessa, fondamentale distinzione tra “atti” e “comportamenti” introdotta nell’ordinamento per effetto della ben nota sentenza della Corte Costituzionale n. 204 dd. 6 luglio 2004.

  Orbene, per siffatte evenienze la giurisprudenza unanimemente riconduce il danno morale, biologico ed esistenziale preteso dal pubblico dipendente che si reputa vulnerato da mobbing a conseguenza di un illecito extracontrattuale ex art. 2043 cod. civ., in ordine al quale sussiste – quindi – la giurisdizione del giudice ordinario (cfr., ad es., Cass., SS.UU., 19 giugno 1996 n. 5626), posto che il rapporto di pubblico impiego ha costituito la mera occasione per le intimidazioni e le minacce lesive dell’integrità psico-fisica del dipendente medesimo (cfr. sul punto, ad es., T.A.R. Liguria, Sez. I, 12 marzo 2003 n. 302).

  Il Collegio, allo stesso tempo, non sottace che nelle varie componenti del danno complessivamente dedotto in giudizio dal Prof. xxxxx, è pure presente l’allegazione di un danno patrimoniale discendente dalla collocazione in congedo anticipata proprio per effetto del mobbing da lui asseritamente subito.

  A tale riguardo, invero, va evidenziato che il danno testè descritto risulterebbe in astratto riferito anche ad una specifica attività provvedimentale dell’Amministrazione universitaria, la quale a suo tempo ebbe dunque a valutare una ben precisa  istanza di cessazione dal servizio prodotta dal medesimo Prof. xxxx, determinandosi in conformità ad essa: ma, ragionevolmente, l’attuale ricorrente non può, ora, chiedere i danni pretesamente discendenti da un provvedimento da lui chiesto ed ottenuto in totale conformità alla domanda presentata; né va sottaciuto – in via, oltre a tutto, assorbente – che al momento della notificazione dell’atto introduttivo del presente giudizio (ottobre 2005) risultavano già consunti i termini decadenziali di cui all’art. 21, primo comma, della L. 6 dicembre 1971 n. 1034 come modificato dall’art. 1 della 21 luglio 2000 n. 205 per la proposizione della domanda di annullamento del provvedimento di cui trattasi (risalente, a sua volta, al 1997): domanda che costituisce, come è ben noto, un presupposto indefettibilmente necessario per poter radicare innanzi a questo stesso giudice l’ulteriore istanza risarcitoria del danno (cfr. su tale specifico punto, ad es., Cons. Stato, A.P. 26 marzo 2003 n. 4).

  Quest’ultima notazione soccorre, all’evidenza, anche per i danni patrimoniali asseritamente riferibili agli altri provvedimenti intervenuti nella vicenda che riguarda l’attuale ricorrente (esclusione dalla Commissione per l’assunzione del lettore, trasferimento ad altro Dipartimento, ecc.), in quanto risalenti a data addirittura anteriore al 1997.

  In ragione di tutto ciò, quindi, il Collegio non può che dichiarare il difetto della giurisdizione del giudice amministrativo in ordine al ricorso in epigrafe.

  5. Sussistono idonei motivi per compensare integralmente tra le parti le spese e gli onorari del giudizio.


P.Q.M.

  Il Tribunale amministrativo regionale per il Veneto, prima sezione, definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe, dichiara il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo.

   Compensa integralmente tra le parti le spese e gli onorari del giudizio.

   Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

  Così deciso in Venezia, nella Camera di consiglio del 12 ottobre 2006.

  Il Presidente      l’Estensore


  Il Segretario



SENTENZA DEPOSITATA IN SEGRETERIA

il……………..…n.………

(Art. 55, L. 27/4/1982, n. 186)

Il Direttore della Prima Sezione








T.A.R. per il Veneto – I Sezione                                            n.r.g. xxxxxx





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