Nuova pagina 1
RESISTENZA A PUBBLICO UFFICIALE E SCRIMINANTI
CAUSE DI NON PUNIBILITA' - OLTRAGGIO
Cass. pen. Sez. VI, (ud. 21-11-2005) 19-01-2006, n. 2263
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DERIU Luciano - Presidente
Dott. OLIVA Bruno - Consigliere
Dott. MILO Nicola - rel. Consigliere
Dott. IPPOLITO Francesco - Consigliere
Dott. CONTI Giovanni - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
sul ricorso proposto da:
...OMISSISVLD..., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza 28/11/2003 della Corte d'Appello di Bari;
Visti gli atti, la sentenza denunziata e il ricorso;
Udita in pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere Dr. Nicola Milo;
Udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale Dr. MELONI V., che ha concluso per il rigetto del ricorso;
Udito il difensore avv. Caudullo R., che ha concluso per l'accoglimento del ricorso.
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
1- Il Tribunale di Foggia - Sezione di Trinitapoli -, con sentenza 12/06/2002, aveva dichiarato ...OMISSISVLD... colpevole del delitto di resistenza a p.u., commesso il 27/08/1999, e lo aveva condannato alla pena di mesi otto di reclusione.
2- La Corte di Appello di Bari, investita dal gravame dell'imputato, con sentenza 28/11/2003, in parziale riforma di quella di primo grado, concedeva all'imputato le circostanze attenuanti generiche, ritenute prevalenti sulla contestata recidiva, e riduceva la pena a mesi quattro di reclusione.
Rilevava, in rito, la Corte territoriale che la asserita nullità connessa alla citazione dell'imputato dinanzi al giudice di primo grado, per mancato rispetto del termine legale di comparizione, era stata sanata dalla regolare comparizione del medesimo imputato, che nulla aveva eccepito al riguardo; nè ricorreva un'ipotesi di regressione del processo alla fase delle indagini preliminari, dal momento che il mancato rispetto del termine di comparizione non determinava la nullità assoluta del decreto di citazione a giudizio.
Ricostruiva, poi, così i fatti: il C., sorvegliato speciale di p.s. con obbligo di soggiorno nel comune di (OMISSIS), era stato fermato dai Carabinieri in una zona che "appariva" rientrare nel territorio di altro comune e, condotto in caserma per i relativi accertamenti, era stato "temporaneamente ammanettato", perchè alcuni militari avevano dovuto attendere ad altre esigenze di servizio; nel mentre era in tale stato di restrizione nella sala d'aspetto della caserma, il C. aveva chiesto di andare in bagno e, accompagnato dai carabinieri N. e T. che gli avevano tolto le manette, era riuscito a liberarsi - con spintoni - dalla presa dei militari e, scavalcando una finestra, si era dato alla fuga. Riteneva quindi che, pur essendo discutibile la legittimità del mezzo di costrizione a cui i CC. avevano fatto ricorso (si era poi accertato che non v'era stata alcuna violazione degli obblighi connessi alla sorveglianza speciale), doveva escludersi la esimente dell'atto arbitrario, perchè l'iniziativa dei pp.uu., alla quale peraltro l'imputato non aveva immediatamente reagito, non era stata ispirata da vessazione o sopruso, ma soltanto dall'esigenza di tenere sotto stretto controllo il C., la cui successiva condotta violenta verso i carabinieri, nel mentre questi erano nel loro esercizio funzionale, aveva integrato il reato di resistenza.
3- Ha proposto ricorso per cassazione l'imputato, deducendo: 1) inosservanza della legge processuale per palese violazione del diritto di difesa nella celebrazione del giudizio di primo grado, non essendogli mai stato notificato regolarmente il decreto di citazione e, in particolare, quello per l'udienza del 18/12/2001 gli era stato notificato fuori termine (24/10/2001), nè la sua presenza in udienza aveva sanato il vizio procedurale, che incideva direttamente sulla vocatio in iudicium; 2) inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, considerato che l'iniziativa dei carabinieri di ammanettarlo era stata comunque illegittima e che egli, senza porre in essere alcun atto di violenza, si era limitato a fuggire per riconquistare la libertà che gli era stata illegittimamente compressa; 3) mancanza di motivazione sulle ragioni che lo avevano indotto a darsi alla fuga.
4- Il ricorso è fondato per le ragioni di seguito specificate.
4a- Osserva, preliminarmente, la Corte che il denunciato vizio processuale relativo alla irregolare notifica del decreto di citazione a giudizio in primo grado, per mancato rispetto del termine di comparizione, non ha negativamente inciso sul concreto esercizio del diritto di difesa dell'imputato, considerato che la nullità della notificazione è rimasta sanata ai sensi dell'art. 184 c.p.p..
Ed invero, dopo diversi differimenti del dibattimento di primo grado, il giudice, all'udienza del 10/10/2001, dispose la rinnovazione della notifica del decreto di citazione all'imputato per l'udienza del 18 dicembre successivo. La notifica fu eseguita in data 24/10/2001 e, all'udienza del 18/12/2001, sia l'imputato che il suo difensore di fiducia, entrambi presenti, nulla eccepirono sul mancato rispetto del termine di comparizione (giorni 60); il dibattimento proseguì regolarmente nelle udienze successive, sino a quella conclusiva del 12/06/2002, e, nel corso delle stesse, l'imputato personalmente e il suo difensore affrontarono il merito del processo, senza sollevare mai la citata questione in rito. Il vizio di notifica del decreto di citazione non refluisce sulla sua validità e la comparizione dell'imputato in udienza sana, ai sensi dell'art. 184 c.p.p., comma 1, la eventuale nullità della notificazione del decreto medesimo, a condizione che sia stato conseguito lo scopo sostanziale dell'atto, cioè la conoscenza da parte dell'imputato (e del suo difensore) del capo di imputazione e del procedimento per il quale si viene citati.
Tale scopo viene certamente raggiunto con la notifica del decreto di citazione, la quale instaura comunque il rapporto processuale, a prescindere dal rispetto del termine di comparizione, fissato nel solo interesse dell'imputato, che con il suo comportamento concludente dimostra di non avere concretamente subito pregiudizi nel diritto di difesa. E' quanto si è verificato nel caso in esame.
E' il caso, inoltre, di rilevare che la mancata osservanza del termine di comparizione non costituisce causa di nullità del decreto che dispone il giudizio, perchè non incide sulla vocatio in iudicium, che conserva comunque la sua validità, e non può quindi sostenersi la tesi, implicitamente prospettata dal ricorrente, che il procedimento sarebbe dovuto regredire alla fase precedente.
4b- Quanto al merito della vicenda, osserva la Corte che i fatti, così come ricostruiti, evidenziano la ricorrenza, nella specie, della causa di non punibilità di cui al D.Lgs. n. 288 del 1944, art. 4.
In punto di fatto, si è acclarato che il C., sospettato di avere violato la normativa sulla sorveglianza speciale di p.s. con obbligo di soggiorno, sospetto rivelatosi successivamente del tutto infondato, era stato, il 27/08/1999, fermato dai Carabinieri e condotto in caserma per i relativi accertamenti; i militari, una volta giunti in caserma, dovendo fare fronte al altre asserite esigenze di servizio, avevano soprasseduto a verificare la posizione del C. e, in attesa di tale verifica, lo avevano sostanzialmente arrestato, ponendogli le manette ai polsi e trattenendolo - in tale stato - nell'atrio della caserma; l'imputato, però, dopo avere apparentemente tollerato per un po' tale situazione, era riuscito, col pretesto di doversi recare in bagno, a farsi togliere le manette e, quindi, spintonando i due Carabinieri che lo sorvegliavano, a fuggire attraverso una finestra. E' indubbio che la condotta tenuta, nella circostanza, dal C. integri la materialità del delitto di resistenza a pubblico ufficiale, considerato che, attraverso il ricorso ad una sia pure limitata violenza (spintoni), rappresentò un ostacolo all'attività d'ufficio in atto dei due militari addetti al controllo. Non può, tuttavia, prescindersi dal contesto in cui maturò il comportamento dell'imputato, il quale chiaramente avvertì l'iniziativa arbitraria dei pubblici ufficiali e reagì ad essa nell'unica maniera che il caso gli suggeriva, per porre fine ad una situazione definita eufemisticamente dal giudice a quo "discutibile" ed "eccessiva", ma in realtà palesemente illegale e mortificante.
L'istituto della reazione legittima all'atto arbitrario del pubblico ufficiale, introdotto dal codice Zanardelli, poi soppresso dal codice Rocco ed infine ripristinato con il richiamato D.Lgs. n. 288 subito dopo la caduta del regime fascista, si ispira alla tutela della libertà morale del cittadino, ossia al riconoscimento della sua reazione psicologica a fronte di una sopraffazione, che ha il diritto di non subire passivamente.
Tale causa di non punibilità presuppone, secondo la giurisprudenza maggioritaria, non soltanto l'illegittimità dell'atto (viziato da incompetenza, violazione di legge, eccesso di potere), ma un quid pluris, identificabile nell'atteggiamento del pubblico ufficiale che compie l'atto, caratterizzato da capriccio, malanimo, dispetto, sopruso, ostilità, derisione, prepotenza. Questa interpretazione, condivisa dalla gravata decisione, esalta, accanto al dato oggettivo dell'illegittimità dell'atto, quello soggettivo del p.u. e non prende affatto in considerazione la posizione del soggetto privato, alla quale soprattutto deve essere dato il giusto rilievo, proprio per coglierne la proiezione psicologica nella dinamica della condotta incriminata.
Devesi, quindi, ritenere, seguendo un percorso ermeneutico più equilibrato e più aderente ai valori di uno Stato democratico e ai principi di reciproco rispetto tra gli organi di questo e i cittadini, che l'eccesso arbitrario rileva essenzialmente nella sua oggettività e non tanto nell'atteggiamento psicologico del p.u., difficile - per altro - da identificare da parte del soggetto privato; in sostanza, è al comportamento del p.u., obiettivamente considerato, che deve aversi primario riguardo e verificare se lo stesso venga percepito dall'osservatore avveduto come manifestazione di un atteggiamento psicologico improntato a prepotenza, sopruso, capriccio, malanimo, sì da giustificare, in analogia allo "stato d'ira determinato da un fatto ingiusto altrui" (art. 599 c.p., comma 2), la reazione immediata da parte di chi detto atteggiamento subisce e ne avverte la profonda ingiustizia.
Il doppio richiamo, contenuto nel D.Lgs. n. 288, art. 4, all'eccesso dai limiti delle proprie attribuzioni e all'atto arbitrario del pubblico ufficiale ("...eccedendo con atti arbitrali i limiti delle sue attribuzioni") non impone, come ha rilevato il Giudice delle leggi (C. Cost. sentenza n. 140/1998), "di costruire l'arbitrarietà come un quid pluris diverso e ulteriore rispetto all'eccesso delle attribuzioni, riferito, sotto il profilo oggettivo, alle modalità di esercizio delle funzioni e sorretto, sotto l'aspetto soggettivo, dalla dolosa consapevolezza dell'illegittimità e dell'arbitrarietà del proprio comportamento. Anche alla stregua della stessa interpretazione letterale delle espressioni usate dall'art. 4, può ragionevolmente sostenersi che arbitrarietà ed eccesso dalle attribuzioni esprimono il medesimo fenomeno, sotto il profilo, rispettivamente, delle modalità con cui il pubblico ufficiale ha dato esecuzione all'atto illegittimo e della illegittimità dell'atto in sè considerato...", sino a giungere alla conclusione che anche la mera scorrettezza e la villania delle modalità con cui gli atti del p.u., anche se di per sè conformi a legge, vengono posti in essere si traducono in un eccesso dai limiti delle sue attribuzioni e concretano l'arbitrarietà.
Tale interpretazione è in linea con la normativa legislativa che disciplina (D.P.R. n. 3 del 1957, art. 13, impianto ispiratore della L. n. 241 del 1990) i comportamenti dei pubblici impiegati e i rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione, con le ragioni storico-politiche che hanno indotto il legislatore a reintrodurre nell'ordinamento penale, sin dal 1944, l'esimente dell'atto arbitrario e con gli interventi della Corte Costituzionale volti a rendere le norme del codice penale sui delitti dei privati contro la pubblica amministrazione compatibili con l'assetto dei rapporti tra autorità e cittadino propri di un ordinamento democratico (cfr. anche sentenza C. Cost. n. 341 del 1994). Alla luce dei valori espressi dalla nostra Costituzione, il rapporto tra Amministrazione e cittadino non deve risolversi in un rapporto autoritario e d'imperio, ma in un rapporto funzionale alla cura degli interessi del cittadino, i cui diritti e la cui dignità, quale che sia il concreto contesto, non devono mai essere mortificati o calpestati.
Va aggiunto, inoltre, che deve sussistere un rapporto di causalità psichica tra l'eccesso arbitrario del p.u. e la reazione del privato, nel senso che il comportamento di quest'ultimo deve essere determinato dalla condotta oggettivamente non corretta del primo, avvertita come ingiusta e sopraffattrice.
Ciò posto, non può esservi dubbio che, nel caso in esame, l'iniziativa dei Carabinieri di ammanettare nell'atrio della caserma il C. e di lasciarlo in tale stato, in attesa di potere espletare gli accertamenti per stabilire se il predetto avesse o no violato gli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale di p.s. con obbligo di soggiorno, integri gli estremi dell'atto arbitrario: il sostanziale arresto, al di fuori di ogni regola, di una persona, prima ancora di accertare se la stessa avesse effettivamente contravvenuto agli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale, circostanza questa rivelatasi - poi - del tutto infondata, è certamente atto illegittimo e lesivo della dignità umana e non può non essere avvertito come tale dalla persona che ne è destinataria.
Trova, pertanto, giustificazione la reazione del C. che, col pretesto di dovere andare in bagno, convinse i militari a liberarlo delle manette e, approfittando della maggiore libertà di movimento, si divincolò con spintoni dai suoi sorveglianti e riuscì a ruggire.
Trattasi di reazione legata da nesso di causalità all'arbitrio posto in essere dai pubblici ufficiali e a nulla rileva che non sia stata contestuale all'ammanettamento, ma sia intervenuta poco dopo, quando comunque lo stato di illegittima restrizione della libertà, senza mai subire alcuna soluzione di continuità, era ancora in atto.
L'impugnata sentenza, pertanto, deve essere annullata senza rinvio perchè il fatto non costituisce reato.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata, perchè il fatto non costituisce reato.
Così deciso in Roma, il 21 novembre 2005.
Depositato in Cancelleria il 19 gennaio 2006
Nessun commento:
Posta un commento