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Cassazione: non può essere licenziato il lavoratore che si assenta senza
preavviso
La Sezione Lavoro della Corte di Cassazione con la sentenza 7600/08 ha
stabilito essere illegittimo il licenziamento del lavoratore colpevole
di essersi assentato dal posto di lavoro senza chiedere il permesso
tanto più, se prima di tale circostanza, lo stesso aveva mantenuto una
condotta irreprensibile
Cass. civ. Sez. lavoro, 20-03-2008, n. 7600
Svolgimento del processo
Con ricorso ex art. 414 cod. proc. civ.,
dinanzi al Tribunale-Giudice del lavoro di Roma B.M. conveniva in
giudizio la s.p.a (Lpd) - alle cui dipendenze prestava lavoro in qualità
di "operatore di esercizio" con mansioni di recapito di corrispondenza -
esponendo che: -) in data 6 febbraio 2000 gli era stato irrogata la
sanzione disciplinare del licenziamento senza preavviso in relazione
alle infrazioni contestategli con lettera del 19 dicembre 2000
asseritamente integrative della giusta causa di recesso; -) non
sussisteva la proporzionalità tra le infrazioni ascrittegli e la
sanzione irrogata sia sotto il profilo oggettivo, sia comunque sotto il
profilo psicologico, stante la contingente situazione familiare che lo
aveva costretto a tenere comportamenti non conformi ai regolamenti e
alla disciplina interna; chiedeva, pertanto l'annullamento del
licenziamento e la sua reintegrazione nel posto di lavoro, con tutte le
relative conseguenze di ordine economico.
Si costituiva in giudizio la società convenuta
che impugnava integralmente la domanda attorea e ne chiedeva il rigetto.
L'adito Giudice del lavoro - espletata
l'istruttoria testimoniale - accoglieva il ricorso, e - su appello della
parte soccombente e ricostituitosi il contraddittorio - la Corte di
Appello di Roma confermava la sentenza impugnata, compensando le spese
del grado.
Per quello che rileva in questa sede la Corte
Territoriale ha osservato che "la società (Lpd) si è limitata a
rimarcare, anche in appello, la gravità insita nel volontario abbandono
del servizio diretto a soddisfare esigenze personali del dipendente,
attribuendo a tale condotta valenza di giusta causa di recesso, con ciò
omettendo di considerare la valutazione operata, in via generale ed
astratta, dalle parti sociali che, nel prevedere la sanzione
conservativa per tale genere di comportamento, hanno espresso una
valutazione insindacabile da parte del datore di lavoro, ferma restando
ovviamente la possibilità da parte di quest'ultimo di dimostrare la
gravità del danno arrecato con il comportamento del proprio dipendente,
onere non assolto nella fattispecie in esame".
Per la cassazione di tale sentenza la s.p.a. (Lpd)
propone appello affidato ad un unico complesso motivo.
L'intimato B.M. resiste con controricorso.
Motivi della decisione
1 - Con l'unico motivo di ricorso la società
ricorrente - denunciando "violazione della L. n. 300 del 1970, art.
7, dell'art. 2118 cod. civ., e dell'art. 1362 cod. civ., e
segg., con riferimento agli artt. 30, 32 e 34 del c.c.n.l. applicato
nonchè vizi di motivazione" - rileva criticamente che: a) "il Giudice di
appello anzichè considerare la condotta del lavoratore nella sua
interezza e di valutarne la gravità sotto il profilo della sussistenza
della giusta causa di recesso, ha valutato i vari episodi (tre diversi
giorni) oggetto di contestazione singolarmente, pervenendo alla errata
decisione che il contratto collettivo non prevederebbe per tali mancanze
la sanzione del licenziamento"; b) "la nozione di giusta causa di
licenziamento ha la sua fonte direttamente nella legge e, quindi,
l'elencazione delle ipotesi di giusta causa contenuta nei contratti
collettivi ha valenza esemplificativa e non già tassativa"; c)
"l'interpretazione complessiva delle norme collettive non esclude il
potere del datore di risolvere, nel caso di specie, il rapporto di
lavoro in presenza dei comportamenti del B.". 2 - Il ricorso come dianzi
proposto si appalesa infondato.
2/a - Anzitutto deve rilevarsi - con riferimento
alla doglianza che la Corte di Appello di Roma, nel riferirsi alle
ipotesi disciplinarmente previste dal contratto collettivo applicabile
al rapporto lavorativo de quo per escludere l'esistenza della giusta
causa nel licenziamento intimato al B. per le infrazioni commesse, non
abbia considerato che la nozione di "giusta causa" trae la sua fonte
direttamente dalla legge e "l'elencazione delle ipotesi di giusta causa
contenuta nei contratti collettivi ha valenza esemplificativa e non già
tassativa" - che, se pure secondo la giurisprudenza di questa Corte è
stato ritenuto che la previsione di un'ipotesi di giusta causa di
licenziamento contenuta in un contratto collettivo non vincola il
giudice, dalla stessa giurisprudenza è stato precisato che resta
comunque salva l'ipotesi in cui il trattamento contrattuale sia più
favorevole al lavoratore, sicchè deve escludersi che il datore di lavoro
possa irrogare un licenziamento per giusta causa secondo la nozione ex
art. 2119 cod. civ., qualora questo costituisca una sanzione
più grave di quella prevista dal contratto collettivo rispetto ad una
determinata infrazione (cfr., ex plurimis, Cass. n. 5103/1991).
Per quanto concerne più specificamente le
modalità dell'accertamento della sussistenza, in concreto, della giusta
causa, è stato inoltre rimarcato che esso deve essere compiuto dal
giudice del merito determinando in primo luogo, con riferimento alla
norma del contratto collettivo, l'astratta nozione tecnico-giuridica del
motivo posto alla base del licenziamento, e valutando, quindi, la
proporzionalità della sanzione adottata rispetto alla gravità del fatto
in concreto addebitato (Cass. n. 1697/1988).
2/b - Nella specie, la Corte Territoriale ha
compiutamente valutato la parte disciplinare del contratto collettivo
applicato al rapporto di lavoro in contestazione, rilevando la
distinzione operata in detto contratto tra sanzioni di tipo conservativo
("sospensione dal servizio con privazione della retribuzione non
superiore a quattro giorni" e "sospensione dal servizio con privazione
della retribuzione fino a dieci giorni") e sanzioni di tipo estintivo
("licenziamento con preavviso" e "licenziamento senza preavviso") e che
la massima sanzione disciplinare del "licenziamento senza preavviso" -
irrogata al B. - poteva essere applicata nelle specifiche ipotesi di
"violazioni dolose di legge o regolamento o dei doveri di ufficio che
possano arrecare o abbiano arrecato forte pregiudizio all'ente o ai
terzi". Alla luce, pertanto, di un'interpretazione complessiva della
normativa contrattuale, il Giudice di appello ha correttamente valutato
che "l'interruzione della regolarità o continuità del servizio o
l'abbandono volontario dello stesso è sanzionabile con la sospensione
dal servizio con privazione della retribuzione da quattro a dieci giorni
e che solo nel caso in cui il suddetto comportamento abbia comportato
danni gravi per l'azienda o per i terzi è possibile procedere al
licenziamento con preavviso, mentre deve sussistere un forte pregiudizio
per l'ente o per i terzi, arrecato con comportamento doloso, perchè sia
giustificato il licenziamento senza preavviso"; in particolare, ha
rimarcato che "nel caso di specie la società appellante, sulla quale
gravava il relativo onere probatorio, non ha in alcun modo provato
l'esistenza, nè l'entità del danno che sarebbe stato arrecato dal
comportamento inadempiente tenuto dal proprio dipendente, per cui, in
difetto di tale prova, non può che ricondursi la violazione nella meno
grave fattispecie sanzionata con la sospensione dal servizio da quattro
a dieci giorni per interruzione della regolarità o continuità del
servizio o l'abbandono volontario dello stesso"; considerando, altresì,
che "è ben vero che la violazione risulta essere stata commessa più
volte, ma altresì vero che, in considerazione dei buoni precedenti
lavorativi, anch'essi suscettibili di valutazione, ben avrebbe potuto la
società, in un giudizio di bilanciamento, irrogare la sanzione
conservativa, pur nei limiti massimi consentiti". La Corte di Appello è,
quindi, pervenuta alla decisione di declaratoria di illegittimità del
licenziamento de quo mediante un adeguato e corretto percorso
motivazionale che, risolvendosi in un apprezzamento di fatto, resta
incensurabile in sede di illegittimità (ex plurimis, Cass. n.
19270/2006).
Nella cennata decisione appare evidente come il
Giudice di appello abbia esattamente tenuto conto della specificazione
in senso accentuativo della tutela del lavoratore rispetto alla regola
generale della non scarsa importanza di cui all'art. 1455 cod. civ.
(cfr. Cass. n. 6353/2005).
2/c - In merito, poi, alle doglianze della
ricorrente sul punto dell'interpretazione del contratto collettivo come
dianzi data dalla Corte Territoriale, si rileva che l'interpretazione
dei contratti collettivi di lavoro è riservata all'esclusiva competenza
del giudice del merito, le cui valutazioni soggiacciono, nel giudizio di
cassazione (anteriormente, peraltro, alla nuova formulazione
dell'art. 360 cod. proc. civ., comma 1, n. 3), ad un sindacato
limitato alla verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica
contrattuale ed al controllo della sussistenza di una motivazione logica
e coerente: sia la denuncia della violazione delle regole di
ermeneutica, sia la denuncia del vizio di motivazione esigono una
specifica indicazione (ossia la precisazione del modo attraverso il
quale si è realizzata la anzidetta violazione e delle ragioni della
obiettiva deficienza e contraddittorietà del ragionamento del giudice di
merito) non potendo le censure risolversi, in contrasto con
l'interpretazione loro attribuita, nella mera contrapposizione di una
interpretazione diversa da quella criticata (Cass. n. 7740/2003, Cass.
n. 11053/2000) - come inammissibilmente ha fatto la società ricorrente
con il motivo in esame.
2/d - In relazione, inoltre, alle censure
altrimenti alla valutazione delle risultanze probatorie (specificamente
per non avere tenuto conto della deposizione del teste A.), si rileva
che il giudice del merito - nella cennata valutazione - è libero di
attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più
attendibili e idonee alla formazione dello stesso e di disattendere
taluni elementi ritenuti incompatibili con la decisione adottata,
essendo sufficiente, ai fini della congruità della motivazione, che da
questa risulti che il convincimento si sia realizzato attraverso una
valutazione dei vari elementi processualmente acquisiti, considerati nel
loro complesso, pur senza un' esplicita confutazione degli elementi non
menzionati e non accolti, anche se allegati, purchè risulti logico e
coerente il valore preminente attribuito, a quelli utilizzati.
Comunque, ove con il ricorso per cassazione venga
dedotta l'incongruità o illogicità della motivazione della sentenza
impugnata per l'asserita mancata valutazione di risultanze processuali,
è necessario, al fine di consentire al giudice di legittimità il
controllo della decisività della risultanza non valutata (o
insufficientemente valutata), che il ricorrente precisi - mediante
integrale trascrizione della medesima nel ricorso (nella specie non
avvenuta) - la risultanza che egli asserisce decisiva e non valutata o
insufficientemente valutata, dato che solo tale specificazione consente
alla Corte di Cassazione, alla quale è precluso l'esame diretto degli
atti di causa, di delibare la decisività della risultanza stessa (Cass.
n. 9954/2005).
2/e - Con riferimento, infine alle censure
concernenti i vizi di motivazione che inficerebbero la sentenza
impugnata, vale sintetim precisare - in linea generale con riferimento
ai criteri che debbono informare la valutazione di denunciati vizi di
motivazione - che: a) il difetto di motivazione, nel senso di
insufficienza di essa, può riscontrarsi soltanto quando dall'esame del
ragionamento svolto dal giudice e quale risulta dalla sentenza stessa
emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad
una diversa decisione ovvero l'obiettiva deficienza, nel complesso di
essa, del procedimento logico che ha indotto il giudice, sulla base
degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già, invece, -
come per le doglianze mosse nella specie dalla ricorrente - quando vi
sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte sul
valore e sul significato attribuiti dal giudice di merito agli elementi
delibati; b) il vizio di motivazione sussiste unicamente quando le
motivazioni del giudice non consentano di ripercorrere l'iter logico da
questi seguito o esibiscano al loro interno non insanabile contrasto
ovvero quando nel ragionamento sviluppato nella sentenza sia mancato
l'esame di punti decisivi della controversia - irregolarità queste che
la sentenza impugnata di certo non presenta -; c) per poter considerare
la motivazione adottata dal giudice di merito adeguata e sufficiente,
non è necessario che nella stessa vengano prese in esame (al fine di
confutarle o condividerle) tutte le argomentazioni svolte dalle parti,
ma è sufficiente che il giudice indichi - come sicuramente ha fatto la
Corte di appello di Roma - le ragioni del proprio convincimento,
dovendosi in questo caso ritenere implicitamente rigettate tutte le
argomentazioni logicamente incompatibili con esse.
Pervero, le censure con cui una sentenza venga
impugnata per vizio della motivazione non possono essere intese a far
valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal
giudice del merito al diverso convincimento soggettivo della parte -
pure in relazione al valore da conferirsi alle "presunzioni" (la cui
valutazione è anch'essa incensurabile in sede di legittimità alla
stregua di quanto ritenuto con riferimento alla valutazione delle
risultanze probatorie (Cass. n. 11906/2003)) - e, in particolare, non vi
si può opporre un preteso migliore e più appagante coordinamento dei
molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni
all'ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova
e dell'apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del
giudice e non ai possibili vizi dell'iter formativo di tale
convincimento rilevanti ai sensi della disposizione di cui all'art.
360 cod. proc. civ., n. 5: in caso contrario, il motivo di ricorso
si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle
valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, id estdi una
nuova pronuncia sul fatto sicuramente estranea alla natura e alle
finalità del giudizio di Cassazione.
Infatti, nel controllo in sede di legittimità
della adeguatezza della motivazione del giudizio contenuto nella
sentenza impugnata, i confini tra - da un lato - la debita verifica
della indicazione da parte del giudice di merito di ragioni sufficienti,
senza le quali la sentenza è invalida, e - dall'altro - il non
ammissibile controllo della bontà e giustizia della decisione possono
essere identificati tenendo presente che, in linea di principio, quando
la motivazione lascia comprendere le ragioni della decisione, la
sentenza è valida.
Tale rilievo non esclude la necessità che dalla
motivazione (alla luce del disposto dell'art. 360 cod. proc. civ.,
n. 5, nel testo di cui alla novella del 1950) risulti il rispetto, nella
soluzione della questione di fatto, dei relativi canoni metodologici,
dall'ordinamento direttamente espressi o comunque da esso ricavabili.
Deve rimanere fermo, però, che la verifica
compiuta al riguardo può concernere la legittimità della base del
convincimento espresso dal giudice di merito e non questo convincimento
in se stesso, come tale incensurabile. E' in questione, cioè, non la
giustizia o meno della decisione, ma la presenza di difetti sintomatici
di una possibile decisione ingiusta, che tali possono ritenersi solo se
sussiste un'adeguata incidenza causale dell'errore oggetto di possibile
rilievo in Cassazione. (Cass. n. 326/1996): connotazione questa che non
contraddistingue la sentenza impugnata che - giova ribadire - è
pervenuta ad una corretta decisione mediante una motivazione immune da
vizi logico-giuridici.
3 - In definitiva, alla stregua delle
considerazioni svolte, il ricorso proposto dalla s.p.a. (Lpd) deve
essere respinto.
Ricorrono giusti motivi - in relazione a quanto
dianzi rilevato al termine del "capo 2/e" - per dichiarare compensate
tra le parti le spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso; compensa la spese
del giudizio Cassazione.
Così deciso in Roma, il 9 gennaio 2008.
Depositato in Cancelleria il 20 marzo 2008
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