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domenica 2 febbraio 2014

Cassazione: non può essere licenziato il lavoratore che si assenta senza preavviso La Sezione Lavoro della Corte di Cassazione con la sentenza 7600/08 ha stabilito essere illegittimo il licenziamento del lavoratore colpevole di essersi assentato dal posto di lavoro senza chiedere il permesso tanto più, se prima di tale circostanza, lo stesso aveva mantenuto una condotta irreprensibile



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Cassazione: non può essere licenziato il lavoratore che si assenta senza preavviso
 

La Sezione Lavoro della Corte di Cassazione  con la sentenza 7600/08 ha stabilito essere illegittimo il licenziamento del lavoratore colpevole di essersi assentato dal posto di lavoro senza chiedere il permesso  tanto più, se prima di tale circostanza, lo stesso aveva mantenuto una condotta irreprensibile
Cass. civ. Sez. lavoro, 20-03-2008, n. 7600
Fatto Diritto P.Q.M.

Svolgimento del processo

Con ricorso ex art. 414 cod. proc. civ., dinanzi al Tribunale-Giudice del lavoro di Roma B.M. conveniva in giudizio la s.p.a (Lpd) - alle cui dipendenze prestava lavoro in qualità di "operatore di esercizio" con mansioni di recapito di corrispondenza - esponendo che: -) in data 6 febbraio 2000 gli era stato irrogata la sanzione disciplinare del licenziamento senza preavviso in relazione alle infrazioni contestategli con lettera del 19 dicembre 2000 asseritamente integrative della giusta causa di recesso; -) non sussisteva la proporzionalità tra le infrazioni ascrittegli e la sanzione irrogata sia sotto il profilo oggettivo, sia comunque sotto il profilo psicologico, stante la contingente situazione familiare che lo aveva costretto a tenere comportamenti non conformi ai regolamenti e alla disciplina interna; chiedeva, pertanto l'annullamento del licenziamento e la sua reintegrazione nel posto di lavoro, con tutte le relative conseguenze di ordine economico.
Si costituiva in giudizio la società convenuta che impugnava integralmente la domanda attorea e ne chiedeva il rigetto.
L'adito Giudice del lavoro - espletata l'istruttoria testimoniale - accoglieva il ricorso, e - su appello della parte soccombente e ricostituitosi il contraddittorio - la Corte di Appello di Roma confermava la sentenza impugnata, compensando le spese del grado.
Per quello che rileva in questa sede la Corte Territoriale ha osservato che "la società (Lpd) si è limitata a rimarcare, anche in appello, la gravità insita nel volontario abbandono del servizio diretto a soddisfare esigenze personali del dipendente, attribuendo a tale condotta valenza di giusta causa di recesso, con ciò omettendo di considerare la valutazione operata, in via generale ed astratta, dalle parti sociali che, nel prevedere la sanzione conservativa per tale genere di comportamento, hanno espresso una valutazione insindacabile da parte del datore di lavoro, ferma restando ovviamente la possibilità da parte di quest'ultimo di dimostrare la gravità del danno arrecato con il comportamento del proprio dipendente, onere non assolto nella fattispecie in esame".
Per la cassazione di tale sentenza la s.p.a. (Lpd) propone appello affidato ad un unico complesso motivo.
L'intimato B.M. resiste con controricorso.

Motivi della decisione

1 - Con l'unico motivo di ricorso la società ricorrente - denunciando "violazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, dell'art. 2118 cod. civ., e dell'art. 1362 cod. civ., e segg., con riferimento agli artt. 30, 32 e 34 del c.c.n.l. applicato nonchè vizi di motivazione" - rileva criticamente che: a) "il Giudice di appello anzichè considerare la condotta del lavoratore nella sua interezza e di valutarne la gravità sotto il profilo della sussistenza della giusta causa di recesso, ha valutato i vari episodi (tre diversi giorni) oggetto di contestazione singolarmente, pervenendo alla errata decisione che il contratto collettivo non prevederebbe per tali mancanze la sanzione del licenziamento"; b) "la nozione di giusta causa di licenziamento ha la sua fonte direttamente nella legge e, quindi, l'elencazione delle ipotesi di giusta causa contenuta nei contratti collettivi ha valenza esemplificativa e non già tassativa"; c) "l'interpretazione complessiva delle norme collettive non esclude il potere del datore di risolvere, nel caso di specie, il rapporto di lavoro in presenza dei comportamenti del B.". 2 - Il ricorso come dianzi proposto si appalesa infondato.
2/a - Anzitutto deve rilevarsi - con riferimento alla doglianza che la Corte di Appello di Roma, nel riferirsi alle ipotesi disciplinarmente previste dal contratto collettivo applicabile al rapporto lavorativo de quo per escludere l'esistenza della giusta causa nel licenziamento intimato al B. per le infrazioni commesse, non abbia considerato che la nozione di "giusta causa" trae la sua fonte direttamente dalla legge e "l'elencazione delle ipotesi di giusta causa contenuta nei contratti collettivi ha valenza esemplificativa e non già tassativa" - che, se pure secondo la giurisprudenza di questa Corte è stato ritenuto che la previsione di un'ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta in un contratto collettivo non vincola il giudice, dalla stessa giurisprudenza è stato precisato che resta comunque salva l'ipotesi in cui il trattamento contrattuale sia più favorevole al lavoratore, sicchè deve escludersi che il datore di lavoro possa irrogare un licenziamento per giusta causa secondo la nozione ex art. 2119 cod. civ., qualora questo costituisca una sanzione più grave di quella prevista dal contratto collettivo rispetto ad una determinata infrazione (cfr., ex plurimis, Cass. n. 5103/1991).
Per quanto concerne più specificamente le modalità dell'accertamento della sussistenza, in concreto, della giusta causa, è stato inoltre rimarcato che esso deve essere compiuto dal giudice del merito determinando in primo luogo, con riferimento alla norma del contratto collettivo, l'astratta nozione tecnico-giuridica del motivo posto alla base del licenziamento, e valutando, quindi, la proporzionalità della sanzione adottata rispetto alla gravità del fatto in concreto addebitato (Cass. n. 1697/1988).
2/b - Nella specie, la Corte Territoriale ha compiutamente valutato la parte disciplinare del contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro in contestazione, rilevando la distinzione operata in detto contratto tra sanzioni di tipo conservativo ("sospensione dal servizio con privazione della retribuzione non superiore a quattro giorni" e "sospensione dal servizio con privazione della retribuzione fino a dieci giorni") e sanzioni di tipo estintivo ("licenziamento con preavviso" e "licenziamento senza preavviso") e che la massima sanzione disciplinare del "licenziamento senza preavviso" - irrogata al B. - poteva essere applicata nelle specifiche ipotesi di "violazioni dolose di legge o regolamento o dei doveri di ufficio che possano arrecare o abbiano arrecato forte pregiudizio all'ente o ai terzi". Alla luce, pertanto, di un'interpretazione complessiva della normativa contrattuale, il Giudice di appello ha correttamente valutato che "l'interruzione della regolarità o continuità del servizio o l'abbandono volontario dello stesso è sanzionabile con la sospensione dal servizio con privazione della retribuzione da quattro a dieci giorni e che solo nel caso in cui il suddetto comportamento abbia comportato danni gravi per l'azienda o per i terzi è possibile procedere al licenziamento con preavviso, mentre deve sussistere un forte pregiudizio per l'ente o per i terzi, arrecato con comportamento doloso, perchè sia giustificato il licenziamento senza preavviso"; in particolare, ha rimarcato che "nel caso di specie la società appellante, sulla quale gravava il relativo onere probatorio, non ha in alcun modo provato l'esistenza, nè l'entità del danno che sarebbe stato arrecato dal comportamento inadempiente tenuto dal proprio dipendente, per cui, in difetto di tale prova, non può che ricondursi la violazione nella meno grave fattispecie sanzionata con la sospensione dal servizio da quattro a dieci giorni per interruzione della regolarità o continuità del servizio o l'abbandono volontario dello stesso"; considerando, altresì, che "è ben vero che la violazione risulta essere stata commessa più volte, ma altresì vero che, in considerazione dei buoni precedenti lavorativi, anch'essi suscettibili di valutazione, ben avrebbe potuto la società, in un giudizio di bilanciamento, irrogare la sanzione conservativa, pur nei limiti massimi consentiti". La Corte di Appello è, quindi, pervenuta alla decisione di declaratoria di illegittimità del licenziamento de quo mediante un adeguato e corretto percorso motivazionale che, risolvendosi in un apprezzamento di fatto, resta incensurabile in sede di illegittimità (ex plurimis, Cass. n. 19270/2006).
Nella cennata decisione appare evidente come il Giudice di appello abbia esattamente tenuto conto della specificazione in senso accentuativo della tutela del lavoratore rispetto alla regola generale della non scarsa importanza di cui all'art. 1455 cod. civ. (cfr. Cass. n. 6353/2005).
2/c - In merito, poi, alle doglianze della ricorrente sul punto dell'interpretazione del contratto collettivo come dianzi data dalla Corte Territoriale, si rileva che l'interpretazione dei contratti collettivi di lavoro è riservata all'esclusiva competenza del giudice del merito, le cui valutazioni soggiacciono, nel giudizio di cassazione (anteriormente, peraltro, alla nuova formulazione dell'art. 360 cod. proc. civ., comma 1, n. 3), ad un sindacato limitato alla verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica contrattuale ed al controllo della sussistenza di una motivazione logica e coerente: sia la denuncia della violazione delle regole di ermeneutica, sia la denuncia del vizio di motivazione esigono una specifica indicazione (ossia la precisazione del modo attraverso il quale si è realizzata la anzidetta violazione e delle ragioni della obiettiva deficienza e contraddittorietà del ragionamento del giudice di merito) non potendo le censure risolversi, in contrasto con l'interpretazione loro attribuita, nella mera contrapposizione di una interpretazione diversa da quella criticata (Cass. n. 7740/2003, Cass. n. 11053/2000) - come inammissibilmente ha fatto la società ricorrente con il motivo in esame.
2/d - In relazione, inoltre, alle censure altrimenti alla valutazione delle risultanze probatorie (specificamente per non avere tenuto conto della deposizione del teste A.), si rileva che il giudice del merito - nella cennata valutazione - è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili e idonee alla formazione dello stesso e di disattendere taluni elementi ritenuti incompatibili con la decisione adottata, essendo sufficiente, ai fini della congruità della motivazione, che da questa risulti che il convincimento si sia realizzato attraverso una valutazione dei vari elementi processualmente acquisiti, considerati nel loro complesso, pur senza un' esplicita confutazione degli elementi non menzionati e non accolti, anche se allegati, purchè risulti logico e coerente il valore preminente attribuito, a quelli utilizzati.
Comunque, ove con il ricorso per cassazione venga dedotta l'incongruità o illogicità della motivazione della sentenza impugnata per l'asserita mancata valutazione di risultanze processuali, è necessario, al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività della risultanza non valutata (o insufficientemente valutata), che il ricorrente precisi - mediante integrale trascrizione della medesima nel ricorso (nella specie non avvenuta) - la risultanza che egli asserisce decisiva e non valutata o insufficientemente valutata, dato che solo tale specificazione consente alla Corte di Cassazione, alla quale è precluso l'esame diretto degli atti di causa, di delibare la decisività della risultanza stessa (Cass. n. 9954/2005).
2/e - Con riferimento, infine alle censure concernenti i vizi di motivazione che inficerebbero la sentenza impugnata, vale sintetim precisare - in linea generale con riferimento ai criteri che debbono informare la valutazione di denunciati vizi di motivazione - che: a) il difetto di motivazione, nel senso di insufficienza di essa, può riscontrarsi soltanto quando dall'esame del ragionamento svolto dal giudice e quale risulta dalla sentenza stessa emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione ovvero l'obiettiva deficienza, nel complesso di essa, del procedimento logico che ha indotto il giudice, sulla base degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già, invece, - come per le doglianze mosse nella specie dalla ricorrente - quando vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte sul valore e sul significato attribuiti dal giudice di merito agli elementi delibati; b) il vizio di motivazione sussiste unicamente quando le motivazioni del giudice non consentano di ripercorrere l'iter logico da questi seguito o esibiscano al loro interno non insanabile contrasto ovvero quando nel ragionamento sviluppato nella sentenza sia mancato l'esame di punti decisivi della controversia - irregolarità queste che la sentenza impugnata di certo non presenta -; c) per poter considerare la motivazione adottata dal giudice di merito adeguata e sufficiente, non è necessario che nella stessa vengano prese in esame (al fine di confutarle o condividerle) tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente che il giudice indichi - come sicuramente ha fatto la Corte di appello di Roma - le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in questo caso ritenere implicitamente rigettate tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse.
Pervero, le censure con cui una sentenza venga impugnata per vizio della motivazione non possono essere intese a far valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito al diverso convincimento soggettivo della parte - pure in relazione al valore da conferirsi alle "presunzioni" (la cui valutazione è anch'essa incensurabile in sede di legittimità alla stregua di quanto ritenuto con riferimento alla valutazione delle risultanze probatorie (Cass. n. 11906/2003)) - e, in particolare, non vi si può opporre un preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all'ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell'apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell'iter formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della disposizione di cui all'art. 360 cod. proc. civ., n. 5: in caso contrario, il motivo di ricorso si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, id estdi una nuova pronuncia sul fatto sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di Cassazione.
Infatti, nel controllo in sede di legittimità della adeguatezza della motivazione del giudizio contenuto nella sentenza impugnata, i confini tra - da un lato - la debita verifica della indicazione da parte del giudice di merito di ragioni sufficienti, senza le quali la sentenza è invalida, e - dall'altro - il non ammissibile controllo della bontà e giustizia della decisione possono essere identificati tenendo presente che, in linea di principio, quando la motivazione lascia comprendere le ragioni della decisione, la sentenza è valida.
Tale rilievo non esclude la necessità che dalla motivazione (alla luce del disposto dell'art. 360 cod. proc. civ., n. 5, nel testo di cui alla novella del 1950) risulti il rispetto, nella soluzione della questione di fatto, dei relativi canoni metodologici, dall'ordinamento direttamente espressi o comunque da esso ricavabili.
Deve rimanere fermo, però, che la verifica compiuta al riguardo può concernere la legittimità della base del convincimento espresso dal giudice di merito e non questo convincimento in se stesso, come tale incensurabile. E' in questione, cioè, non la giustizia o meno della decisione, ma la presenza di difetti sintomatici di una possibile decisione ingiusta, che tali possono ritenersi solo se sussiste un'adeguata incidenza causale dell'errore oggetto di possibile rilievo in Cassazione. (Cass. n. 326/1996): connotazione questa che non contraddistingue la sentenza impugnata che - giova ribadire - è pervenuta ad una corretta decisione mediante una motivazione immune da vizi logico-giuridici.
3 - In definitiva, alla stregua delle considerazioni svolte, il ricorso proposto dalla s.p.a. (Lpd) deve essere respinto.
Ricorrono giusti motivi - in relazione a quanto dianzi rilevato al termine del "capo 2/e" - per dichiarare compensate tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

la Corte rigetta il ricorso; compensa la spese del giudizio Cassazione.
Così deciso in Roma, il 9 gennaio 2008.
Depositato in Cancelleria il 20 marzo 2008

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