Infortunato
che mente per sudditanza psicologica e poi ritratta - Cassazione,
Sezione Sesta, Sentenza n. 16466 del 22 aprile 2008
(sentenza)
(sentenza)
Cass. pen. Sez. IV, (ud. 06-03-2008) 22-04-2008, n. 16466
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Svolgimento del processo - Motivi della decisione
S.A.,
nella qualità di datore di lavoro, è stato ritenuto responsabile, per
colpa generica e specifica, di un infortunio sul lavoro occorso al
lavoratore Z.G., il quale, impiegato a raccogliere le olive, mentre
saliva su una scaletta metallica a cubo, provvista di rotelle, cadeva in
terra dalla scala, procurandosi lesioni personali colpose giudicate
guaribili in giorni 45 (fatto avvenuto in data (OMISSIS)).
La
sentenza di appello, in parziale riforma di quella di primo grado,
dichiarava non doversi procedere nei confronti dello S. per essere il
reato estinto per intervenuta prescrizione e confermava le statuizioni
civili, facendo integrale riferimento alla sentenza di primo grado.
Ricorre per cassazione lo S. articolando un unico articolato motivo.
Si
censura così la sentenza impugnata perchè non avrebbe esaminato i
motivi di appello, con particolare riferimento a quello inerente
l'asserita carenza del nesso eziologico tra la condotta dell'imputato e
l'evento.
La Corte di merito avrebbe poi del
tutto trascurato di prendere in considerazione la tesi difensiva
sostenuta dal ricorrente, secondo cui la parte offesa non era un
lavoratore alle dipendenze dell'imputato ed il sinistro si era
verificato nel fondo di proprietà della figlia, come sarebbe emerso
dalla documentazione INAIL acquisita agli atti del processo penale ex art. 507 c.p.p..
I
giudici di appello, inoltre,avrebbero del tutto omesso di motivare
sulla richiesta rinnovazione della istruttoria dibattimentale su tale
punto.
La responsabilità dell'imputato sarebbe stata formulata facendo cattivo uso del processo induttivo fissato dall'art. 192 c.p.p.
dando rilievo ad una versione del fatto inverosimile fornita dalla
parte civile e disattendendo arbitrariamente quella dell'imputato,
secondo la quale lo Z. era stato trasportato per mera cortesia nel fondo
della figlia, ove successivamente era stato rinvenuto per terra.
Il
ricorso è manifestamente infondato, non essendo individuabili le
carenze motivazionali lamentate in ordine alla ricostruzione delle
modalità di svolgimento dell'episodio lesivo ed alla riconducibilità
causale dell'evento alla violazione della normativa in materia di
prevenzione sugli infortuni sul lavoro, che imponeva allo S., nella
qualità di datore di lavoro, di approntare tutte le misure di sicurezza
idonee a preservare il suo dipendente da eventuali infortuni connessi
all'espletamento delle mansioni lavorative.
La
decisione gravata, confermativa di quella di primo grado, appare
corretta siccome adottata in piena aderenza a quello che, per assunto
pacifico, è il contenuto precettivo dell'art. 2087 c.c..
Come
è noto, in forza della disposizione generale di cui all'art. 2087 c.c. e
di quelle specifiche previste dalla normativa antinfortunistica, il
datore di lavoro è costituito garante dell'incolumità fisica e della
salvaguardia della personalità morale dei prestatori di lavoro, con
l'ovvia conseguenza che, ove egli non ottemperi agli obblighi di tutela,
l'evento lesivo correttamente gli viene imputato in forza del
meccanismo reattivo previsto dall'art. 40 c.p., comma 2.
Ne
consegue che il datore di lavoro, ha il dovere di accertarsi del
rispetto dei presidi antinfortunistici e del fatto che il lavoratore
possa prestare la propria opera in condizioni di sicurezza, vigilando
altresì a che le condizioni di sicurezza siano mantenute per tutto il
tempo in cui è prestata l'opera.
In altri
termini, il datore di lavoro deve sempre attivarsi positivamente per
organizzare le attività lavorative in modo sicuro, assicurando anche
l'adozione da parte dei dipendenti delle doverose misure tecniche ed
organizzative per ridurre al minimo i rischi connessi all'attività
lavorativa: tale obbligo dovendolo ricondurre, oltre che alle
disposizioni specifiche, proprio, più generalmente, al disposto dell'art. 2087 c.c.,
in forza del quale il datore di lavoro è comunque costituito garante
dell'incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale dei
prestatori di lavoro, con l'ovvia conseguenza che, ove egli non
ottemperi all'obbligo di tutela, l'evento lesivo correttamente gli viene
imputato in forza del meccanismo previsto dall'art. 40 c.p., comma 2 (Sezione 4^, 22 gennaio 2007, Pedone ed altri).
E'
in questo quadro normativo che si pone correttamente la sentenza
impugnata, laddove ravvisa la colpa, e il conseguente nesso eziologico
con l'evento dannoso, del datore di lavoro nel non aver questi fornito
una scala dotata di dispositivi di sicurezza al bracciante agricolo alle
sue dipendenze, ponendo le condizioni dell'evento lesivo derivatone.
I
giudici di merito, esercitando adeguatamente dei propri poteri
valutativi, hanno ritenuto di fondare il proprio convincimento in merito
alla ricostruzione del fatto sulle dichiarazioni testimoniale rese
dalla parte offesa e dai congiunti di questa nonchè, contrariamente a
quanto sostenuto dal ricorrente, sulla documentazione acquisita
dall'INAIL, dalla quale emergeva con chiarezza che la prima versione dei
fatti fornita dal lavoratore e dai suoi familiari (secondo la quale
l'incidente si era verificato nel fondo di proprietà della figlia dello
Z.) dipendeva dalla condizione di soggezione psicologica del lavoratore
nei confronti del datore di lavoro.
Non
apprezzandosi nella motivazione della sentenza gravata alcuna illogicità
che ne vulneri la tenuta complessiva, manifestamente infondata è la
censura attraverso la quale il ricorrente richiede di procedere ad un a
rinnovata valutazione dei fatti ovvero ad una rivalutazione del
contenuto delle prove acquisite, trattandosi di apprezzamenti riservati
in via esclusiva al giudice di merito.
Quanto
alla asserita omessa motivazione sulla richiesta di rinnovazione della
istruttoria dibattimentale, la censura è manifestamente infondata, oltre
che per l'assoluta genericità, anche perchè il ricorrente trascura di
considerare che, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte
(v. tra le tante, Sezione 6^, 17 febbraio 2003, Tateo), il giudice, pur
investito con i motivi di impugnazione di specifica richiesta, è tenuto a
motivare solo nel caso in cui a detta rinnovazione acceda; invero, in
considerazione del principio di presunzione completezza della istruzione
compiuta in primo grado, egli deve dare conto dell'uso che va a fare
del suo potere discrezionale, conseguente alla motivazione maturata di
non poter decidere allo stato degli atti. Non così viceversa, nella
ipotesi di rigetto, in quanto, in tal caso, la motivazione potrà anche
essere implicita e desumibile dalla stessa struttura argomentativa della
sentenza di appello, con la quale si evidenzia la sussistenza di
elementi sufficienti alla affermazione, o negazione, di responsabilità.
Nella
specie, la sentenza impugnata, richiamando integralmente il contenuto
della sentenza di primo grado, ha fatto riferimento alla esauriente
istruzione dibattimentale compiuta in primo grado, implicitamente
ritenendo superflua l'audizione della moglie dell'imputato nella qualità
di teste (oggetto della richiesta difensiva), con la conseguente
insussistenza delle condizioni di legge per la proposta rinnovazione
dibattimentale.
L'impugnazione è del resto inammissibile anche per altra ragione.
Infatti,
in presenza di una (già avvenuta) declaratoria di improcedibilità per
intervenuta prescrizione del reato, è precluso alla Corte di cassazione
un riesame dei fatti finalizzato ad un eventuale annullamento della
decisione per vizi attinenti alla sua motivazione. Il sindacato di
legittimità circa la prospettata mancata applicazione dell'art. 129 c.p.p.,
comma 2 deve essere invece circoscritto all'accertamento della
ricorrenza delle condizioni per addivenire ad una pronuncia di
proscioglimento nel merito con una delle formule ivi prescritte: la
conclusione può essere favorevole al giudicabile solo se la prova
dell'insussistenza del fatto o dell'estraneità ad esso dell'imputato
risulti evidente sulla base degli stessi elementi e delle medesime
valutazioni posti a fondamento della sentenza impugnata, senza
possibilità di nuove indagini ed ulteriori accertamenti che sarebbero
incompatibili con il principio secondo cui l'operatività della causa
estintiva, determinando il congelamento della situazione processuale
esistente nel momento in cui è intervenuta, non può essere ritardata.
Pertanto, qualora il contenuto complessivo della sentenza non prospetti,
nei limiti e con i caratteri richiesti dall'art. 129 c.p.p.,
l'esistenza di una causa di non punibilità più favorevole all'imputato
come sopra si è apprezzato, deve prevalere l'esigenza della definizione
immediata del processo (Sezione 4^, 22 giugno 2005, Borda).
Nella
specie, per quanto sopra esposto non ricorrono, con palmare evidenza,
le condizioni per un proscioglimento nel merito, avendo il giudice fatto
richiamo - senza alcuna violazione di legge - alla posizione di
garanzia ricoperta dallo S. e ad un compendio probatorio che non
legittima, per quanto qui può apprezzarsi, una formula liberatoria più
ampia.
In una tale prospettiva, le doglianze del ricorrente non possono trovare accoglimento.
Alla
inammissibilità del ricorso, riconducibile a colpa del ricorrente (v.
sentenza Corte Cost. 7-13 giugno 2000, n. 186), consegue la condanna del
medesimo al pagamento delle spese del procedimento e di una somma, che
congruamente si determina in mille Euro, in favore della Cassa delle
ammende, nonchè alla rifusione delle spese del presente grado di
giudizio, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
dichiara
inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
spese processuali e della somma di Euro 1000,00 in favore della Cassa
delle ammende.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 6 marzo 2008.
Depositato in Cancelleria il 22 aprile 2008
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