Translate

domenica 2 febbraio 2014

Infortunato che mente per sudditanza psicologica e poi ritratta - Cassazione,




Infortunato che mente per sudditanza psicologica e poi ritratta - Cassazione, Sezione Sesta, Sentenza n. 16466 del 22 aprile 2008
(sentenza)

 

Cass. pen. Sez. IV, (ud. 06-03-2008) 22-04-2008, n. 16466
Fatto - Diritto P.Q.M.

Svolgimento del processo - Motivi della decisione

S.A., nella qualità di datore di lavoro, è stato ritenuto responsabile, per colpa generica e specifica, di un infortunio sul lavoro occorso al lavoratore Z.G., il quale, impiegato a raccogliere le olive, mentre saliva su una scaletta metallica a cubo, provvista di rotelle, cadeva in terra dalla scala, procurandosi lesioni personali colpose giudicate guaribili in giorni 45 (fatto avvenuto in data (OMISSIS)).
La sentenza di appello, in parziale riforma di quella di primo grado, dichiarava non doversi procedere nei confronti dello S. per essere il reato estinto per intervenuta prescrizione e confermava le statuizioni civili, facendo integrale riferimento alla sentenza di primo grado.
Ricorre per cassazione lo S. articolando un unico articolato motivo.
Si censura così la sentenza impugnata perchè non avrebbe esaminato i motivi di appello, con particolare riferimento a quello inerente l'asserita carenza del nesso eziologico tra la condotta dell'imputato e l'evento.
La Corte di merito avrebbe poi del tutto trascurato di prendere in considerazione la tesi difensiva sostenuta dal ricorrente, secondo cui la parte offesa non era un lavoratore alle dipendenze dell'imputato ed il sinistro si era verificato nel fondo di proprietà della figlia, come sarebbe emerso dalla documentazione INAIL acquisita agli atti del processo penale ex art. 507 c.p.p..
I giudici di appello, inoltre,avrebbero del tutto omesso di motivare sulla richiesta rinnovazione della istruttoria dibattimentale su tale punto.
La responsabilità dell'imputato sarebbe stata formulata facendo cattivo uso del processo induttivo fissato dall'art. 192 c.p.p. dando rilievo ad una versione del fatto inverosimile fornita dalla parte civile e disattendendo arbitrariamente quella dell'imputato, secondo la quale lo Z. era stato trasportato per mera cortesia nel fondo della figlia, ove successivamente era stato rinvenuto per terra.
Il ricorso è manifestamente infondato, non essendo individuabili le carenze motivazionali lamentate in ordine alla ricostruzione delle modalità di svolgimento dell'episodio lesivo ed alla riconducibilità causale dell'evento alla violazione della normativa in materia di prevenzione sugli infortuni sul lavoro, che imponeva allo S., nella qualità di datore di lavoro, di approntare tutte le misure di sicurezza idonee a preservare il suo dipendente da eventuali infortuni connessi all'espletamento delle mansioni lavorative.
La decisione gravata, confermativa di quella di primo grado, appare corretta siccome adottata in piena aderenza a quello che, per assunto pacifico, è il contenuto precettivo dell'art. 2087 c.c..
Come è noto, in forza della disposizione generale di cui all'art. 2087 c.c. e di quelle specifiche previste dalla normativa antinfortunistica, il datore di lavoro è costituito garante dell'incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale dei prestatori di lavoro, con l'ovvia conseguenza che, ove egli non ottemperi agli obblighi di tutela, l'evento lesivo correttamente gli viene imputato in forza del meccanismo reattivo previsto dall'art. 40 c.p., comma 2.
Ne consegue che il datore di lavoro, ha il dovere di accertarsi del rispetto dei presidi antinfortunistici e del fatto che il lavoratore possa prestare la propria opera in condizioni di sicurezza, vigilando altresì a che le condizioni di sicurezza siano mantenute per tutto il tempo in cui è prestata l'opera.
In altri termini, il datore di lavoro deve sempre attivarsi positivamente per organizzare le attività lavorative in modo sicuro, assicurando anche l'adozione da parte dei dipendenti delle doverose misure tecniche ed organizzative per ridurre al minimo i rischi connessi all'attività lavorativa: tale obbligo dovendolo ricondurre, oltre che alle disposizioni specifiche, proprio, più generalmente, al disposto dell'art. 2087 c.c., in forza del quale il datore di lavoro è comunque costituito garante dell'incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale dei prestatori di lavoro, con l'ovvia conseguenza che, ove egli non ottemperi all'obbligo di tutela, l'evento lesivo correttamente gli viene imputato in forza del meccanismo previsto dall'art. 40 c.p., comma 2 (Sezione 4^, 22 gennaio 2007, Pedone ed altri).
E' in questo quadro normativo che si pone correttamente la sentenza impugnata, laddove ravvisa la colpa, e il conseguente nesso eziologico con l'evento dannoso, del datore di lavoro nel non aver questi fornito una scala dotata di dispositivi di sicurezza al bracciante agricolo alle sue dipendenze, ponendo le condizioni dell'evento lesivo derivatone.
I giudici di merito, esercitando adeguatamente dei propri poteri valutativi, hanno ritenuto di fondare il proprio convincimento in merito alla ricostruzione del fatto sulle dichiarazioni testimoniale rese dalla parte offesa e dai congiunti di questa nonchè, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, sulla documentazione acquisita dall'INAIL, dalla quale emergeva con chiarezza che la prima versione dei fatti fornita dal lavoratore e dai suoi familiari (secondo la quale l'incidente si era verificato nel fondo di proprietà della figlia dello Z.) dipendeva dalla condizione di soggezione psicologica del lavoratore nei confronti del datore di lavoro.
Non apprezzandosi nella motivazione della sentenza gravata alcuna illogicità che ne vulneri la tenuta complessiva, manifestamente infondata è la censura attraverso la quale il ricorrente richiede di procedere ad un a rinnovata valutazione dei fatti ovvero ad una rivalutazione del contenuto delle prove acquisite, trattandosi di apprezzamenti riservati in via esclusiva al giudice di merito.
Quanto alla asserita omessa motivazione sulla richiesta di rinnovazione della istruttoria dibattimentale, la censura è manifestamente infondata, oltre che per l'assoluta genericità, anche perchè il ricorrente trascura di considerare che, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte (v. tra le tante, Sezione 6^, 17 febbraio 2003, Tateo), il giudice, pur investito con i motivi di impugnazione di specifica richiesta, è tenuto a motivare solo nel caso in cui a detta rinnovazione acceda; invero, in considerazione del principio di presunzione completezza della istruzione compiuta in primo grado, egli deve dare conto dell'uso che va a fare del suo potere discrezionale, conseguente alla motivazione maturata di non poter decidere allo stato degli atti. Non così viceversa, nella ipotesi di rigetto, in quanto, in tal caso, la motivazione potrà anche essere implicita e desumibile dalla stessa struttura argomentativa della sentenza di appello, con la quale si evidenzia la sussistenza di elementi sufficienti alla affermazione, o negazione, di responsabilità.
Nella specie, la sentenza impugnata, richiamando integralmente il contenuto della sentenza di primo grado, ha fatto riferimento alla esauriente istruzione dibattimentale compiuta in primo grado, implicitamente ritenendo superflua l'audizione della moglie dell'imputato nella qualità di teste (oggetto della richiesta difensiva), con la conseguente insussistenza delle condizioni di legge per la proposta rinnovazione dibattimentale.
L'impugnazione è del resto inammissibile anche per altra ragione.
Infatti, in presenza di una (già avvenuta) declaratoria di improcedibilità per intervenuta prescrizione del reato, è precluso alla Corte di cassazione un riesame dei fatti finalizzato ad un eventuale annullamento della decisione per vizi attinenti alla sua motivazione. Il sindacato di legittimità circa la prospettata mancata applicazione dell'art. 129 c.p.p., comma 2 deve essere invece circoscritto all'accertamento della ricorrenza delle condizioni per addivenire ad una pronuncia di proscioglimento nel merito con una delle formule ivi prescritte: la conclusione può essere favorevole al giudicabile solo se la prova dell'insussistenza del fatto o dell'estraneità ad esso dell'imputato risulti evidente sulla base degli stessi elementi e delle medesime valutazioni posti a fondamento della sentenza impugnata, senza possibilità di nuove indagini ed ulteriori accertamenti che sarebbero incompatibili con il principio secondo cui l'operatività della causa estintiva, determinando il congelamento della situazione processuale esistente nel momento in cui è intervenuta, non può essere ritardata. Pertanto, qualora il contenuto complessivo della sentenza non prospetti, nei limiti e con i caratteri richiesti dall'art. 129 c.p.p., l'esistenza di una causa di non punibilità più favorevole all'imputato come sopra si è apprezzato, deve prevalere l'esigenza della definizione immediata del processo (Sezione 4^, 22 giugno 2005, Borda).
Nella specie, per quanto sopra esposto non ricorrono, con palmare evidenza, le condizioni per un proscioglimento nel merito, avendo il giudice fatto richiamo - senza alcuna violazione di legge - alla posizione di garanzia ricoperta dallo S. e ad un compendio probatorio che non legittima, per quanto qui può apprezzarsi, una formula liberatoria più ampia.
In una tale prospettiva, le doglianze del ricorrente non possono trovare accoglimento.
Alla inammissibilità del ricorso, riconducibile a colpa del ricorrente (v. sentenza Corte Cost. 7-13 giugno 2000, n. 186), consegue la condanna del medesimo al pagamento delle spese del procedimento e di una somma, che congruamente si determina in mille Euro, in favore della Cassa delle ammende, nonchè alla rifusione delle spese del presente grado di giudizio, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 6 marzo 2008.
Depositato in Cancelleria il 22 aprile 2008

Nessun commento: