Le mafie all’asta: osservazioni e proposte a difesa della legalità
L’Associazione “I CITTADINI CONTRO LE
MAFIE E LA CORRUZIONE”, l’Associazione contro le illegalità e le mafie
“ANTONINO CAPONNETTO”, il “C.R.A. – COMITATI RIUNITI AGRICOLI” ed il
Movimento Civico Nazionale “DIGNITA’ SOCIALE” rappresentano quanto di
seguito:
La mafia “fattura” 50 miliardi di euro
all’anno solo nel settore agricolo, commette qui 240 reati al giorno, e
conta più di 350.000 agricoltori vittime della criminalità organizzata
che allunga sempre più i suoi tentacoli sulle campagne.
Aziende agricole confiscate in Lombardia, Piemonte e Calabria in un’operazione della Dia di Torino contro la ‘ndrangheta illustrano una geografia malavitosa non più ristretta al Sud della penisola, ma ormai radicata in tutto il territorio nazionale. All’inizio erano solo Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna le regioni in cui l’attività delle organizzazioni malavitose concentravano la loro azione ai danni dell’agricoltura. Ora la malavita ha allargato il suo giro d’azione.
Altre regioni del Centro e del Nord sono finite nel mirino dei criminali e gli agricoltori ne pagano le spese.Aziende agricole confiscate in Lombardia, Piemonte e Calabria in un’operazione della Dia di Torino contro la ‘ndrangheta illustrano una geografia malavitosa non più ristretta al Sud della penisola, ma ormai radicata in tutto il territorio nazionale. All’inizio erano solo Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna le regioni in cui l’attività delle organizzazioni malavitose concentravano la loro azione ai danni dell’agricoltura. Ora la malavita ha allargato il suo giro d’azione.
Tre imprese sequestrate il 16 febbraio alla cosca Maesano di Isola Capo Rizzuto (Crotone), tre società edili sottratte il 14 febbraio in un blitz della Dia di Catania a due presunti esponenti della cosca Pillera-Cappello: sono solo alcuni dei tanti numeri che evidenziano un crescente interesse delle mafie verso l’imprenditoria agricola intesa non quale fonte di produttività ma di loschi affari e di riciclaggio di danaro sporco.
Sono in realtà centinaia le ditte tolte ogni anno alla mafia.
Furti di attrezzature e mezzi agricoli, usura, racket, abigeato, estorsioni, “pizzo”, discariche abusive, macellazioni clandestine, danneggiamento e incendi alle colture, aggressioni, truffe all’Unione Europea, “caporalato”, abusivismo edilizio, saccheggio del patrimonio boschivo, agropirateria, controllo delle filiere agroalimentari, dalla produzione alla distribuzione, i “canali” con cui l’agricoltura onesta viene derubata dalla criminalità organizzata.
Si parla di “legami ormai consolidati tra cosche campane, calabresi, siciliane e pugliesi per poter meglio presidiare il settore su una scala di livello industriale”.
Dirompente il problema dell’agropirateria: nel 2011 i sequestri operati dalle forze dell’ordine (13.867) sono più che triplicati sul 2010, per 1,2 miliardi di euro di valore, e a questo si aggiunge il fatto che ogni anno, anche per opera della criminalità organizzata, entrano in Italia prodotti alimentari “clandestini” e “pericolosi” per oltre 2 miliardi di euro. Poco meno del 5% della produzione agricola nazionale.
I tentacoli stringono l’agricoltura.
L’attenzione rivolta dalla criminalità verso l’agricoltura è rilevante perché il settore è un terreno fertile nel quale si può sviluppare un “business” di dimensioni rilevanti.
La ragione può essere facilmente ricercata nel fatto che questo particolare e delicato segmento produttivo provvede in maniera sostanzialmente diretta al fabbisogno primario di milioni di persone per garantire loro la sopravvivenza, specie in questi momenti di crisi alimentare.
Da qui l’interesse ad investire, riciclare e mantenere una schiera di “sudditi” per il lavoro di manovalanza. Attraverso le campagne è, infatti, possibile esercitare il controllo del territorio per utilizzarlo non solo come base per nascondigli, ma soprattutto come punto di partenza per ulteriori sviluppi imprenditoriali.
Le organizzazioni criminali (mafia, camorra, ‘ndrangheta, sacra corona unita e quinta mafia), dunque, non operano più solamente nel mercato della droga, della prostituzione e del gioco d’azzardo (che oltretutto interessano l’agricoltore come cittadino), né guardano unicamente i settori sui quali c’è ormai una consolidata letteratura: edilizia, smaltimento dei rifiuti, autotrasporto, sanità.
La “piovra” ha nel mirino l’agricoltura e cerca di incrementare i propri affari illeciti esercitando il controllo in tutta la filiera alimentare, dai campi agli scaffali dei supermercati.
Ciò che emerge ancora una volta, è l’estensione e la ramificazione operativa dei clan interessati, sia a livello territoriale sia in termini di controllo criminoso su tutte le attività che riguardano produzione e smercio di prodotti agricoli. E ancora, i legami ormai consolidati tra cosche campane, calabresi, siciliane e pugliesi per poter meglio presidiare il settore su una scala di livello industriale. E ciò avviene attraverso l’accaparramento dei terreni agricoli, l’intermediazione dei prodotti, il trasporto e lo stoccaggio fino all’acquisto e all’investimento in centri commerciali. Tutti passaggi utili alla creazione del valore vengono presidiati.
Naturalmente questa presenza capillare “strozza” il mercato, distrugge la concorrenza e instaura un monopolio oppure un oligopolio basato sulla paura e la coercizione.
I gruppi criminali sono, dunque, in grado di gestire tutte le attività relative alla produzione e allo smercio dei prodotti agricoli, lungo tutta la filiera che va dalla produzione al trasporto e alla distribuzione finale.
Per quanto riguarda le discariche abusive e il traffico illecito dei rifiuti, il fenomeno, sempre più in espansione, si riscontra in quasi tutte le regioni, assumendo dimensioni nazionali e transnazionali.
Dirompente è anche il problema dell’agropirateria che è una vera spina nel fianco dei produttori e dei consumatori. Nel 2011 i sequestri operati dalle forze dell’ordine (13.867) sono più che triplicati rispetto al 2010 e sono stati pari a 1,2 miliardi di euro. Il fenomeno è in continua crescita, con frodi commerciali e sanitarie, falsificazioni, sofisticazioni e contraffazioni vere e proprie. E così il nostro Paese è al primo posto in Europa per le segnalazioni di cibi contaminati e contraffatti.
A questo si aggiunge il fatto che ogni anno, anche per opera della criminalità organizzata, entrano in Italia prodotti alimentari “clandestini” e “pericolosi” per oltre 2 miliardi di euro. Poco meno del 5 per cento della produzione agricola nazionale. I sequestri da parte delle autorità competenti italiane negli ultimi due anni si sono più che quadruplicati. I più colpiti dalle sofisticazioni sono i sughi pronti, i pomodori in scatola, il caffè, la pasta, l’olio di oliva, la mozzarella, i formaggi, le conserve alimentari.
I numeri della mafia in agricoltura:
Furti e rapine: 4,5 miliardi di euro
Racket: 3,5 miliardi di euro
Usura: 3 miliardi di euro
Truffe: 1,5 miliardi di euro
Contraffazione e agropirateria: 2 miliardi di euro
Macellazioni clandestine: 1 miliardo di euro
Abusivismo edilizio (saccheggi di patrimonio boschivo, idrico, faunistico e agricolo): 18,5 miliardi di euro
Ecomafie (rifiuti e reati contro l’ambiente): 16 miliardi di euro
Totale: 50 miliardi di euro
Ciò ripetiamo: nel solo settore agricolo.
Si sa: il boss non presenta bilanci e non emette fatture, ma i numeri girano e sono quelli dei centri studi, delle associazioni imprenditoriali e della Banca d’Italia. Volendo, infatti, fare una sintesi delle varie stime, si calcola che il fatturato annuo delle organizzazioni criminali oscilli tra i 170 e i 180 miliardi di euro l’anno.
L’Osservatorio Crisi d’Impresa di Cerved Group presenta e analizza con cadenza trimestrale l’andamento delle imprese italiane in tutti i settori merceologici, segnalando tutti i fallimenti e le altre procedure concorsuali.
Dagli ultimi dati Cerved l’agricoltura si segnala come il settore produttivo con il peggior saldo negativo di tutta l’economia italiana, con 40.000 aziende agricole in meno nel terzo trimestre 2012.
L’anno in corso può dunque essere ricordato come il peggiore periodo del settore agricolo italiano negli ultimi decenni.
Già il 2011 era stato un anno pessimo, con un pesante calo dei consumi interni solo parzialmente compensato dalla crescita dell’export agroalimentare, con la psicosi da Escherichia Coli che a giugno ha determinato un calo medio del 20% nel consumo di ortofrutta, con la drastica diminuzione dei prezzi pagati ai produttori ortofrutticoli (la frutta viene ormai pagata praticamente la metà rispetto a dieci anni fa, mentre i pastori vendono il latte sottocosto).
Il “CORRIDOIO VERDE” la cui iniziativa ha origine con la dichiarazione congiunta del 2002, firmata dai due Ministri dell’Agricoltura Egiziano ed Italiano con l’obiettivo di aumentare le esportazioni di prodotti ortofrutticoli egiziani verso l’Italia, e attraverso quest’ultima, verso l’Europa, nonché di aprire i mercati egiziani ad alcuni prodotti ortofrutticoli italiani a sostegno del fabbisogno internazionale (?), ha di fatto generato – soprattutto in danno del comparto agricolo italiano – un marcato regime di concorrenza sleale con conseguente, quanto inevitabile, depauperamento dell’economia nazionale a tutto vantaggio della malavita organizzata sempre pronta agli investimenti in “controtendenza”.
Il governo Monti ha introdotto la stangata dell’ IMU anche sugli immobili rurali, peggiorando ulteriormente un 2012 che già era iniziato malissimo fin da subito anche per il maltempo (danni all’agroalimentare italiano per almeno 500 milioni di euro già nel primo trimestre).
Nel frattempo i prezzi all’origine pagati ai produttori agricoli continuano a scendere, mentre il mercato della contraffazione alimentare è in continua crescita .
Le vendite di frutta e verdura sono in continuo calo, così come le vendite di vino sul mercato interno, mentre aumentano le tasse e a breve potrebbe arrivare anche la tassa sui junk food (cibo spazzatura) con prevedibile fuga dai mercati di quella sana imprenditoria che vessata da tassazioni insostenibili abbandonerà gli approvvigionamenti agricoli nazionali con ovvie conseguenze economiche per il comparto.
Nel frattempo si sta lavorando alla nuova PAC, che al momento prevede il taglio di 1,4 miliardi di euro all’agricoltura italiana.
A pesare, insieme alle difficoltà di mercato, sono l’aumento dei costi e la stretta creditizia nei confronti delle imprese.
A marzo i prezzi pagati agli agricoltori sono scesi in media del 2,3 per cento rispetto allo scorso anno, con crolli per olio di oliva (21,4 per cento), frutta (13 per cento), cereali (12 per cento) mentre si è verificato un aumento dei costi a partire da quelli energetici come il gasolio e la benzina.
Il credit crunch ha colpito anche i campi dove sei imprese agricole su dieci hanno difficoltà ad accedere al credito, con il costo del denaro in agricoltura che ha raggiunto il 6 per cento e risulta superiore del 30 per cento a quello medio del settore industriale.
La legge sulla esdebitazione agricola (c.d. LEGGE ROMANO), ultima speranza per la sopravvivenza di un comparto che conta milioni di persone, varata nel luglio 2011 con il proposito di collaborazione tra ABI e ISMEA ai fini della ristrutturazione dei debiti delle imprese agricole con conseguente accesso a nuovo credito per le stesse, ad oggi batte il passo per la superficialità con cui questa è stata presa in considerazione e per le errate interpretazioni che – possiamo affermare – sono state date ad essa ad ostacolo della sua effettiva applicazione.
In tempi di crisi globale, di spread impazzito, e di banche che chiudono i rubinetti del credito alle imprese legali, Cosa Nostra, camorra e ‘ndrangheta, sono le uniche “imprese” a disporre di capitali freschi da immettere sul mercato.
E qui s’inserisce il problema delle aste giudiziarie, dove le aziende agricole soffocate dai debiti passano la mano, prestando il fianco ad acquisti e trasferimenti di proprietà a soggetti esterni all’agricoltura.
Quello è mestiere per chi sa tenere a bada le offerte fino a far crollare il prezzo ed entrare in gioco solo quando le decurtazioni hanno fatto precipitare il valore del compendio pignorato.
Un gioco di astuzia che autorizza metodi come l’allontanamento preventivo dei concorrenti o i patti di cartello che consentono la turnazione alle aste di gruppi organizzati.
Si calcola che a rischio sia almeno il venti per cento delle compravendite, in cifre due miliardi di euro all’anno. Con buona pace del fisco che vedrà volatilizzarsi parte del proprio gettito in favore di una “tassazione criminale”.
Il sistema prevede che la vendita sia gestita da un giudice ma con l’obiettivo di velocizzare le transazioni e smaltire l’arretrato, chiudendo in tempi ragionevoli procedure esecutive che durano anche 15 anni.
Dal primo marzo 2006 si è introdotta, poi, la delega ai professionisti.
Avvocati, commercialisti, esperti contabili, oltre ai notai che già operavano in precedenza, possono ora procedere alla vendita.
Le aste sono pubbliche, chiunque può assistervi – gli annunci compaiono sui giornali e su Internet – e chiunque, meno che il vecchio proprietario, può concorrere.
Nella vendita senza incanto le offerte arrivano in busta chiusa e rimangono segrete fino alla data fissata per l’aggiudicazione.
Nel sistema con incanto, invece, le offerte vengono formalizzate a voce. La procedura prevede un sistema alternato fino a sei tentativi, esauriti i quali l’immobile scende ancora di prezzo e si ricomincia.
C’è poi l’aspetto del riciclaggio del denaro.
Tra cauzione e oneri, per partecipare a un’asta, bisogna disporre di denaro contante: il dieci per cento subito, il saldo dall’aggiudicazione con assegni circolari in un periodo che va dai venti ai sessanta giorni. Tempi troppo stretti se si considerano quelli medi per ottenere un mutuo.
All’acquisto si arriva con assegni circolari emessi dagli istituti bancari.
E qui c’è un’altra possibile falla: Il sistema dei controlli è assolutamente inesistente.
A partire dalla provenienza dei soldi che arrivano a costituire il capitale di acquisto.
Basta aggirare le norme antiriciclaggio, con la complicità di una mano amica dietro allo sportello, per trasformare il denaro contante di dubbia provenienza in assegni circolari, e trovarsi in mano soldi puliti con i quali comprare all’asta un bene che rientra nel circuito legale.
Nessuno va veramente a controllare come si sia costituito quel capitale: se provenga da un mutuo, da risparmi o dalla massiccia immissione di contante ripulito in banca. All’occhio attento di chi legge non sarà sfuggito che quanto sopra evidenziato è tratto da citazioni, tabelle, estratti di inchieste giornalistiche e da molti dati già in possesso delle Forze dell’Ordine.
Nulla di nuovo, infatti, può essere aggiunto a quanto già ampiamente denunciato da quanti auspicano un intervento delle Autorità competenti anche a sostegno dell’economia nazionale: si, perché la lotta alle mafie è anche e soprattutto questo.
Ciò che non si rileva invece da tutte le analisi studiate e sopra riportate è una proposta di rimedio tesa ad arginare se non, addirittura, a contrastare efficacemente l’acquisizione delle imprese italiane (agricole e non) da parte delle organizzazioni criminali.
Partendo, dunque, dai dati sopra riportati e ben noti a tutti, abbiamo notato che, malgrado la crisi così foraggiata, le aziende agricole vengono regolarmente aggiudicate all’asta spesso da soggetti dalle dubbie possibilità economiche.
Ci siamo, dunque, chiesti come può il semplice impiegato, la casalinga, l’imprenditore fallito, il nullatenente aggiudicarsi, come sempre più di frequente accade, beni per centinaia di migliaia di euro ovviamente pagati, per chiara previsione normativa, in contanti (rectius: in unica soluzione).
Certo, sicuramente, tra la moltitudine, c’è anche chi ha lecite disponibilità economiche e ritiene di poter fare l’affare della vita, ma chi investirebbe oggi in un settore in cui gli stessi operatori non credono perchè ritengono più conveniente non seminare che raccogliere visti i costi eccessivamente elevati a fronte del guadagno sempre più ristretto e dubbio.
E ancora: chi si avvicina al mondo dell’agricoltura non è uno sprovveduto; conosce bene il regime dei contratti di affitto agrario e la durata spesso ultrequindicennale degli stessi.
Chi avrebbe interesse ad investire nella terra pur nella consapevolezza di dover affrontare – con molta probabilità – azioni giudiziarie lunghe e dispendiose per poi finire a dover riconoscere all’affittuario (alla scadenza del contratto) centinaia di migliaia di euro a titolo di rimborso per le spese di miglioria da questi apportate al fondo oggetto di aggiudicazione ?
Ebbene, in questo scenario, il vuoto normativo che vede la perfezione dell’aggiudicazione nelle aste giudiziarie con la sola emissione del decreto di trasferimento in favore dell’aggiudicatario, nell’inerzia del potere legislativo evidentemente sordo ai richiami del bisogno sociale, può essere facilmente colmato con strumenti operativi già esistenti ed operativi in altre situazioni di minore impatto criminale.
Un mero accertamento della Guardia di Finanza sullo stato patrimoniale di chi acquista alle aste, teso alla verifica della legittima provenienza del denaro impiegato come della effettiva possibilità economica di chi trova l’aggiudicazione, nulla apportando in termini di costi o di ingerenza in competenze estranee alle proprie, è la soluzione più semplice da adottare anche (e soprattutto) per scoraggiare infiltrazioni malavitose che vedrebbero vanificato il loro intervento finanziario anche – in più – per il concreto rischio di vedersi confiscate le somme già versate a pagamento del prezzo di aggiudicazione.
Tutto quanto sopra, si spera, in attesa di una integrazione normativa da parte del Governo che prescriva il congelamento del detto decreto di trasferimento fino all’esito positivo dell’espletato accertamento.
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