LAVORO (CONTRATTO COLL.) - LAVORO (RAPPORTO)
Cass. civ. Sez. lavoro, 02-11-2005, n. 21213 |
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri
Magistrati:
Dott. IANNIRUBERTO Giuseppe -
Presidente
Dott. CAPITANIO Natale -
Consigliere
Dott. ROSELLI Federico -
Consigliere
Dott. VIDIRI Guido - Consigliere
Dott. BALLETTI Bruno - rel.
Consigliere
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
(omissis)
nella sua qualità di erede del marito (omissis)
e di genitrice esercente la potestà genitoriale sulla figlia minore
(omissis) rappresentata e difesa - giusta
procura a margine del ricorso - dall'avv. LOMBARDI Guido ed
elettivamente domiciliata in Roma alla via Conca d'Oro 378 (presso lo
studio dell'avv. Carmelo Monaco);
- ricorrente -
contro
(omissis)
s.p.a., in persona del suo legale rappresentante pro tempore,
rappresentata e difesa dall'avv.to QUARRACINO Domenico e con l'avv.
ORSINI Alessandro, presso il cui studio elettivamente domicilia in Roma
al viale Giulio Cesare 78, giusta procura a margine del controricorso;
- controricorrente -
avverso la sentenza della Corte di
Appello di Napoli-Sezione Lavoro n. 3110/02 del 2 dicembre 2002 (resa
nel giudizio di appello avente il n. di r.g. 395/02).
Udita la relazione della causa
svolta nella Pubblica udienza del 28 settembre 2005 dal consigliere
Dott. Bruno Balletti;
Uditi gli avv.ti Guido Lombardo e
Raffaele Boccagna (per delega dell'avv. Domenico Quarracino);
Udito il P.M. in persona del
Sostituto Procuratore Generale Dott. MATERA Marcello che ha concluso per
raccoglimento del ricorso per quanto di ragione.
Svolgimento del processo
Con ricorso ex art. 414 cod.
proc. civ. al Giudice del Lavoro di S. Maria Capua Vetere
(omissis) conveniva in giudizio la s.p.a.
(omissis)
esponendo: a) di aver prestato lavoro subordinato alle dipendenze di
detta società dal 18 febbraio 1988 e di essere stato licenziato per
giusta causa con lettera del 27 marzo 1999 per assenze ingiustificate
dal 7 marzo 1999; b) di avere impugnato il cennato licenziamento con
lettera del 21 marzo 1999 eccependo che nei giorni di assenza contestati
aveva dovuto assistere la figlia Annunziata di cinque anni, affetta da
sospetta broncopolmonite basale bisognevole di cure e di assenza
domiciliare continua da parte di entrambi i genitori. Il ricorrente
richiedeva, quindi, all'adito Giudice del lavoro di voler dichiarare
"illegittimo, invalido e nullo" il licenziamento come dinanzi intimato
con tutte le conseguenze reintegrazione e risarcitorie dovute per legge.
Si costituiva in giudizio la
s.p.a. (omissis) che impugnava
integralmente la domanda attorea e ne chiedeva il rigetto.
L'adito Giudice del lavoro - dopo
avere ammesso e fatto espletare prova testimoniale - accoglieva la
domanda attorea, ma - su impugnativa della società soccombente e
ricostituitosi il contraddittorio - la Corte di Appello di Napoli "in
riforma dell'impugnata sentenza dichiara illegittimo il licenziamento
(peraltro dichiarato legittimo in motivazione) irrogato al
(omissis) il 27 marzo 1999; compensa
interamente le spese del doppio grado".
Per quello che rileva in questa
sede il Giudice di appello ha rimarcato che: a) "la fattispecie va
esaminata in base alla previsione di cui all'art. 148 del c.c.n.l. in
questione, a norma del quale salvo i casi di legittimo impedimento di
cui sempre incombe al lavoratore l'onere della prova, e fermo restando
l'obbligo di dare immediata notizia dell'assenza al datore di lavoro, le
assenze devono essere giustificate per iscritto presso l'azienda entro
48 ore, per gli eventuali accertamenti. Nel caso di assenze non
giustificate sarà operata la trattenuta di tante quote giornaliere della
retribuzione di fatto...quante sono le giornate di assenza, fatta salva
l'applicazione della sanzione prevista dal successivo art. 151, seconda
parte"; b) "l'art. 151 commina il licenziamento per l'ipotesi di assenza
ingiustificata oltre tre giorni nell'anno solare"; c) "solo in caso di
legittimo impedimento del lavoratore, a carico del quale incombe l'onere
della relativa prova, viene meno la correlazione tra l'ingiustificatezza
dell'assenza e la sanzione disciplinare del licenziamento"; d/1) "il
(omissis) adduceva giustificazione delle
assenze con lettera in data 15 marzo 1999 soltanto a seguito della
ricezione della lettera con cui la società gli aveva contestato - con
lettera del 12 marzo 1999 - la sua assenza non giustificata iniziatasi
il 7 marzo precedente e protrattasi fino alla suddetta data"; d/2) "solo
a seguito della ricezione (il 13 marzo 1999) di tale lettera il
(omissis) si è dunque risolto a fornire
giustificazioni scritte deducendo ivi di aver assistito, nel periodo in
oggetto, la figlia (omissis) per una
sospetta broncopolmonite diagnosticatale, e comunque di aver
tempestivamente giustificato in ufficio la sua assenza, comunicando con
l'addetta al personale, rag. De Chiara"; d/3) "a prescindere dal
rilevare che nella lettera di giustificazione non è indicato il momento
in cui il (omissis) aveva comunicato con
la De Chiara e che costei (sentita quale teste in primo grado) ha
riferito che la comunicazione del (omissis)
era intervenuta solo a seguito della contestazione fattagli, sta di
fatto che la mancata giustificazione per iscritto sui motivi
dell'assenza, risulta essersi protratta per oltre tre giorni", e)
"rimangono, quindi, integrati gli estremi della previsione contrattuale
(artt. 148 e 151) per la irrogazione del licenziamento disciplinare".
Per la cassazione di tale sentenza
(omissis), in qualità di erede del marito
(omissis) - deceduto nelle more del
giudizio - e di genitrice esercente la potestà genitoriale sulla figlia
minore (omissis), propone ricorso
sostenuto da cinque motivi.
La s.p.a.
(omissis) resiste con controricorso eccependo preliminarmente la
"nullità della procura difensiva ex art. 365 cod. proc. civ." e
la "carenza di legittimazione attiva della ricorrente".
Motivi della decisione
1 -. Con il primo motivo di
ricorso la ricorrente - denunciando "violazione e falsa applicazione di
norme di diritto ( art. 4 Cost. art. 131 disp. att. cod. proc.
civ., art. 277 cod. proc. civ., art. 2106 cod. civ.)" - censura
la sentenza impugnata per avere la Corte di appello omesso "di
pronunziarsi sulla rilevata sproporzione tra il licenziamento irrogato e
l'inadempienza imputata" e trascurato che "in ogni caso proprio sulla
base dei fatti emersi non era possibile ritenere non legittimo
l'impedimento documentato da certificato medico nel quale era prescritta
l'assistenza continuativa di entrambi i genitori, per cui di fronte al
rischio di una patologia molto grave per una bambina di appena cinque
anni, caratterizzata da una evoluzione non sempre controllabile proprio
nella prima importantissima fase della malattia, non si poteva
sostituire una logica empirica ad un protocollo di diagnosi proveniente
da un sanitario e documentata da un certificato senza incorrere nel
vizio di irragionevolezza ed incompletezza nella motivazione su punto
decisivo della controversia".
Con il secondo ed il terzo motivo
di ricorso la ricorrente - denunciando "violazione e falsa applicazione
degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. (secondo motivo) e
omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione (terzo motivo)" -
rileva criticamente che la Corte territoriale "avrebbe dovuto quanto
meno ritenere non accertati i fatti decisivi della controversia e
disporre la rinnovazione della prova orale od ogni altro mezzo di prova
ritenuto dirimente ex art. 437 cod. proc. civ." e, in
particolare, rimarca che "per quanto attiene, alla mancata comunicazione
immediata della malattia da un lato l'art. 91, primo comma, del c.c.n.l.
si riferisce testualmente alla sola malattia interessante la persona
fisica del lavoratore e non è suscettibile di alcuna applicazione
analogica e, per altro verso, ai sensi dell'art. 92, primo comma, dello
stesso contratto collettivo "il lavoratore assente per malattia è tenuto
a rispettare scrupolosamente le prescrizioni mediche inerenti la
permanenza presso il proprio domicilio", per cui non avrebbe potuto il
ricorrente assentarsi dal proprio domicilio per fare un telegramma in
presenza di un certificato medico che gli imponeva di assistere in modo
continuativo la piccola figlia ammalata".
Con il quarto motivo la ricorrente
- denunciando "la violazione e la falsa applicazione dell'art. 39
Cost." - rileva che "l' art. 39 Cost. prevede che i
contratti collettivi di lavoro acquisiscano efficacia obbligatoria per
tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si
riferisce solo in presenza della loro registrazione secondo le norme di
legge e la conseguente assunzione di personalità giuridica, sicchè, allo
stato, i sindacati costituiscono associazioni non riconosciute e non
registrate, per cui le disposizioni di contratto collettivo non possono
essere automaticamente applicate a tutti i lavoratori di un settore, a
maggior ragione allorquando la disciplina collettiva sia meno favorevole
rispetto alla stessa normativa dettata nello statuto dei lavoratori di
cui alla legge n. 300/1970".
Con il quinto motivo di ricorso la
ricorrente - denunciando "violazione e falsa applicazione dell'art.
156 cod. proc. civ." - evidenzia criticamente che "la
contraddittorietà rilevata tra la parte motiva in premessa della
sentenza della Corte di Appello e la parte dispositiva rendono la
sentenza nulla per impossibilità di raggiungere lo scopo di dirimere la
controversia". 2/a -. Preliminarmente sono da valutare le eccezioni
sollevate dalla società controricorrente.
In primo luogo deve essere
respinta l'eccezione di nullità della procura difensiva per essere la
stessa stata apposta a margine del ricorso per Cassazione "senza data",
"senza l'indicazione specifica a proporre ricorso per Cassazione" e
"senza l'elezione del domicilio in Roma".
Mentre quest'ultimo punto è
resistito inequivocabilmente dall'espresso disposto del secondo comma
dell'art. 366 cod. proc. civ. -a norma del quale "se il
ricorrente non ha eletto domicilio in Roma, le notificazioni gli sono
fatte presso la cancelleria della Corte di Cassazione" -, in ordine agli
altri rilievi questa Corte ha statuito che "la procura speciale a
margine del ricorso per Cassazione è valida se, pur non contenendo
specifici riferimenti al giudizio di legittimità, non rechi espressioni
che univocamente conducano a ritenere che la parte abbia inteso
riferirsi ad altro giudizio sicchè, in caso di procura apposta a margine
o in calce al ricorso o al controricorso, essa, facendo materialmente
corpo con l'atto cui inerisce, esprime inequivocabilmente il necessario
riferimento all'atto stesso, assumendo così il carattere di specialità,
anche se formulata genericamente e senza uno specifico riferimento al
giudizio di legittimità" (Cass. n. 9287/1997).
Di conseguenza, si conferma
l'infondatezza della cennata eccezione.
2/b -. Anche la seconda eccezione
sollevata con il controricorso si appalesa infondata.
Infatti, l'affermazione di
"carenza di legittimazione attiva della ricorrente" è stata fatta dalla
controricorrente in modo del tutto apodittico e viene fondatamente
resistita dalla comprovata qualità di successore a titolo universale
della odierna ricorrente - quale coniuge di
(omissis) (deceduto, come si è dinanzi rilevato, nelle more del
giudizio) e quale esercente della potestà genitoriale della figlia
minore (omissis) - che, quindi, era
pienamente legittimata a proporre ricorso per Cassazione contro la
sentenza emessa nel giudizio in cui era parte il defunto originario
ricorrente, rispettivamente, marito e padre dei soggetti interessati al
presente giudizio di legittimità.
Pertanto, pure tale eccezione
preliminare deve essere respinta.
3 -. Passando ora all'esame del
ricorso come dinanzi proposto, i cennati motivi di impugnativa -
esaminabili congiuntamente in quanto intrinsecamente connessi - appaiono
fondati entro i limiti delle considerazioni che seguono.
Nella specie, la Corte
territoriale ha ritenuto legittimo il licenziamento disciplinare
intimato dalla s.p.a. (omissis) a franco
(omissis) per aver ritardato a
giustificare la sua assenza dal lavoro protrattasi per oltre tre giorni
e dovuta all'esigenza di prestare assistenza domiciliare continua alla
figlia Annunziata affetta da broncopolmonite: decisione questa censurata
sostanzialmente dalla ricorrente per mancanza di proporzionalità tra
l'infrazione addebitata e la sanzionata espulsiva comminata e,
conseguentemente, tale profilo di censura deve essere valutato in via
assolutamente prioritaria.
4 -. In linea generale, in tema di
licenziamento individuale per giusta causa o per giustificato motivo
soggettivo, ai sensi dell'art. 2119 cod. civ. e dell'art. 3 della
legge n. 604/1966, il giudizio di proporzionalità o adeguatezza
della sanzione all'infrazione commessa si sostanzia nella valutazione
della gravità dell'inadempimento imputato al lavoratore in relazione al
concreto rapporto e a tutte le circostanze del caso, dovendo, a tal
uopo, tenersi in considerazione la circostanza che l'inadempimento, ove
provato dal datore di lavoro in assolvimento dell'onere su di lui
incombente ex art. 5 della citata legge n. 604/1966, deve
essere valutato in considerazione precipua della specificazione in senso
accentuativo a tutela del lavoratore rispetto alla regola generale della
"non scarsa importanza" di cui all'art. 1455 cod. civ., sicchè
l'irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata
solamente in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi
contrattuali ovvero tale da non consentire la prosecuzione neppure
provvisoria del rapporto lavorativo (Cass. n. 444/2003).
Anche sotto tale profilo, l'art. 1
della legge n. 604/1966 - con l'indicazione della nozione di
"giusta causa" del licenziamento e del presupposto del carattere di
"proporzionalità" tra il fatto addebitato e la sanzione inflitta -
rientra nell'ambito delle "norme elastiche" e di quelle (ad esse
connesse ma con le stesse non confondibili) rientranti nella nozione di
"clausola generale", cioè delle norme il cui contenuto, appunto,
elastico richiede giudizi di valore in sede applicativa, in quanto la
gran parte delle espressioni giuridiche contenute in norme di legge sono
dotate di una certa genericità la quale necessita, inevitabilmente, di
un'opera di specificazione da parte del giudice che è chiamato a darvi
applicazione.
Pervero deve precisarsi che
l'applicazione delle disposizioni formulate in virtù dell'utilizzo di
concetti giuridici indeterminati non coinvolge un mero processo di
identificazione dei caratteri del caso singolo con gli elementi della
fattispecie legale astratta e richiede, invece, da parte del giudice
l'esercizio di un notevole grado di discrezionalità al fine di
individuare nella specifica fattispecie concreta le ragioni che ne
consentano la riconduzione alle nozioni usate dalla norma. Entro
siffatta valutazione il giudice, oltre a risolvere la specifica
controversia, partecipa in tal modo alla formazione del concetto (e,
cioè, alla sua progressiva definizione in relazione al valore semantico
del termine), con la precisazione che il significato adottato non può
prescindere dalle convenzioni semantiche sussistenti all'interno di una
data comunità in una certa epoca storica e, sotto concorrente profilo,
dai principi generali (specie di rango costituzionale) propri
dell'ordinamento positivo.
In particolare, l'operazione
valutativa compiuta dal giudice di merito - che, nell'applicare clausole
generali come quella dell'art. 2119 cod. civ. in tema di licenziamento
disciplinare, detta una tipica "norma elastica" - non sfugge ad una
verifica in sede di giudizio di legittimità, sotto il profilo della
correttezza del metodo seguito nell'applicazione della clausola
generale, poichè l'operatività in concreto di norme di tale tipo deve
rispettare criteri e principi desumibili dall'ordinamento generale a
cominciare dai principi costituzionali e dalla disciplina particolare in
cui la concreta fattispecie si colloca; più specificatamente, è
censurabile il metodo applicativo seguito da giudice di merito, ove
questi abbia trascurato i principi costituzionali che impongono un
bilanciamento dell'interesse del lavoratore, protetto dall'art. 4
Cost. con quello dell'impresa datrice di lavoro, tutelato dall'art.
41 Cost. - bilanciamento che in materia di licenziamento
disciplinare si riassume nel criterio, dettato dall'art. 2106 c.c.,
della proporzionalità della sanzione disciplinare all'infrazione
contestata - e, analogamente, se, in relazione all'esigenza di
conformazione agli ulteriore standard valutativi rinvenibili, oltre che
nella disciplina collettiva, anche nella coscienza sociale (con
esclusione comunque di quelli fondati su vaghi criteri moralistici o
politici), abbia dato acritico rilievo alla astratta qualificabilità
come infrazioni di determinati comportamenti, senza la necessaria
considerazione degli elementi soggettivi e della concreta incidenza
pregiudizievole sulla sfera del datore di lavoro.
Conclusivamente, sull'approccio in
generale alla questione de qua, la verifica giudiziale sulla correttezza
dell'espletamento del procedimento disciplinare in tutte le sue fasi e
sulla sussistenza del presupposto della giusta causa di licenziamento -
riguardo ai profili valutati nel giudizio di merito siccome applicativi
di "norme elastiche" - è soggetta sicuramente a controllo di legittimità
al pari di ogni altro giudizio fondato su qualsiasi norma di legge: in
adesione così all'orientamento giurisprudenziale di cui alla sentenze di
questa Corte nn. 10514/1998 e 434/1999, non ritenendosi condivisibile il
contrario indirizzo espresso nelle sentenze nn. 2616/1990 e 154/1997, in
quanto, nell'esprimere il giudizio di valore necessario per integrare
una "norma elastica" (che, per la sua stessa struttura, si limita ad
indicare un parametro generale), il giudice di merito compie un'attività
di interpretazione giuridica e non meramente fattuale della norma
stessa, per cui da concretezza a quella parte mobile ("elastica") della
stessa che il legislatore ha voluto tale per adeguarla ad un determinato
contesto storico sociale, non diversamente da quando un determinato
comportamento viene giudicato conforme o meno a buona fede allorchè la
legge richieda tale elemento: di conseguenza, la valutazione di
conformità dei giudizi di valore espressi dal giudice di merito per la
funzione integrativa che essi hanno delle regole giuridiche spetta al
giudice di legittimità nell'ambito della funzione nomofilattica che
l'ordinamento ad esso affida.
In ogni caso, quando le ragioni
addotte dal giudice di appello per pervenire ad una decisione
sanzionante la validità di un licenziamento assunta sulla base di un
procedimento disciplinare di cui è stata contestata la legittimità sono
state sviluppate giusta un percorso argomentativo caratterizzato da
carenze motivazionali, il controllo di legittimità da parte della Corte
di Cassazione non si esaurisce in una verifica di correttezza
dell'aspetto formale diretto a verificare il contenuto della norma, ma è
esteso alla sussunzione del fatto, accertato dal giudice di merito,
nell'ipotesi normativa (Cass. sez. un. n. 5/2001) e, comunque, spetta al
giudice di legittimità il controllo sulla logicità della motivazione
della decisione del giudice del merito (Cass. n. 16805/2002).
V -. Tanto precisato in linea
generale, si conferma - al fine di inquadrare la fattispecie nell'ambito
dei cennati principi - la fondatezza della censura della ricorrente sul
punto che il Giudice di appello sia incorso in decisivi errori nella
valutazione complessiva del provvedimento disciplinare e della sua
legittimità, specie sotto il profilo della corretta verifica del
fondamentale presupposto sancito ex lege di proporzionalità tra
infrazione disciplinare e sanzione espulsiva irrogata.
A tale riguardo si rileva che
nella sentenza impugnata: a) viene riportata la disposizione dell'art.
145 del c.c.n.l. applicabile nella specie che sancisce l'obbligo per il
lavoratore di "giustificare per iscritto la assenze entro le 48 ore" e
"nel caso di assenza non giustificata il diritto dell'imprenditore di
operare la trattenuta di tante quote giornaliere dalla retribuzione di
fatto quante sono le giornate di assenza, salva l'applicazione della
sanzione prevista dal successivo art. 151", disposizione quest'ultima
che "commina il licenziamento disciplinare nell'ipotesi di assenza
giustificata oltre tre giorni nell'anno solare";
b) è stata considerata quale
infrazione sanzionata con il licenziamento il ritardo del
(omissis) nella giustificazione
dell'assenza (lett.: "la mancata giustificazione dell'assenza
protrattasi per oltre tre giorni costituisce inadempimento sanzionarle
sul piano disciplinare con il licenziamento"), e non l'assenza
ingiustificata di per sè (che, anzi, è ritenuta comprovata: lett.
"necessità, evidenziata nella certificazione medica, di una assistenza
domiciliare continua da parte dei genitori").
Dai cennati rilievi appare
evidente come la Corte territoriale non si sia data carico di
distinguere tra ritardo nella giustificazione dell'assenza e assenza
ingiustificata, nonostante che la prima ipotesi configurasse certo una
infrazione meno grave della seconda - sebbene, vale rimarcarlo, anche
l'infrazione tipizzata in sede di contrattazione collettiva di "assenza
ingiustificata di tre giorni nell'anno solare" può non legittimare un
licenziamento disciplinare sotto il profilo della proporzionalità tra
infrazione e sanzione (sempre se il datore di lavoro non comprovi che,
data l'assoluta peculiarità della prestazione lavorativa del dipendente
assente, la relativa assenza ingiustificata per un breve periodo di
tempo possa provocare obiettive conseguenze negative al ciclo produttivo
aziendale).
La Corte di appello di Napoli è,
quindi, incorso in decisivi errore - mediante, altresì, un percorso
argomentativo caratterizzato dalle cerniate carenze motivazionali -
nelle valutazioni della gravità dell'infrazione addebitata al lavoratore
e, in particolare, nella mancata disamina di un effettivo riscontro di
sussistenza nella specie della necessaria proporzionalità del
licenziamento disciplinare all'effettivo addebito.
Per pervenire a siffatta errata
decisione la Corte territoriale non ha considerato - per ribadire qui i
principi immotivatamente trascurati - che il licenziamento disciplinare,
come ogni altra sanzione disciplinare, deve rappresentare una
conseguenza proporzionata alla violazione commessa dal lavoratore; anzi,
in ragione del fatto che il licenziamento disciplinare costituisce la
più grave delle sanzioni, occorre che la mancanza di cui il dipendente
si è reso responsabile rivesta una gravità tale che qualsiasi altra
sanzione risulti insufficiente a tutelare l'interesse del datore di
lavoro (Cass. n. 4138/2000). Per cui il licenziamento disciplinare può
considerarsi legittimo solo se, valutando ogni aspetto del caso concreto
(sia nel suo contenuto oggettivo che sotto il profilo psicologico), la
mancanza del lavoratore si riveli di tale gravità che ogni altra
sanzione risulti insufficiente a tutelare l'interesse del datore di
lavoro, nonchè sia tale da far venir meno l'elemento fiduciario
costituente il presupposto fondamentale della collaborazione tra le
parti del rapporto di lavoro (Cass. n. 6216/1998), atteso, altresì, che
il giudizio di proporzionalità tra fatto addebitato al lavoratore e
licenziamento disciplinare non va effettuato in astratto, bensì con
specifico riferimento a tutte le circostante del caso concreto,
all'entità della mancanza (considerata non solo da un punto di vista
oggettivo, ma anche nella sua portata soggettiva e in relazione al
contesto in cui essa è stata posta in essere), ai moventi, all'intensità
dell'elemento intenzionale e al grado di quello colposo (Cass. n.
4881/1998).
In ogni caso, il requisito della
proporzionalità ha una valenza particolare nel caso del licenziamento
disciplinare perchè, costituendo questo pur sempre un licenziamento per
giusta causa o per giustificato motivo soggettivo, le parti contrattuali
nel raccordare gli illeciti alle sanzioni e, quindi, nel definire il
codice disciplinare godono di una minore autonomia negoziale considerato
che la nozione di giusta causa e di giustificato motivo oggettivo è
inderogabilmente fissata (seppur in termini generali) dalla legge.
Segnatamente la previsione di
ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta in un contratto
collettivo non vincola il giudice, dato che questi deve sempre
verificare, stante l'inderogabilità della disciplina dei licenziamento,
se quella previsione sia conforme alla nozione di giusta causa, di cui
all'art. 2119 cod. civ., e se, in relazione al principio generale di
ragionevolezza e di proporzionalità, il fatto addebitato sia di entità
tale da legittimare il recesso, tenendo anche conto dell'elemento
intenzionale che ha sonetto la condotta del lavoratore, salvo il caso in
cui il trattamento contrattuale sia più favorevole al lavoratore. Con
riferimento a tale principio questa Corte ha affermato che le clausole
della contrattazione collettiva che prevedono per specifiche
inadempienze del lavoratore la sanzione del licenziamento per giusta
causa o per giustificato motivo soggettivo non esimono il giudice
dell'obbligo di accertare in concreto la reale entità e gravità delle
infrazioni addebitate al dipendente nonchè il rapporto di
proporzionalità tra sanzione e infrazione (Cass. n. 13983/2000, Cass.
8139/2000, Cass. n. 1604/1998).
6 -. In definitiva, sulla base
delle considerazioni svolte e restando assorbita ogni ulteriore censura,
la sentenza impugnata deve essere cassata entro i limiti suindicati, con
rinvio della causa ad altro Giudice - che si designa nella Corte di
appello di Salerno - perchè proceda al riesame della controversia sulla
base di una corretta valutazione del principio di proporzionalità tra
infrazione effettivamente commessa dal lavoratore e sanzione
disciplinare legittimante il licenziamento attenendosi ai criteri
precisati sub "capo 5" e dando, poi, corretta motivazione al conseguente
decisum.
Il Giudice del rinvio provvedere,
altresì, in ordine alla spese del giudizio di Cassazione ( art. 385,
terzo comma, cod. proc. civ.).
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso per
quanto di ragione; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le
spese, alla Corte di Appello di Salerno.
Così deciso in Roma, il 28
settembre 2005.
Depositato in Cancelleria il 2
novembre 2005
c.c. art. 2119
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