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martedì 18 giugno 2013

Cassazione: L'incidente stradale può essere risarcito se causato da stress da lavoro





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Cass. civ. Sez. lavoro, 07-06-2007, n. 13309


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE
LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MERCURIO
Ettore - Presidente

Dott. MAIORANO Francesco Antonio - Consigliere

Dott. CELENTANO Attilio - rel. Consigliere

Dott. D'AGOSTINO Giancarlo
- Consigliere

Dott. BALLETTI Bruno - Consigliere

ha pronunciato la
seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

P.R., elettivamente
domiciliato in ROMA P.LE CLODIO 32, presso lo studio dell'avvocato
CIABATTINI SGOTTO LIDIA, che lo rappresenta e difende, giusta delega in
atti;

- ricorrente -

contro

SAI SPA, in persona del legale
rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIA DELLA
CONCILIAZIONE 44, rappresentata e difesa dall'avvocato PERILLI MARIA
ANTONIETTA, giusta delega in atti;

- controricorrente -

e contro

BANCA ANTONIMIA POPOLARE VENETA SPA, subentrata per incorporazione alla
BANCA NAZIONALE DELL'AGRICOLTURA SPA, in persona del legale
rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA C.SO
VITTORIO EMANUELE 326, presso lo studio dell'avvocato SCOGNAMIGLIO
RENATO, che la rappresenta e difende, giusta delega in atti;

-
controricorrente -

avverso la sentenza n. 451/04 della Corte d'Appello
di L'AQUILA, depositata il 04/06/04 - R.G.N. 783/2002;

udita la
relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 12/04/07 dal
Consigliere Dott. Attilio CELENTANO;

udito l'Avvocato CIABATTINI;

udito l'Avvocato PIRILLI;

udito il P.M. in persona del Sostituto
Procuratore Generale Dott. APICE Umberto, che ha concluso per il
rigetto del ricorso.


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Fatto Diritto P.Q.M.
Svolgimento del processo
Il Pretore di Roma
respingeva la domanda del Dr. P.R. diretta ad ottenere la condanna del
datore di lavoro, Banca Nazionale dell'Agricoltura, al pagamento di L.
un miliardo a titolo di risarcimento dei danni subiti in un incidente
stradale, causato da stress lavorativo.

Con sentenza del 27 maggio/7
dicembre 1998 il Tribunale di Roma rigettava l'appello principale del
lavoratore e quello incidentale del datore di lavoro, diretto ad
ottenere la restituzione della retribuzione pagata durante la malattia
conseguente all'infortunio.

A fondamento della decisione il Tribunale
poneva il principio di diritto secondo il quale una condotta umana
(nella specie quella del datore di lavoro, per asserita violazione
dell'art. 2087 c.c.) può essere ritenuta causa di un determinato evento
solo quando questo appaia come conseguenza normale dell'antecedente,
nel senso che tra questo e l'effetto consequenziale deve esistere un
rapporto di sequenza costante, secondo un calcolo di regolarità
statistica, sì da potersi ritenere che il pregiudizio rientri nelle
normali conseguenze dell'illecito, secondo le regole della cd.
regolarità causale; viceversa, deve escludersi il nesso eziologico tra
il comportamento umano e l'evento ove le conseguenze verificatesi siano
eccezionali secondo un giudizio di probabilità ex ante, quale un
incidente stradale rispetto a condizioni lavorative stressanti. Sulla
scorta di tale principio il Tribunale riteneva irrilevanti le prove
richieste dal Dr. P. in primo grado.

Di questa sentenza il lavoratore
chiedeva la cassazione, denunciando violazione degli artt. 1175, 1375,
2110, 2087, 2043 e 2697 c.c., in relazione agli artt. 112, 113, 115,
116 e 437 c.p.c.; nonchè vizio di motivazione su punto decisivo.

Censurava la decisione nella parte in cui, per erronea interpretazione
dell'art. 2087 c.c., non aveva ammesso le prove ritualmente richieste
in primo grado, volte a dimostrare che l'incidente trovava causa nello
stress derivante dagli orari di lavoro, dalle condizioni di trasferta e
dalle particolari condizioni familiari (moglie operata per tumore e
figlia ammalata di crisi convulsive), note al datore di lavoro, e per
le quali aveva chiesto uno spostamento di sede. Denunciava
contraddittorietà tra esigenze probatorie e negata ammissione delle
prove.

Con sentenza n. 5 del 25 ottobre 2001/2 gennaio 2002 questa
Corte accoglieva il ricorso, cassava la sentenza impugnata e rinviava
la causa alla Corte di Appello di L'Aquila.

La sentenza rescindente
rilevava la erroneità del principio di diritto enunciato dal Tribunale
di Roma in materia di nesso causale.

Spiegava che nel sistema
risarcitorio civilistico vige la regola della cd. causalità adeguata o
regolarità causale; che l'incidenza eziologica delle "cause
antecedenti" va valutata, per un verso, nel quadro dei presupposti
condizionanti e, per altro verso, in coordinazione con il principio
della causalità efficiente, principio che espunge le cause antecedenti
dalla serie causale in presenza di un fatto sopravvenuto di per sè
idoneo a determinare l'evento anche senza quegli antecedenti.
Richiamava i principi più volte affermati sulla interpretazione
dell'art. 2087 c.c., e quindi sulla natura contrattuale della
responsabilità disciplinata dalla norma e sul riparto dell'onere
probatorio fra lavoratore e datore di lavoro e concludeva affermando
che "non si può escludere a priori che vi sia un nesso causale, per un
lavoratore obbligato o autorizzato all'uso di autoveicolo
nell'espletamento delle proprie mansioni in situazione di trasferta,
tra le condizioni di stress e l'incidente stradale, senza prima
consentire la prova richiesta (ed ovviamente la controprova ritualmente
richiesta) di tutte le circostanze del caso".

Riassunta la causa
dinanzi al giudice di rinvio, la Corte territoriale, escussi quattro
testimoni, rigettava l'appello del lavoratore avverso la decisione del
Pretore di Roma.

Esaminate le cause di stress indicate dal lavoratore
(lunga durata e frequenza delle trasferte, i molti chilometri percorsi,
il gravoso impegno lavorativo durante i periodi di trasferta, il
ritardo nelle promozioni promessegli dalla Banca all'epoca del suo
inserimento nella cd. task force, le malattie della moglie e della
figlia, le vicende relative all'assegnazione dell'ultima missione,
quella a (OMISSIS)), e ritenuti dimostrati i fatti storici dedotti dal
Dr. P. - in ordine a durata, frequenza delle trasferte, chilometraggio
percorso, abitudine di tornare a (OMISSIS) il venerdì sera per
ripartire la domenica sera o il lunedì mattina, mansioni svolte durante
le trasferte, promozione a capo ufficio nell' (OMISSIS) e a funzionario
il (OMISSIS), malattie di moglie e figlia e conoscenza delle stesse da
parte del datore di lavoro, richiesta del lavoratore di essere
destinato, in occasione della trasferta nel corso della quale di era
verificato l'incidente, a (OMISSIS) e non a (OMISSIS) - i giudici del
rinvio ritenevano che le circostanze appurate non consentivano di
affermare che l'incidente stradale fosse imputabile ad una situazione
di stress a sua volta imputabile al datore di lavoro.

Osservavano che
quella descritta dal Dr. P. è la normale attività lavorativa svolta da
tutti i lavoratori incaricati della promozione di affari per conto del
datore di lavoro; che la necessità di costante aggiornamento
professionale, propria di chi svolge attività professionale
qualificata, non può essere invocata come fonte di stress imputabile al
datore di lavoro; che analoghe considerazioni valgono per gli orari di
lavoro tipici di quella attività.

Sottolineavano poi che l'incidente
stradale era avvenuto la mattina del (OMISSIS), quando non erano ancora
trascorsi quattro giorni dall'inizio della missione a (OMISSIS), e che
tale missione era iniziata a distanza di 36 giorni dalla missione
precedente, sicchè il lavoratore aveva usufruito di un periodo di tempo
fra le due missioni sicuramente congruo al fine di reintegrare le
energie psico fisiche usurate dalla precedente missione.

Osservavano
ancora che il mancato accoglimento della richiesta di essere destinato
a (OMISSIS) e non a (OMISSIS) non costituiva fonte di particolare
aggravio, atteso che solo nel primo giorno di missione era stato
necessario un percorso più lungo di 300 chilometri, ma ciò risaliva a
circa quattro giorni prima del sinistro.

Quanto alle modalità
dell'incidente stradale, rilevavano che lo stesso si era verificato
perchè il Dr. P., nonostante il fondo stradale umido, aveva imboccato
una curva ad elevata velocità ed invaso l'opposta corsia, finendo
contro un pesante automezzo che procedeva regolarmente nella direzione
opposta. Ritenevano che il comportamento del guidatore non fosse
imputabile a condizioni di stanchezza o di abbassamento della soglia di
attenzione, ma a comportamento imprudente cosciente e volontario.

Applicando quindi la nozione di nesso causale precisata dalla sentenza
rescindente, la Corte territoriale escludeva che l'incidente fosse
imputabile al datore di lavoro.

Per la cassazione di tale sentenza
ricorre, formulando due motivi di censura, P.R..

La Banca Antoniana
Popolare Veneta s.p.a., incorporante della Banca Nazionale della
Agricoltura s.p.a., e la Fondiaria Sai s.p.a., nuova denominazione
della SAI Società Assicuratrice Industriale s.p.a.

(società che ha
partecipato al giudizio fin dal primo grado perchè chiamata in causa
dalla Banca), resistono con controricorso.

Il ricorrente e la banca
hanno depositato memoria.

Motivi della decisione
1. Con il primo
motivo di ricorso la difesa del ricorrente denuncia violazione e falsa
applicazione degli artt. 1175, 1375, 2087, 2110 e 2043 c.c., artt. 32 e
38 Cost., omessa e contraddittoria motivazione su punto decisivo.

Deduce che il giudice del rinvio si è illegittimamente discostato dal
principio di diritto fissato nella sentenza rescindente ed ha
arbitrariamente ristretto l'accertamento dei fatti, non tenendo conto
dell'ampio ambito di prova indicato dalla Cassazione.

Assume che la
sentenza rescindente aveva posto a carico del lavoratore, "che lamenti
di aver subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla
salute, l'onere di provare esclusivamente l'esistenza di tale danno, la
nocività delle condizioni di lavoro ed il nesso causale tra questi due
elementi; e, correlativamente, a carico del datore di lavoro "l'onere
di dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire
il verificarsi del danno ovvero che il danno lamentato dal dipendente
non è ricollegabile all'inosservanza dei suoi obblighi".

Assume ancora
che la nozione di nesso causale delineata nella sentenza rescindente è
notevolmente diversa da quella adottata dal Tribunale di Roma e che era
stato precisato che l'eventuale concorso di colpa del lavoratore non è
sufficiente ad interrompere un nesso causale che non può essere
limitato ai soli eventi costituenti conseguenza necessitata della
condotta datoriale, ma deve essere esteso a tutti gli eventi possibili,
rispetto ai quali tale condotta si ponga con nesso di causalità
adeguata.

Deduce che la sentenza rescindente ha quindi individuato una
responsabilità dell'imprenditore in tutte le ipotesi in cui non sia
possibile ravvisare una "condotta dolosa del lavoratore, ovvero la
presenza di un rischio elettivo generato da una attività non avente
rapporto con lo svolgimento del lavoro o esorbitante dai limiti di
esso", precisando che la dimensione inadeguata dell'organico, ravvisata
nel caso di specie, costituiva una condizione lavorativa stressante,
dalla quale poteva derivare una specifica responsabilità datoriale; e
che ha richiesto la prova "di tutte le circostanze del caso", per
verificare l'esistenza di tale nesso causale, "per un lavoratore
obbligato o autorizzato all'uso di autoveicolo nell'espletamento delle
proprie mansioni in situazione di trasferta, tra le condizioni di
stress e l'incidente stradale".

Afferma quindi che era risultato
provato che: - il ricorrente aveva reiteratamente rappresentato il suo
contingente stato di patologia; - l'inserimento nella task force
prevedeva anche la partecipazione a missioni e non solo lo svolgimento
di lavoro fuori sede; - esisteva almeno un'altra sede possibile per la
missione, cioè (OMISSIS), più confacente alla particolare situazione,
personale e familiare, del P.; - alla data del (OMISSIS), su 600 giorni
di calendario corrispondenti al periodo trascorso dalla sua entrata in
task force, il ricorrente ne aveva vissuto in missione ben 407,
percorrendo alla guida della propria auto 80.409 chilometri, oltre alla
sua normale attività lavorativa; - l'entità del danno risarcibile in
misura non inferiore al valore corrispondente a L. un miliardo; -
l'esistenza di un nesso di causalità tra la condotta tenuta da BNA ed
evento dannoso da cui il ricorrente è rimasto leso.

2. Con il secondo
motivo la difesa P. denuncia violazione e falsa applicazione degli
artt. 384, 389 e 394 c.p.c. e vizio di motivazione su altro punto
decisivo.

Deduce che la Corte di rinvio non solo ha seguito in modo
marginale il principio di diritto illustrato nel primo motivo, ma ha
stravolto l'impianto giuridico dato alla fattispecie nella sentenza
rescindente.

Tale stravolgimento si è realizzato, da parte del giudice
di rinvio, con l'esclusione: a) che altre cause, tra cui principalmente
lo stato personale di stress, unito all'ansia e alla preoccupazione per
le condizioni di salute dei familiari, potessero determinare l'evento
lesivo; b) che lo stato di stress fosse stato acuito ed aggravato dal
profondo insoddisfacimento per una progressione di carriera
ingiustamente negata; c) che le direttive impartite dalla Cassazione
comportassero l'accertamento anche su fatti non costituenti oggetto
delle richieste istruttorie del primo grado; d) limitando l'assunzione
delle prove all'interno delle istanze formulate nel ricorso ex art. 414
c.p.c., ma ammettendo tre soli capitoli.

3. I due motivi di ricorso,
che si trattano congiuntamente, non sono fondati.

Essi muovono da una
lettura distorta della sentenza rescindente, la quale, come si è sopra
evidenziato, si è limitata a correggere il principio affermato dal
Tribunale di Roma in materia di nesso causale, ricordando il principio
della cd. causalità adeguata; a richiamare il consolidato orientamento
della Corte sulla natura della responsabilità di cui all'art. 2087 c.c.
e sul riparto dell'onere probatorio fra lavoratore e datore di lavoro;
ad affermare, quindi, che "non si può escludere a priori che vi sia un
nesso causale, per un lavoratore obbligato o autorizzato all'uso di
autoveicolo nell'espletamento delle proprie mansioni i situazione di
trasferta, tra le condizioni di stress e l'incidente stradale, senza
prima consentire la prova richiesta (ed ovviamente la controprova
ritualmente richiesta) di tutte le circostanze del caso".

Non è vero,
quindi, che la sentenza rescindente abbia autorizzato il giudice di
rinvio ad ammettere prove e controprove diverse da quelle già
tempestivamente richieste, così travolgendo le regole dettate dall'art.
394 c.p.p..

La sentenza del Tribunale di Roma è stata cassata per
violazione di norme di diritto, relativa alla nozione del nesso causale
rilevante ai sensi dell'art. 2087 c.c., con conseguente erroneo rigetto
delle richieste istruttorie formulate per la dimostrazione di quel
nesso fra condotta datoriale ed incidente.

Il giudice di rinvio era
vincolato al principio di diritto enunciato e tenuto ad esprimere una
valutazione, sulla sussistenza o meno del nesso causale invocato, solo
all'esito delle prove richieste.

E' ciò che la Corte di L'Aquila ha
fatto, osservando con congrua motivazione, dopo avere esaminato tutte
le circostanze dedotte e ritenute provate, che il comportamento
datoriale non ha avuto efficienza causale nella determinazione
dell'incidente stradale del 17 gennaio 1991" allorquando il lavoratore,
percorrendo a velocità eccessiva una curva pericolosa con strada umida,
invase l'opposta corsia scontrandosi con un veicolo procedente nella
opposta direzione.

Il ricorrente non muove specifiche censure alle
argomentazioni del giudice di rinvio ma sembra affermare che la
sentenza rescindente aveva già sancito la responsabilità
dell'imprenditore in tutte le ipotesi in cui non sia possibile
ravvisare una "condotta dolosa del lavoratore, ovvero la presenza di un
rischio elettivo generato da una attività non avente rapporto con lo
svolgimento del lavoro o esorbitante dai limiti di esso"; condotta
dolosa o rischio elettivo ovviamente estranei alla conduzione di un
veicolo, per ragioni di lavoro, da parte di un lavoratore.

Ma non è
quello che la sentenza rescindente ha affermato. Le massime nella
stessa richiamate, fra le quali quelle sulla rilevanza del concorso di
colpa del lavoratore, sottolineano in primo luogo l'obbligo del
lavoratore, che agisca facendo valere la responsabilità di cui all'art.
2087 c.c., di provare la nocività delle condizioni di lavoro e il nesso
causale fra tali condizioni ed il danno subito. Una volta che il
lavoratore abbia provato tali circostanze - continua la sentenza n. 5
del 2002 - grava sul datore di lavoro l'onere di dimostrare di aver
adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del
danno; aggiungendo che non è sufficiente il semplice concorso di colpa
del lavoratore per interrompere il nesso causale, potendo tale nesso
essere interrotto solo da una condotta dolosa del lavoratore o la
presenza di un rischio elettivo generato da una attività non avente
rapporto con lo svolgimento del lavoro o esorbitante dai limiti di
esso. Ed ha citato Cass., 1 settembre 1997 n. 8267 secondo la quale
anche una condizione lavorativa stressante (nella specie per
sottorganico) può costituire fonte di responsabilità per il datore di
lavoro.

Tale essendo il contenuto della sentenza rescindente, ed
atteso che il giudice del rinvio, espletate le prove tempestivamente
richieste, si è espresso con ampie argomentazioni sulla insussistenza
di uno stress imputabile al datore di lavoro e tale da avere a sua
volta provocato l'incidente stradale, le censure di inosservanza degli
artt. 384 e 394 c.p.c., così come quelle di violazione dell'art. 2087 c.
c., risultano infondate.

Per tutto quanto esposto il ricorso va
rigettato.

Il ricorrente va condannato al rimborso delle spese nei
confronti della Banca Antoniana Popolare Veneta, mentre si ritiene equo
compensare le spese fra la SAI e le altre parti.

P.Q.M.
La Corte
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso, in favore
della Banca Antoniana Popolare Veneta, delle spese di giudizio, in Euro
42,50 per spese ed in Euro 5.000,00 (cinquemila) per onorario di
avvocato, oltre spese generali, IVA e C.P.A.;

compensa le spese fra la
SAI e le altre parti.

Così deciso in Roma, il 12 aprile 2007.

Depositato in Cancelleria il 7 giugno 2007


 

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