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giovedì 10 gennaio 2013

TAR:..maresciallo ordinario dell'Arma dei Carabinieri, è stato condannato con sentenza definitiva alla pena della reclusione di anni 3 e mesi 3 ed alla pena accessoria dell'interdizione temporanea dai pubblici uffici per la durata di anni 3...

CARABINIERI   -   ESECUZIONE PENALE   -   IMPIEGO PUBBLICO
T.A.R. Marche (Lpd) Sez. I, Sent., 25-05-2012, n. 370
Fatto Diritto P.Q.M.
Svolgimento del processo
1. Il ricorrente, maresciallo ordinario dell'Arma dei Carabinieri, è stato condannato con sentenza definitiva alla pena della reclusione di anni 3 e mesi 3 ed alla pena accessoria dell'interdizione temporanea dai pubblici uffici per la durata di anni 3.
In data 12 agosto 2011 il Pubblico Ministero presso la Procura di Fermo redigeva la comunicazione ex art. 662 c.p.p., che trasmetteva, fra agli altri, al Comando Regione Carabinieri Marche. Con nota del 26 agosto 2011 il Comandante regionale dell'Arma impartiva al Comando Compagnia CC di (Lpd) - alla quale era effettivo il maresciallo (Lpd) - le istruzioni relative alle modalità di esecuzione della pena accessoria, precisando che, nelle more dell'adozione dei provvedimenti di competenza del Ministero, l'interessato doveva essere considerato sospeso penalmente dall'impiego.
2. La nota è stata impugnata con il ricorso introduttivo e con un primo atto di motivi aggiunti, per i seguenti profili:
- violazione art. 920 D.Lgs. n. 66 del 2010 (incompetenza del Comandante regionale ad adottare provvedimenti di sospensione cautelare dal servizio);
- difetto di motivazione;
- assenza dei presupposti di urgenza, visto che la comunicazione del P.M. è intervenuta dopo circa nove mesi dalla data di passaggio in giudicato della sentenza definitiva di condanna;
- violazione e falsa applicazione dell'art. 9 L. n. 19 del 1990 (essendo stato il ricorrente già sospeso cautelarmente dal servizio per il periodo massimo previsto dalla legge);
- violazione del principio di diritto affermato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 363/1996 (divieto di automatismo fra condanna penale e destituzione dal servizio del dipendente pubblico).
3. Nelle more, il Comando regionale CC aveva avviato il procedimento disciplinare a carico del ricorrente, che è stato però interrotto a seguito dell'adozione, da parte della Direzione Generale per il Personale Militare del Ministero della Difesa (Persomil), del decreto datato 21 settembre 2011, con cui al maresciallo (Lpd) è stata applicata, con decorrenza dal 24 novembre 2010, la sanzione della perdita del grado ai sensi degli artt. 866 e 867, comma 5, del D.Lgs. n. 66 del 2010, con conseguente cessazione dal servizio permanente ed iscrizione d'ufficio nel ruolo dei militari di truppa dell'Esercito Italiano.
4. Il predetto decreto è stato impugnato con l'atto di motivi aggiunti del 16 dicembre 2011, in cui sono dedotte le seguenti doglianze:
- violazione e falsa applicazione dell'art. 9 L. n. 19 del 1990, in relazione agli artt. 28 e 29 c.p.m.p. (illegittimità della destituzione automatica a fronte di una sanzione accessoria temporanea. L'automatismo potrebbe conseguire solo ad una condanna che importi la degradazione ai sensi dell'art. 28 c.p.m.p.);
- violazione del principio di irretroattività delle norme che prevedono sanzioni amministrative (nel caso di specie non dovevano applicarsi le norme del D.Lgs. n. 66 del 2010, entrato in vigore in epoca successiva alla data di commissione dell'illecito disciplinare);
- illegittima interruzione del procedimento disciplinare correttamente avviato dal Comando Regione CC Marche;
- in subordine, incostituzionalità degli artt. 30 e 31 c.p.m.p., nella parte in cui prevedono sanzioni accessori diverse per gli ufficiali e i sottufficiali;
- incostituzionalità degli artt. 866, 867, comma 5, 923, comma 1, let. i) e 861, comma 4, D.Lgs. n. 66 del 2010, nella parte in cui prevedono fattispecie di destituzione automatica dal servizio;
- incompetenza del vice direttore generale di Persomil ad adottare il decreto impugnato.
5. Con ulteriore atto di motivi aggiunti, depositato in data 13 febbraio 2012, il ricorrente ha impugnato il D.M. n. 0588/III-7-2011 del 21/11/2011, recante la rettifica del precedente decreto datato 21 settembre 2011; in particolare, è stato modificato il riferimento normativo contenuto nel dispositivo del primo decreto (per cui la perdita del grado viene disposta ai sensi dell'art. 867, comma terzo, D.Lgs. n. 66 del 2010 e non già ai sensi dell'art. 867, comma quinto, del medesimo decreto delegato).
Il provvedimento viene censurato per i seguenti motivi propri:
- illegittimità costituzionale degli artt. 866 e 867, comma 3, D.Lgs. n. 66 del 2010, in relazione alla L. n. 19 del 1990 (per contrasto con l'art. 3 Cost. e con i principi di gradualità e ragionevolezza);
- eccesso di potere in relazione al disposto dei commi 3 e 5 dell'art. 867 D.Lgs. n. 66 del 2010, violazione del principio di imparzialità e buon andamento, contraddittorietà, illogicità e ingiustizia manifesta,
mentre per il resto vengono ribadite le doglianze già formulate con il precedente atto di motivi aggiunti del dicembre 2011.
6. Il Ministero della Difesa ha replicato sia al ricorso introduttivo che ai motivi aggiunti, chiedendone il rigetto.
Stante l'urgenza di definire nel merito la vicenda, alla camera di consiglio del 9 febbraio 2012 il Tribunale ha fissato per il 10 maggio 2012 l'udienza pubblica di trattazione del ricorso.
Motivi della decisione
1. Il ricorso introduttivo e i motivi aggiunti vanno respinti.
2. Iniziando dalle censure di ordine formale - procedurale, va osservato che:
- la nota del Comandante regionale dell'Arma impugnata con il ricorso introduttivo e con il primo atto di motivi aggiunti ha natura meramente dichiarativa (e dunque non provvedimentale), visto che il predetto ufficiale generale si è limitato a ricordare ai comandi subordinati che il maresciallo (Lpd) doveva essere considerato penalmente sospeso dall'impiego (ossia impossibilitato dal punto di vista materiale, oltre che giuridico, a prestare il servizio, essendo temporaneamente interdetto dai pubblici uffici);
- pertanto, oltre al fatto che nella specie non viene in evidenza l'istituto della sospensione cautelare dal servizio (anche perché il procedimento penale era approdato alla sua definitiva conclusione), non sono conferenti le censure inerenti il difetto di motivazione e la incoerenza fra la finalità cautelare dell'atto e la sua distanza temporale rispetto alla data di deposito della sentenza della Cassazione penale che aveva definito la vicenda giudiziaria del maresciallo (Lpd);
- in effetti, la catena di comando dell'Arma dei Carabinieri non ha fatto altro che recepire e dare attuazione ad un ordine di esecuzione di pena accessoria proveniente dal Pubblico Ministero presso il Tribunale di Fermo, per cui da un lato non era necessaria alcuna specifica motivazione, dall'altro lato i Comandi interessati non potevano certo agire in assenza della comunicazione ex art. 662 c.p.p.
Va invece rilevato che l'Arma aveva avviato, già nel mese di aprile 2011, il procedimento disciplinare nei confronti del ricorrente, per cui nessun addebito può essere mosso circa eventuali ritardi o omissioni in cui sarebbero incorsi comandi interessati.
Con riferimento al procedimento disciplinare va poi evidenziato che:
- il fatto che il Comando Regionale dell'Arma abbia deciso di avviarlo non incide sulla legittimità dei provvedimenti impugnati, in quanto nel momento in cui il Comandante regionale ha ordinato l'avvio dell'inchiesta formale (aprile 2011) non era ancora pervenuta la comunicazione da parte del P.M. presso il Tribunale di Fermo;
- come è noto, ai sensi degli artt. 655 e 662 c.p.p. compete proprio al Pubblico Ministero l'adozione degli atti necessari per l'esecuzione delle pene principali ed accessorie, per cui nel mese di aprile 2011 i Comandi dell'Arma da cui dipendeva il ricorrente non erano in condizione di sapere se la pena accessoria di che trattasi dovesse o meno essere portata ad esecuzione;
- del tutto correttamente, poi, il procedimento disciplinare è stato interrotto nel momento in cui il Ministero ha adottato i provvedimenti impugnati con il secondo e terzo atto di motivi aggiunti, essendo divenuto inutile sanzionare eventualmente dal punto di vista disciplinare un soggetto che non apparteneva più all'Arma.
3. Ugualmente infondato è il motivo con cui si deduce l'incompetenza del vice direttore generale di Persomil ad adottare i provvedimenti impugnati con il secondo ed il terzo atto di motivi aggiunti. Non si vede infatti per quale motivo il direttore generale non possa delegare altri dirigenti della struttura per l'adozione di specifici atti. Nella specie tale delega è stata validamente conferita e dunque sotto questo profilo la censura va rigettata.
Si deve poi osservare che i provvedimenti ministeriali qui gravati hanno efficacia meramente dichiarativa, essendosi l'autorità amministrativa, anche e soprattutto per ragioni di natura burocratica interna, limitata a prendere atto di un effetto discendente direttamente dalla legge (vedasi anche l'art. 32-quinquies c.p.) e dalla sentenza penale.
4. Peraltro, il punto centrale della vicenda all'esame del Tribunale non sta evidentemente nei suesposti profili, la questione da dirimere essendo quella della legittimità di una destituzione automatica dal servizio di un dipendente pubblico - il quale riveste oltretutto lo status particolare di militare in servizio permanente effettivo - condannato in via definitiva ad una pena accessoria consistente nell'interdizione temporanea dai pubblici uffici.
5. La questione, stante quanto osservato al precedente punto 2., potrebbe essere liquidata in poche battute, visto che nella specie non si tratta di destituzione automatica quale conseguenza di una condanna penale, ma di destituzione derivante dall'esecuzione di una pena accessoria non compresa (visto che il ricorrente non ha provato ciò) nell'indulto concesso con L. n. 241 del 2006. Va infatti ricordato che, ai sensi dell'art. 174 c.p., "L'indulto o la grazia condona, in tutto o in parte, la pena inflitta, o la commuta in un'altra specie di pena stabilita dalla legge. Non estingue le pene accessorie, salvo che il decreto disponga diversamente, e neppure gli altri effetti penali della condanna".
6. Tuttavia, le cospicue argomentazioni difensive prospettate dal ricorrente - fra cui anche la deduzione di varie questioni di legittimità costituzionale - impongono una sia pur sintetica ricostruzione del quadro normativo di riferimento e dell'orientamento giurisprudenziale formatosi in subiecta materia a seguito degli interventi della Consulta.
Punto di partenza è la più volte richiamata sentenza n. 363 del 1996 della Corte Costituzionale, la quale, riprendendo precedenti pronunce della medesima Corte (ordinanze nn. 201 e 137 del 1994, e sentenza n. 197 del 1993, di cui viene in particolare richiamato il punto n. 4 del "Considerato in diritto"), ha dichiarato infondata la censura mossa dal giudice a quo "....in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, all'art. 33 del codice penale militare di pace, dal momento che la nuova disciplina sulla destituzione dei pubblici dipendenti, di cui all'art. 9 della L. n. 19 del 1990, è estranea all'applicazione delle pene accessorie, anche di carattere interdittivo...".
Con L. n. 97 del 2001 il legislatore ha recepito tale importante principio, dal che però non discendono le conseguenze ipotizzate dal ricorrente.
Va infatti parimenti segnalata la quasi coeva sentenza della Consulta n. 383/1997, che si riferisce proprio alla fattispecie in esame. In questa decisione, la Corte ha testualmente affermato che "È infondata la questione di legittimità costituzionale che concerne gli artt. 29 e 234, terzo comma, del codice penale militare di pace, con riguardo all'automatica applicazione della rimozione. Non è corretto il richiamo alla giurisprudenza sulla "destituzione di diritto", avendo questa Corte già messo in luce la distinzione fra tale tematica e quella delle pene accessorie (sentenza n. 363 del 1996; ordinanze nn. 201 e 137 del 1994, sentenza n. 197 del 1993, di cui v. in particolare il n. 4 del Considerato in diritto). Mentre nella sede disciplinare è possibile commisurare la sanzione all'entità del fatto, nell'applicazione delle pene accessorie non è dato analogo apprezzamento; ad esse è estranea, dunque, la statuizione contenuta nell'art. 9 della L. 7 febbraio 1990, n. 19, senza che da ciò scaturisca alcuna incertezza interpretativa cui invece accenna l'ordinanza...".
7. Ora, pur dovendosi comprendere il particolare vigore con cui parte ricorrente tenta di sminuire la portata dei principi affermati dalla Consulta, non è possibile disconoscere la netta distinzione che la Corte, anche nella sentenza n. 363/1996, ha posto fra la destituzione automatica quale sanzione disciplinare e la destituzione automatica quale conseguenza di una pena accessoria.
Ciò emerge dalla semplice lettura del dispositivo della sentenza n. 363, in cui viene dichiarata infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 33 c.p.m.p.
8. Ma del resto, il Consiglio di Stato afferma in maniera costante ed uniforme (vedasi, per tutte, le decisioni nn. 6669/2002 e 6336/2006, nonché il parere della Sez. III n. 12 del 6/3/2007) che, pur dopo la sentenza n. 363/1996, continuano ad esistere nel nostro ordinamento fattispecie di destituzione automatica dei dipendenti pubblici e che tali fattispecie sono costituite proprio dalle sanzioni accessorie penali.
Analoghe conclusioni sono state rassegnate dalla Corte di Cassazione (vedasi, per tutte, le sentenze della Sez. Lavoro n. 16153/2009 e n. 3698/2010).
9. L'art. 33 c.p.m.p. stabilisce poi che i militari condannati per reati previsti dalla legge penale comune sono soggetti sia alle pene accessorie previste dal codice penale militare sia alle pene accessorie comuni.
Ciò significa che le disposizioni del c.p.m.p., invocate dal ricorrente a sostegno delle proprie argomentazioni, non esauriscono il novero delle conseguenze che la legge penale (militare e comune) pone a carico del militare che si rende responsabile di delitti particolarmente gravi.
Sotto questo profilo va solo rilevato che la complessa (e un po' barocca) disciplina del c.p.m.p. risponde ad un'esigenza specifica dell'apparato militare, che è quella di apprestare sanzioni accessorie specifiche che incidano solo sullo status militare e che presentano anche un valore fortemente simbolico (si pensi, ad esempio, alla degradazione, che nell'immaginario collettivo consiste nella rimozione materiale dei gradi dalle spalline della divisa). Ma questo non significa che, in generale, i militari in servizio permanente non siano soggetti alla legge penale comune e che nei loro confronti non si applica l'art. 32-quinquies c.p.; a voler diversamente opinare si dovrebbe approdare alla inaccettabile (e dunque incostituzionale) conseguenza per cui il dipendente pubblico non militare condannato per uno dei reati di cui al citato art. 32-quinquies dovrebbe essere automaticamente espulso dalla P.A., mentre il dipendente pubblico che riveste lo status di militare, grazie al combinato disposto di norme del c.p.m.p. che hanno una ben precisa finalità, godrebbe di un trattamento più favorevole. Tale disparità di trattamento non sarebbe giustificabile nemmeno alla luce del particolare status dei militari (ed in particolare dei carabinieri), essendo al contrario più stringenti i doveri di fedeltà che incombono su dipendenti pubblici che, ratione muneris, sono chiamati giornalmente a prevenire e reprimere crimini di qualsiasi genere ed in particolare delitti contro la P.A. e contro l'amministrazione della giustizia.
In questo senso, l'art. 866 del D.Lgs. n. 66 del 2010 ha solamente coordinato - e proprio in ragione delle specifiche esigenze dell'apparato militare di cui si è detto supra - le disposizioni del codice penale comune con quelle del c.p.m.p. In sostanza, mentre per i dipendenti pubblici "civili" è sufficiente un provvedimento ad efficacia dichiarativa che si limiti a prendere atto del disposto dell'art. 32-quinquies c.p., per i dipendenti pubblici che rivestono lo status di militari l'ordinamento prevede un meccanismo più articolato (rimozione ex art. 33, n. 3, c.p.m.p. e perdita del grado per rimozione), che però produce il medesimo risultato dal punto di vista sostanziale.
10. Non sono pertanto suscettibili di accoglimento le istanze di rimessione alla Consulta della questione di legittimità costituzionale delle norme del D.Lgs. n. 66 del 2010 applicate nella specie dal Ministero della Difesa.
Non è invece rilevante l'ulteriore questione di legittimità costituzionale dedotta, atteso che nella specie, gli artt. 30 e 31 c.p.m.p. non hanno trovato applicazione.
Sono ugualmente infondate le censure relative all'asserita violazione del principio di irretroattività delle sanzioni amministrative ed alla contestata decorrenza degli effetti del provvedimento espulsivo, in quanto:
a) a prescindere dall'applicabilità al caso in esame della L. n. 689 del 1981 (vedasi l'art. 12 della stessa legge), nella presente vicenda viene in evidenza una sanzione accessoria di natura penale;
b) la decorrenza giuridica degli effetti del provvedimento è prevista espressamente dalla legge e la relativa disposizione non appare né irragionevole né confliggente con norme e principi costituzionali.
Il servizio prestato dal ricorrente nel periodo intercorso fra la riammissione in servizio e la data in cui i provvedimenti impugnati hanno avuto effettiva esecuzione è da considerare servizio di fatto, con tutto ciò che ne consegue dal punto di vista giuridico - economico. Per quanto concerne eventuali ripercussioni che da ciò deriva sulla validità degli atti di P.G. compiuti dal maresciallo (Lpd) nel periodo in questione, si tratta di questione che non rileva nel presente giudizio e che oltre tutto non riguarda il ricorrente (il quale è ovviamente "scriminato" dal punto di vista penale, ai sensi dell'art. 51 c.p.).
11. In conclusione, il ricorso introduttivo e i motivi aggiunti vanno respinti.
In ragione della complessità delle questioni trattate, le spese di giudizio possono però essere integralmente compensate fra le parti.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per le Marche (Sezione Prima), definitivamente pronunciando:
- respinge il ricorso introduttivo e i motivi aggiunti;
- compensa fra le parti le spese di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

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