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mercoledì 9 luglio 2014

Cassazione: LE ASSENZE PER MALATTIA PROFESSIONALE O INFORTUNIO SUL LAVORO NON SONO COMPUTABILI NEL PERIODO DI COMPORTO SE IL DATORE DI LAVORO NE E' RESPONSABILE



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LE ASSENZE PER MALATTIA PROFESSIONALE O INFORTUNIO SUL LAVORO NON SONO COMPUTABILI NEL PERIODO DI COMPORTO SE IL DATORE DI LAVORO NE E' RESPONSABILE - In base all'art. 2087 cod. civ. (Cassazione Sezione Lavoro n. 28460 del 28 novembre 2008, Pres. e Rel. Ianniruberto).



LAVORO (RAPPORTO)
Cass. civ. Sez. lavoro, 28-11-2008, n. 28460
Fatto Diritto P.Q.M.

Svolgimento del processo

Il Tribunale di Milano accoglieva le domande di G.S. proposte nei confronti della AMSA - Azienda Milanese Servizi Ambientali - s.p.a. dirette all'accertamento della illegittimità del licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto, pronunciando i provvedimenti di cui all'art. 18 Stat. Lav..
A seguito di impugnazione proposta dalla società, la Corte d'appello di Milano con sentenza del 20 gennaio 2006 ha rigettato il gravame.
Nel pervenire a tale conclusione la Corte territoriale ha osservato che il contratto collettivo non consentiva il cumulo tra assenze per malattie ed assenze per infortunio in quanti regolava le assenze per infortuni e quelle per malattia con due articoli separati. Ed invero l'art. 37 in tema di infortuni statuiva che "la conservazione del posto e la conseguente retribuzione saranno protratte, con le modalità previste dal successivo art. 38 sino alla guarigione clinica o alla stabilizzazione accertate dall'INAIL"; mentre il successivo art. 38 in tema di assenza per malattia stabiliva che "nel caso di interruzione del rapporto dovuta a malattia, l'Azienda conserverà il posto al lavoratore assunto a tempo indeterminato per 365 giorni di calendario". Come aveva correttamente ritenuto il primo giudice "il rinvio contenuto nell'art. 37 non era idoneo a sostenere la tesi della società, che faceva coincidere le "modalità" con i termini di durata del comporto, nè consentiva di fare rientrare nel termine di 365 giorni anche le assenze dovute ad infortunio, atteso che la ragione del diverso trattamento stava nella diversità delle fattispecie, che giustificava anche l'estrema conseguenza di assicurare in caso di infortunio sul lavoro la conservazione del posto di lavoro per l'intera permanenza della inabilità. Ne conseguiva che essendo pacifico che l'azienda, nel considerare superato il termine di 365 giorni, aveva computato anche 22 giorni di assenza per infortunio sul lavoro, era consequenziale ritenere illegittimo il licenziamento.
Ma - ha aggiunto il giudice d'appello - il licenziamento doveva reputarsi illegittimo anche sotto un diverso profilo. Ed invero il contratto collettivo di categoria applicabile al caso di specie disciplinava unicamente il comporto cd. secco (che regola l'ipotesi di una unica malattia che determina un solo periodo di assenza o più assenze ravvicinate da ricomprendersi in un unico periodo di tempo, nel qual caso il contratto fissa l'arco di tempo massimo al di là del quale il lavoratore perde il diritto alla conservazione del posto), e non il comporto per sommatoria o frazionatotene regola a sua volta l'ipotesi di una malattia o più malattie tali dar luogo ad assenze discontinue o irregolari che non consentano al datore di lavoro - per la loro imprevedibilità - di predisporre le opportune sostituzioni, nel qual caso il contratto fissa un più lungo arco di tempo entro il quale non devono verificarsi più di un certo numero di giorni di assenza). In tal caso, in adesione a quanto statuito dalla giurisprudenza di legittimità, il giudice ben può procedere alla integrazione della norma contrattuale secondo equità, in applicazione del disposto dell'art. 2110 c.c., il che aveva fatto il giudice di primo grado, fissando in anni tre il periodo massimo entro il quale sommare la durata di tutti i molteplici episodi morbosi, contemperando in tal modo il diritto alla salute del lavoratore con il diritto del lavoratore a ricevere la regolare prestazione del contratto. Periodo questo che, per essere il triplo del termine di comporto previsto dalla contrattazione collettiva per un unico episodio morboso, era idoneo a soddisfare gli opposti interessi delle parti.
Avverso tale sentenza la s.p.a. AMSA propone ricorso per cassazione affidato ad un duplice motivo, illustrato anche con memoria.
G.S. non si è costituito.

Motivi della decisione

I. Con il primo motivo di ricorso l'Azienda Milanese Servizi Aziendali deduce erronea interpretazione del contratto collettivo 31 ottobre 1995 per i lavoratori delle Aziende Municipalizzate di igiene urbana.
1.2. Assume al riguardo la ricorrente che l'art. 37 del suddetto contratto, applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame, nel regolare l'infortunio e la malattia del lavoratore prevedeva che il posto di lavoro e la conseguente retribuzione venissero protratte con le modalità previste dal successivo art. 38 fino alla guarigione clinica o alla stabilizzazione della malattia, accertate dall'INAIL;
espressione questa che non poteva che fare riferimento all'istituto del comporto, applicabile così come disciplinato pattiziamente, sia per assenze per malattia che per infortunio. Il successivo art. 38 dettava poi la disciplina specifica della malattia, identificando i vari obblighi che incombono al lavoratore, e regolando specificamente anche la durata del comporto, fissando anche esso in 365 giorni di calendario detta durata. Ed invero con tale disposizione si rendeva evidente che la precisata durata valeva anche allorquando si era in presenza di un infortunio, proprio perchè mancava sul punto una specifica ed autonoma disciplina, ma si riscontrava un mero rinvio al precedente art. 37, che richiamava a sua volta "le modalità" previste dall'art. 38; modalità quindi che non potevano non riguardare anche la durata del periodo di comporto.
Con il secondo motivo la ricorrente denunzia omessa motivazione su un punto decisivo della controversia riguardante l'applicazione del criterio dell'equità.
Assume al riguardo l'Azienda che il giudice d'appello, solo in presenza di un contratto collettivo che non consentiva il cumulo delle assenze per malattie e per infortunio e, più precisamente, solo in mancanza di una esaustiva disciplina contrattuale sul punto, avrebbe potuto applicare l'equità così come previsto dall'art. 2110 c.c. e, così come più volte affermato dalla Corte di cassazione.
3. I due motivi da esaminarsi congiuntamente - per comportare la soluzione di questioni tra loro strettamente connesse - meritano accoglimento nei termini che si vanno ad esplicitare.
3.1. Questa Corte di cassazione ha più volte affermato che l'interpretazione di una clausola di un contatto collettivo di diritto comune non può operarsi compiendo un esame parziale della stessa, e tralasciando l'esame delle altre clausole con cui essa si integra e vicendevolmente si completa, anche in relazione all'esigenza della contrattazione collettiva di apprestare una normativa esaustiva della realtà lavorativa del settore che è chiamato a disciplinare. In tale ottica, la regola dell'interpretazione letterale deve integrarsi con il criterio logico - sistematico, di cui all'art. 1363 e segg. cod. civ., perchè solo in tal modo si viene ad individuare la vera volontà delle parti sociali (così: Cass. 24 luglio 1998 n. 7296). E nella stessa direzione i giudici di legittimità hanno affermato in numerose pronunzie che, nella interpretazione della disciplina contrattuale collettiva dei rapporti di lavoro, censurabile in cassazione solo per vizi di motivazione e violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, sebbene la ricerca della comune intenzione delle parti debba essere operata innanzitutto sulla base del criterio della interpretazione letterale delle clausole, ha valore preminente il criterio logico-sistematico di cui all'art. 1363 cod. civ., che impone di leggere la volontà dei contraenti come manifestata nella globalità delle clausole susseguitesi nel tempo ed aventi immediata attinenza alla materia in contesa (cfr. in tali termini Cass. 22 giugno 2006 n. 14461, cui adde ex plurimis: Cass. 14 giugno 2006 n. 13730; Cass. 15 maggio 2006 n. 11122; Cass. 29 luglio 2005 n. 15969).
3.2. Orbene detti principi applicabili di certo nei frequenti casi - come quello in esame - in cui la volontà delle parti del contratto collettivo si traduce in clausole di difficile lettura per la poca chiarezza se non per l'ambiguità del testo da interpretare - non risultano essere stati osservati dalla sentenza impugnata.
3.3. Ed infatti la Corte in esame non ha preso in esame nella sua interezza gli artt. 37 e 38 del contratto collettivo nè ha fornito di dette disposizioni una interpretazione, che partendo dal testo delle singole clausole, abbia poi seguito il criterio logico- sistematico.
Nel caso di specie una opzione ermeneutica che non voglia limitarsi a seguire il solo criterio letterale nell'esame del contenuto degli artt. 37 e 38 del contratto di categoria - riportate nel loro intero contenuto dalla Azienda nel ricorso per cassazione in osservanza al principio dell'autosufficienza - deve partire dalla presa d'atto che nella definizione del campo applicativo del diritto dei lavoratori alla conservazione del posto di lavoro (unitamente al godimento della retribuzione) per 365 giorni di calendario, si sia fatto riferimento non solo alle assenze per malattia ma anche a quelle per infortuni; e che nell'art. 38, comma 12 - con lo statuire che il trattamento per malattia previsto nell'articolo stesso "compete anche in caso di assenza dal servizio per infortunio non sul lavoro, purchè questo non si sia verificato per colpa grave del lavoratore" - si sia operato di fatto una distinzione, ai fini applicativi, tra infortuni a seconda che si siano o meno sul lavoro, e nell'ambito dei primi tra quelli determinatisi per colpa grave del lavoratore e quelli invece addebitagli a colpa del datore di lavoro o e quelli risalenti a colpa non qualificata del lavoratore.
3.4. Orbene, sulla base di tali coordinate normative ed in osservanza proprio delle regole ermeneutiche sopra indicate che assegnano particolare rilievo nelle scelte interpretative al criterio logico- sistematico, la Corte territoriale - dopo avere accertato la causale dell'infortunio anche con riferimento alla collocazione spaziale ed alla sua addebitabilità sul piano soggettivo - avrebbe dovuto spiegare con motivazione congrua perchè non poteva applicarsi, come sostenuto dall'azienda, alla fattispecie sottoposta al suo esame il termine secco di comporto di 365 giorni di calendario(cui andava aggiunto a garanzia della conservazione del posto di lavoro anche il periodo di proroga per aspettativa della durata di un anno dell'art. 38, ex comma 5); ed avrebbe poi dovuto - una volta che avesse ritenuto impraticabile tale soluzione - stabilire se una diversa soluzione potesse essere seguita, sempre sulla base del combinato disposto degli artt. 37 e 38 della contrattazione collettiva; ed, infine, nell'ulteriore eventualità che avesse ritenuto non consentita neanche tale soluzione, avrebbe potuto solo in questo caso prendere atto di una lacuna nella disciplina sul punto della contrattazione collettivo per fare riferimento, come affermato anche da questa Corte, nella determinazione del termine di comporto all'equità ex art. 2110 c.c. (cfr. su tale problematica: Cass. 23 giugno 2006 n. 14633, secondo cui , in relazione alla cosiddetta eccessiva morbilità, il comporto per sommatoria, ove la contrattazione non lo preveda e non vi siano usi utilmente richiamabili, va determinato dal giudice con impiego della cosiddetta equità integrativa).
3.5. Ai fini di una maggiore compiutezza motivazionale va in primo luogo ribadito che il ricorso all'equità deve operarsi solo allorquando non sia in alcun modo ricostruibile - attraverso i criteri ermeneutici di cui all'art. 1362 e ss. c.c. - la volontà delle parti negoziali, perchè il lasciare al giudicante, seppure attraverso un intervento improntato a ragioni equitative, il compito di intervenire in materia finisce per sottrarre di fatto - con l'introduzione di un termine di comporto (per sommatoria) nuovo - una materia che per comportare un bilanciamento di interessato il diritto del lavoratore alla conservazione del posto e il diritto del datore di lavoro a ricevere in tempi pretederminati e, pertanto, prevedibili, per un regolare svolgimento dell'attività produttiva, le prestazioni lavorative) è istituzionalmente devoluta alle parti sociali, di certo le più idonee e qualificate, per i compiti ad esse assegnati e per le funzioni svolte, a trovare il giusto equilibrio tra contrapposte esigenze.
3.6. E sempre per ragione di completezza appare opportuno anche rimarcare -con riferimento proprio a quanto ora si è precisato in ordine agli spazi di percorribilità del ricorso all'equità nella materia in esame - come i giudici di legittimità abbiano ripetutamente statuito : che le assenze del lavoratore dovute ad infortunio sul lavoro o a malattia professionale sono riconducibili, in linea di principio, all'ampia e generale nozione di infortunio o malattia contenuta nell'art. 2110 cod. civ., comprensiva anche di dette specifiche categorie di impedimenti dovuti a cause di lavoro;
che tali impedimenti sono normalmente computabili nel periodo di conservazione del posto di lavoro previsto nello stesso art. 2110 c.c., la cui determinazione è da questa norma rimessa alla legge, alle norme collettive, all'uso o all'equità; che la suddetta computabilità nel periodo di comporto non si verifica, peraltro, nelle ipotesi in cui l'infortunio sul lavoro o la malattia professionale non solo abbiano avuto origine in fattori di noci vita insiti nelle modalità di esercizio delle mansioni e comunque presenti nell'ambiente di lavoro, e siano pertanto collegate allo svolgimento dell'attività lavorativa, ma altresì quando il datore di lavoro sia responsabile di tale situazione nociva e dannosa, per essere egli inadempiente all'obbligazione contrattuale a lui facente carico ai sensi dell'art. 2087 cod. civ., norma quest'ultima che gli impone di porre in essere le misure necessarie per la tutela dell'integrità fisica e della personalità morale del lavoratore, atteso che in tali ipotesi l'impossibilità della prestazione lavorativa è imputabile al comportamento della stessa parte cui detta prestazione è destinata (cfr. in tali sensi cfr.: Cass. 10 aprile 1996 n. 3351, nonchè in termini identici: Cass. 16 dicembre 1997 n. 12712; Cass. 29 maggio 1997 n. 4781).
4. Corollario di quanto sinora detto è l'accoglimento del ricorso per non avere il giudice d'appello, nell'iter motivazionale della sentenza impugnata seguito i passaggi argomentativi in precedenza indicati, e per avere supportato la propria decisione con affermazioni, che sono sotto molti versanti insufficienti e che si manifestano non rispettose degli specifici criteri ermeneutici applicabili alla contrattazione collettiva.
4.1 La sentenza impugnata va, pertanto, cassata ed, essendo necessari ulteriori accertamenti di fatti, la causa va rimessa - alla stregua del disposto dell'art. 384 c.p.c., comma 2 - alla Corte d'appello di Milano in diversa composizione, con la doverosa, per motivi nomofilattici, enunciazione del presente principio di diritto: "Nei casi in cui la contrattazione collettiva di categoria prevede nella lettera di alcune sue clausole un unico termine di comporto con riferimento sia alle assenze che all'infortunio, il giudice di merito deve accertare - all'esito di una interpretazione logico-sistematica di tutte le clausole che regolano l'istituto - se siano rinvenibili o meno nell'ambito della contrattazione collettiva elementi sufficienti di identificazione di una volontà delle parti negoziali volta a fissare una indifferenziata disciplina, con la fissazione di un unico termine congruo di comporto(da valutarsi anche con riferimento alla specificità dell'attività spiegata dal datore di lavoro), sia per le assenze che per gli infortuni, o se, di contro, siano riscontrabili all'interno della stessa contrattazione elementi che attestino una diversa volontà, e che siano anche sufficienti all'individuazione di termini di comporto differenziati in ragione della causa delle assenze (se derivanti o meno da infortunio) e di quella degli infortuni (se verificatisi o meno sul lavoro). Solo nell'eventualità che si riscontri una assoluta carenza di disciplina pattizia, il giudice può fare riferimento all'art. 2110 c.c., tenendo conto - nella parametrazione in senso equitativo del termine di comporto - del disposto dell'art. 2087 c.c. che, per imporre al datore di lavoro le misure necessarie per la tutela dell'integrità fisica e della personalità morale del lavoratore, attesta come debba, nella materia in esame, valutarsi in concreto la causa dell'assenza dal lavoro e, quindi, il fatto che detta assenza sia imputabile al comportamento della stessa parte cui detta prestazione è destinata, al fine proprio di differenziare i termini di comporto e di determinare la durata del comporto per sommatoria in ragione della diversa causale delle assenze dal lavoro.
6. Il giudice di rinvio dovrà procedere ad un nuovo esame della controversia facendo applicazione dei principi di diritto enunciati.
7. Al suddetto giudice va rimessa anche la statuizione sulle spese del presente giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d'appello di Milano in diversa composizione anche per le spese del presente giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma, il 4 novembre 2008.
Depositato in Cancelleria il 28 novembre 2008

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