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LE ASSENZE PER MALATTIA PROFESSIONALE O INFORTUNIO SUL LAVORO NON SONO COMPUTABILI NEL PERIODO DI COMPORTO SE IL DATORE DI LAVORO NE E' RESPONSABILE - In base all'art. 2087 cod. civ. (Cassazione Sezione Lavoro n. 28460 del 28 novembre 2008, Pres. e Rel. Ianniruberto).
LAVORO (RAPPORTO)
Cass. civ. Sez. lavoro, 28-11-2008, n. 28460
Cass. civ. Sez. lavoro, 28-11-2008, n. 28460
Svolgimento del processo
Il
Tribunale di Milano accoglieva le domande di G.S. proposte nei
confronti della AMSA - Azienda Milanese Servizi Ambientali - s.p.a.
dirette all'accertamento della illegittimità del licenziamento intimato
per superamento del periodo di comporto, pronunciando i provvedimenti di
cui all'art. 18 Stat. Lav..
A seguito di
impugnazione proposta dalla società, la Corte d'appello di Milano con
sentenza del 20 gennaio 2006 ha rigettato il gravame.
Nel
pervenire a tale conclusione la Corte territoriale ha osservato che il
contratto collettivo non consentiva il cumulo tra assenze per malattie
ed assenze per infortunio in quanti regolava le assenze per infortuni e
quelle per malattia con due articoli separati. Ed invero l'art. 37 in
tema di infortuni statuiva che "la conservazione del posto e la
conseguente retribuzione saranno protratte, con le modalità previste dal
successivo art. 38 sino alla guarigione clinica o alla stabilizzazione
accertate dall'INAIL"; mentre il successivo art. 38 in tema di assenza
per malattia stabiliva che "nel caso di interruzione del rapporto dovuta
a malattia, l'Azienda conserverà il posto al lavoratore assunto a tempo
indeterminato per 365 giorni di calendario". Come aveva correttamente
ritenuto il primo giudice "il rinvio contenuto nell'art. 37 non era
idoneo a sostenere la tesi della società, che faceva coincidere le
"modalità" con i termini di durata del comporto, nè consentiva di fare
rientrare nel termine di 365 giorni anche le assenze dovute ad
infortunio, atteso che la ragione del diverso trattamento stava nella
diversità delle fattispecie, che giustificava anche l'estrema
conseguenza di assicurare in caso di infortunio sul lavoro la
conservazione del posto di lavoro per l'intera permanenza della
inabilità. Ne conseguiva che essendo pacifico che l'azienda, nel
considerare superato il termine di 365 giorni, aveva computato anche 22
giorni di assenza per infortunio sul lavoro, era consequenziale ritenere
illegittimo il licenziamento.
Ma - ha
aggiunto il giudice d'appello - il licenziamento doveva reputarsi
illegittimo anche sotto un diverso profilo. Ed invero il contratto
collettivo di categoria applicabile al caso di specie disciplinava
unicamente il comporto cd. secco (che regola l'ipotesi di una unica
malattia che determina un solo periodo di assenza o più assenze
ravvicinate da ricomprendersi in un unico periodo di tempo, nel qual
caso il contratto fissa l'arco di tempo massimo al di là del quale il
lavoratore perde il diritto alla conservazione del posto), e non il
comporto per sommatoria o frazionatotene regola a sua volta l'ipotesi di
una malattia o più malattie tali dar luogo ad assenze discontinue o
irregolari che non consentano al datore di lavoro - per la loro
imprevedibilità - di predisporre le opportune sostituzioni, nel qual
caso il contratto fissa un più lungo arco di tempo entro il quale non
devono verificarsi più di un certo numero di giorni di assenza). In tal
caso, in adesione a quanto statuito dalla giurisprudenza di legittimità,
il giudice ben può procedere alla integrazione della norma contrattuale
secondo equità, in applicazione del disposto dell'art. 2110 c.c.,
il che aveva fatto il giudice di primo grado, fissando in anni tre il
periodo massimo entro il quale sommare la durata di tutti i molteplici
episodi morbosi, contemperando in tal modo il diritto alla salute del
lavoratore con il diritto del lavoratore a ricevere la regolare
prestazione del contratto. Periodo questo che, per essere il triplo del
termine di comporto previsto dalla contrattazione collettiva per un
unico episodio morboso, era idoneo a soddisfare gli opposti interessi
delle parti.
Avverso tale sentenza la s.p.a. AMSA propone ricorso per cassazione affidato ad un duplice motivo, illustrato anche con memoria.
G.S. non si è costituito.
Motivi della decisione
I.
Con il primo motivo di ricorso l'Azienda Milanese Servizi Aziendali
deduce erronea interpretazione del contratto collettivo 31 ottobre 1995
per i lavoratori delle Aziende Municipalizzate di igiene urbana.
1.2.
Assume al riguardo la ricorrente che l'art. 37 del suddetto contratto,
applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame, nel regolare
l'infortunio e la malattia del lavoratore prevedeva che il posto di
lavoro e la conseguente retribuzione venissero protratte con le modalità
previste dal successivo art. 38 fino alla guarigione clinica o alla
stabilizzazione della malattia, accertate dall'INAIL;
espressione
questa che non poteva che fare riferimento all'istituto del comporto,
applicabile così come disciplinato pattiziamente, sia per assenze per
malattia che per infortunio. Il successivo art. 38 dettava poi la
disciplina specifica della malattia, identificando i vari obblighi che
incombono al lavoratore, e regolando specificamente anche la durata del
comporto, fissando anche esso in 365 giorni di calendario detta durata.
Ed invero con tale disposizione si rendeva evidente che la precisata
durata valeva anche allorquando si era in presenza di un infortunio,
proprio perchè mancava sul punto una specifica ed autonoma disciplina,
ma si riscontrava un mero rinvio al precedente art. 37, che richiamava a
sua volta "le modalità" previste dall'art. 38; modalità quindi che non
potevano non riguardare anche la durata del periodo di comporto.
Con
il secondo motivo la ricorrente denunzia omessa motivazione su un punto
decisivo della controversia riguardante l'applicazione del criterio
dell'equità.
Assume al riguardo l'Azienda che
il giudice d'appello, solo in presenza di un contratto collettivo che
non consentiva il cumulo delle assenze per malattie e per infortunio e,
più precisamente, solo in mancanza di una esaustiva disciplina
contrattuale sul punto, avrebbe potuto applicare l'equità così come
previsto dall'art. 2110 c.c. e, così come più volte affermato dalla Corte di cassazione.
3.
I due motivi da esaminarsi congiuntamente - per comportare la soluzione
di questioni tra loro strettamente connesse - meritano accoglimento nei
termini che si vanno ad esplicitare.
3.1.
Questa Corte di cassazione ha più volte affermato che l'interpretazione
di una clausola di un contatto collettivo di diritto comune non può
operarsi compiendo un esame parziale della stessa, e tralasciando
l'esame delle altre clausole con cui essa si integra e vicendevolmente
si completa, anche in relazione all'esigenza della contrattazione
collettiva di apprestare una normativa esaustiva della realtà lavorativa
del settore che è chiamato a disciplinare. In tale ottica, la regola
dell'interpretazione letterale deve integrarsi con il criterio logico -
sistematico, di cui all'art. 1363 e segg. cod. civ., perchè solo in tal
modo si viene ad individuare la vera volontà delle parti sociali (così:
Cass. 24 luglio 1998 n. 7296). E nella stessa direzione i giudici di
legittimità hanno affermato in numerose pronunzie che, nella
interpretazione della disciplina contrattuale collettiva dei rapporti di
lavoro, censurabile in cassazione solo per vizi di motivazione e
violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, sebbene la
ricerca della comune intenzione delle parti debba essere operata
innanzitutto sulla base del criterio della interpretazione letterale
delle clausole, ha valore preminente il criterio logico-sistematico di
cui all'art. 1363 cod. civ., che impone di leggere la volontà
dei contraenti come manifestata nella globalità delle clausole
susseguitesi nel tempo ed aventi immediata attinenza alla materia in
contesa (cfr. in tali termini Cass. 22 giugno 2006 n. 14461, cui adde ex
plurimis: Cass. 14 giugno 2006 n. 13730; Cass. 15 maggio 2006 n. 11122;
Cass. 29 luglio 2005 n. 15969).
3.2. Orbene
detti principi applicabili di certo nei frequenti casi - come quello in
esame - in cui la volontà delle parti del contratto collettivo si
traduce in clausole di difficile lettura per la poca chiarezza se non
per l'ambiguità del testo da interpretare - non risultano essere stati
osservati dalla sentenza impugnata.
3.3. Ed
infatti la Corte in esame non ha preso in esame nella sua interezza gli
artt. 37 e 38 del contratto collettivo nè ha fornito di dette
disposizioni una interpretazione, che partendo dal testo delle singole
clausole, abbia poi seguito il criterio logico- sistematico.
Nel
caso di specie una opzione ermeneutica che non voglia limitarsi a
seguire il solo criterio letterale nell'esame del contenuto degli artt.
37 e 38 del contratto di categoria - riportate nel loro intero contenuto
dalla Azienda nel ricorso per cassazione in osservanza al principio
dell'autosufficienza - deve partire dalla presa d'atto che nella
definizione del campo applicativo del diritto dei lavoratori alla
conservazione del posto di lavoro (unitamente al godimento della
retribuzione) per 365 giorni di calendario, si sia fatto riferimento non
solo alle assenze per malattia ma anche a quelle per infortuni; e che
nell'art. 38, comma 12 - con lo statuire che il trattamento per malattia
previsto nell'articolo stesso "compete anche in caso di assenza dal
servizio per infortunio non sul lavoro, purchè questo non si sia
verificato per colpa grave del lavoratore" - si sia operato di fatto una
distinzione, ai fini applicativi, tra infortuni a seconda che si siano o
meno sul lavoro, e nell'ambito dei primi tra quelli determinatisi per
colpa grave del lavoratore e quelli invece addebitagli a colpa del
datore di lavoro o e quelli risalenti a colpa non qualificata del
lavoratore.
3.4. Orbene, sulla base di tali
coordinate normative ed in osservanza proprio delle regole ermeneutiche
sopra indicate che assegnano particolare rilievo nelle scelte
interpretative al criterio logico- sistematico, la Corte territoriale -
dopo avere accertato la causale dell'infortunio anche con riferimento
alla collocazione spaziale ed alla sua addebitabilità sul piano
soggettivo - avrebbe dovuto spiegare con motivazione congrua perchè non
poteva applicarsi, come sostenuto dall'azienda, alla fattispecie
sottoposta al suo esame il termine secco di comporto di 365 giorni di
calendario(cui andava aggiunto a garanzia della conservazione del posto
di lavoro anche il periodo di proroga per aspettativa della durata di un
anno dell'art. 38, ex comma 5); ed avrebbe poi dovuto - una volta che
avesse ritenuto impraticabile tale soluzione - stabilire se una diversa
soluzione potesse essere seguita, sempre sulla base del combinato
disposto degli artt. 37 e 38 della contrattazione collettiva; ed,
infine, nell'ulteriore eventualità che avesse ritenuto non consentita
neanche tale soluzione, avrebbe potuto solo in questo caso prendere atto
di una lacuna nella disciplina sul punto della contrattazione
collettivo per fare riferimento, come affermato anche da questa Corte,
nella determinazione del termine di comporto all'equità ex art. 2110 c.c.
(cfr. su tale problematica: Cass. 23 giugno 2006 n. 14633, secondo cui ,
in relazione alla cosiddetta eccessiva morbilità, il comporto per
sommatoria, ove la contrattazione non lo preveda e non vi siano usi
utilmente richiamabili, va determinato dal giudice con impiego della
cosiddetta equità integrativa).
3.5. Ai fini
di una maggiore compiutezza motivazionale va in primo luogo ribadito che
il ricorso all'equità deve operarsi solo allorquando non sia in alcun
modo ricostruibile - attraverso i criteri ermeneutici di cui all'art.
1362 e ss. c.c. - la volontà delle parti negoziali, perchè il lasciare
al giudicante, seppure attraverso un intervento improntato a ragioni
equitative, il compito di intervenire in materia finisce per sottrarre
di fatto - con l'introduzione di un termine di comporto (per sommatoria)
nuovo - una materia che per comportare un bilanciamento di interessato
il diritto del lavoratore alla conservazione del posto e il diritto del
datore di lavoro a ricevere in tempi pretederminati e, pertanto,
prevedibili, per un regolare svolgimento dell'attività produttiva, le
prestazioni lavorative) è istituzionalmente devoluta alle parti sociali,
di certo le più idonee e qualificate, per i compiti ad esse assegnati e
per le funzioni svolte, a trovare il giusto equilibrio tra contrapposte
esigenze.
3.6. E sempre per ragione di
completezza appare opportuno anche rimarcare -con riferimento proprio a
quanto ora si è precisato in ordine agli spazi di percorribilità del
ricorso all'equità nella materia in esame - come i giudici di
legittimità abbiano ripetutamente statuito : che le assenze del
lavoratore dovute ad infortunio sul lavoro o a malattia professionale
sono riconducibili, in linea di principio, all'ampia e generale nozione
di infortunio o malattia contenuta nell'art. 2110 cod. civ., comprensiva anche di dette specifiche categorie di impedimenti dovuti a cause di lavoro;
che tali impedimenti sono normalmente computabili nel periodo di conservazione del posto di lavoro previsto nello stesso art. 2110 c.c.,
la cui determinazione è da questa norma rimessa alla legge, alle norme
collettive, all'uso o all'equità; che la suddetta computabilità nel
periodo di comporto non si verifica, peraltro, nelle ipotesi in cui
l'infortunio sul lavoro o la malattia professionale non solo abbiano
avuto origine in fattori di noci vita insiti nelle modalità di esercizio
delle mansioni e comunque presenti nell'ambiente di lavoro, e siano
pertanto collegate allo svolgimento dell'attività lavorativa, ma altresì
quando il datore di lavoro sia responsabile di tale situazione nociva e
dannosa, per essere egli inadempiente all'obbligazione contrattuale a
lui facente carico ai sensi dell'art. 2087 cod. civ., norma
quest'ultima che gli impone di porre in essere le misure necessarie per
la tutela dell'integrità fisica e della personalità morale del
lavoratore, atteso che in tali ipotesi l'impossibilità della prestazione
lavorativa è imputabile al comportamento della stessa parte cui detta
prestazione è destinata (cfr. in tali sensi cfr.: Cass. 10 aprile 1996
n. 3351, nonchè in termini identici: Cass. 16 dicembre 1997 n. 12712;
Cass. 29 maggio 1997 n. 4781).
4. Corollario
di quanto sinora detto è l'accoglimento del ricorso per non avere il
giudice d'appello, nell'iter motivazionale della sentenza impugnata
seguito i passaggi argomentativi in precedenza indicati, e per avere
supportato la propria decisione con affermazioni, che sono sotto molti
versanti insufficienti e che si manifestano non rispettose degli
specifici criteri ermeneutici applicabili alla contrattazione
collettiva.
4.1 La sentenza impugnata va,
pertanto, cassata ed, essendo necessari ulteriori accertamenti di fatti,
la causa va rimessa - alla stregua del disposto dell'art. 384 c.p.c.,
comma 2 - alla Corte d'appello di Milano in diversa composizione, con
la doverosa, per motivi nomofilattici, enunciazione del presente
principio di diritto: "Nei casi in cui la contrattazione collettiva di
categoria prevede nella lettera di alcune sue clausole un unico termine
di comporto con riferimento sia alle assenze che all'infortunio, il
giudice di merito deve accertare - all'esito di una interpretazione
logico-sistematica di tutte le clausole che regolano l'istituto - se
siano rinvenibili o meno nell'ambito della contrattazione collettiva
elementi sufficienti di identificazione di una volontà delle parti
negoziali volta a fissare una indifferenziata disciplina, con la
fissazione di un unico termine congruo di comporto(da valutarsi anche
con riferimento alla specificità dell'attività spiegata dal datore di
lavoro), sia per le assenze che per gli infortuni, o se, di contro,
siano riscontrabili all'interno della stessa contrattazione elementi che
attestino una diversa volontà, e che siano anche sufficienti
all'individuazione di termini di comporto differenziati in ragione della
causa delle assenze (se derivanti o meno da infortunio) e di quella
degli infortuni (se verificatisi o meno sul lavoro). Solo
nell'eventualità che si riscontri una assoluta carenza di disciplina
pattizia, il giudice può fare riferimento all'art. 2110 c.c., tenendo conto - nella parametrazione in senso equitativo del termine di comporto - del disposto dell'art. 2087 c.c.
che, per imporre al datore di lavoro le misure necessarie per la tutela
dell'integrità fisica e della personalità morale del lavoratore,
attesta come debba, nella materia in esame, valutarsi in concreto la
causa dell'assenza dal lavoro e, quindi, il fatto che detta assenza sia
imputabile al comportamento della stessa parte cui detta prestazione è
destinata, al fine proprio di differenziare i termini di comporto e di
determinare la durata del comporto per sommatoria in ragione della
diversa causale delle assenze dal lavoro.
6.
Il giudice di rinvio dovrà procedere ad un nuovo esame della
controversia facendo applicazione dei principi di diritto enunciati.
7. Al suddetto giudice va rimessa anche la statuizione sulle spese del presente giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La
Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla
Corte d'appello di Milano in diversa composizione anche per le spese del
presente giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma, il 4 novembre 2008.
Depositato in Cancelleria il 28 novembre 2008
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