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venerdì 18 marzo 2016

Cassazione: una serata di lavoro come cameriere durante un'assenza per malattia può giustificare il licenziamento



una serata di lavoro come cameriere durante un'assenza per malattia può giustificare il licenziamento
 - Se pregiudica la guarigione (Cassazione Sezione Lavoro n. 23444 del 5 novembre 2009, Pres. Vidiri, Rel. Stile).
LAVORO (RAPPORTO)
Cass. civ. Sez. lavoro, 05-11-2009, n. 23444
Fatto Diritto P.Q.M.

Svolgimento del processo

Con sentenza del 7 ottobre 2004 il Tribunale di Melfi rigettava il ricorso, proposto da R.M. nei confronti della propria datrice di lavoro, @@@@@@@ S.p.A., avverso il provvedimento di licenziamento intimatogli per avere svolto attività lavorativa subordinata a favore di terzo, durante il periodo di assenza dal lavoro per malattia.
Contro tale decisione proponeva appello il lavoratore, deducendo la legittimità del contestato comportamento; l'erronea valutazione delle risultanze istruttorie; la violazione del principio di proporzionalità tra addebito e sanzione; l'insussistenza ed irrilevanza della contestata recidiva; la natura discriminatoria del licenziamento intimato; l'illegittimità del recesso per omessa affissione del codice disciplinare l'illogicità e carenza di motivazione.
Si costituiva la @@@@@@@ s.p.a. contestando, con articolate argomentazioni, il gravame di cui chiedeva il rigetto.
Con sentenza del 19 maggio-15 giugno 2005, l'adita Corte di Appello di Potenza, ritenute fondate le argomentazioni, adottate dalla società a sostegno delle proprie difese, rigettava l'impugnazione, confermando la sentenza di primo grado. Per la cassazione di tale pronuncia ricorre R.M. con tre motivi. Resiste la @@@@@@@ S.p.A. con controricorso, proponendo anche ricorso incidentale condizionato, affidato ad un unico motivo.

Motivi della decisione

Con il proposto ricorso il R. chiede la cassazione della citata sentenza per tre ordini di motivi: a) violazione o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonchè omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia non avendo il Giudice di secondo grado attribuito alcun significato alla dichiarazione del medico curante circa l'insussistenza di incompatibilità tra condizione di malattia e isolata prestazione lavorativa nel ristorante, ritenendo che tale parte della testimonianza sarebbe inutilizzabile perchè meramente valutativa; b) violazione ed errata applicazione dell'art. 2106 c.c., nonchè omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, avendo la Corte dato errata applicazione di consolidate acquisizioni interpretative in tema di art. 2106 c.c. con specifico riguardo alla "proporzionalità tra ipotetica infrazione e sanzione comminata", e, in ogni caso, non avendo congruamente motivato le conclusioni cui è pervenuta; e) violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, comma 1: insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia in relazione all'omessa affissione del codice disciplinare.
Il ricorso, pur valutato nelle sue diverse articolazioni, è privo di fondamento.
Invero, la Corte d'Appello di Potenza, partendo dal pacifico presupposto che lo svolgimento di attività lavorativa in corso di assenza per malattia da parte del lavoratore costituisce giusta causa di licenziamento laddove il datore di lavoro provi o la simulazione della malattia o la conseguenza ritardante dell'attività prestata sulla ripresa del lavoro, ha ritenuto che, nel caso di specie, la prestazione lavorativa svolta aveva avuto "certamente conseguenze negative sulla ripresa del lavoro". A tale conclusione la Corte è pervenuta sulla base delle risultanze istruttorie del primo grado di giudizio, della prodotta documentazione e dei principi di diritto applicabili al caso di specie, sviluppando un iter argomentativo, immune dalle censure mosse dal ricorrente.
Dal materiale probatorio acquisito è emerso, infatti, che il R. fu assente dal lavoro dal (OMISSIS) a causa di una depressione ansiosa reattiva, certificata dal Dott. L., suo medico di fiducia, che prescriveva, tra l'altro, l'astensione dai turni lavorativi notturni per sei mesi; che in data (OMISSIS) il R. prestò attività lavorativa nel ristorante (OMISSIS) quale cameriere ai tavoli durante il cenone di San Silvestro; che l'attività lavorativa si protrasse per tre ore e mezza e si svolse in una sala affollata da circa cinquecento ospiti;
che in data 01.01.2003 il dipendente fece pervenire in azienda una certificazione di prosecuzione di malattia fino al giorno 11.01.2002.
Sulla base di tale quadro istruttorio, i cui elementi - compreso, ed in particolare, quello costituito dalle dichiarazioni del teste, Dott. L., alle quali si fa specifico riferimento nel motivo in esame - risultano minuziosamente analizzati in sentenza, la Corte territoriale, esclusa la simulazione della malattia, ha ritenuto che il dipendente, ripresosi dalla sindrome depressiva (le cure erano già iniziate in data (OMISSIS)) tanto da sentirsi in grado di affrontare una faticosa serata lavorativa, abbia con la sua decisione di prestare attività lavorativa presso il ristorante, ritardato la guarigione tanto da essere costretto l'indomani stesso a proseguire l'astensione. Ed, infatti, - ha osservato coerentemente il Giudice a quo - se è ragionevole presumere "una remissione della malattia" tale da indurre il R. ad affrontare (al solo scopo di assicurarsi un ulteriore guadagno e non già di svagarsi) una prestazione particolarmente gravosa, deve trarsi la conclusione che "la onerosità della serata di lavoro, protrattasi fino alla mezzanotte almeno e quindi con alterazione del ciclo veglia/sonno, determinò una recrudescenza del male e quindi il ritardo nella guarigione".
Conforme a diritto risulta, pertanto, la conclusione circa la sussistenza di giusta causa di licenziamento riconducibile alla violazione dell'obbligo di collaborazione che incombe sul dipendente", tenuto a mettere a disposizione del datore di lavoro le sue energie lavorative e, quindi, ad astenersi da quelle condotte che tale messa a disposizione in qualche modo ostacolino.
Va in proposito rammentato che - secondo il consolidato orientamento di questa Corte, al quale il Giudice a quo ha mostrato apertamente di volersi riportare - lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia può giustificare il recesso del datore di lavoro, in relazione alla violazione dei doveri generali di correttezza e buonafede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, non solo allorchè tale attività esterna sia per sè sufficiente a far presumere l'inesistenza della malattia dimostrando, quindi, una fraudolenta simulazione, ma anche nell'ipotesi in cui la medesima attività, valutata in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio (ex plurimis, Cass. 3 dicembre 2002, n. 17428).
Incensurabile è, dunque, il ragionamento svolto dalla Corte di merito secondo cui: a) doveva ritenersi accertato che, nel caso di specie, il R. aveva svolto un'attività oggettivamente incompatibile con il suo stato di malattia sia in relazione ai tempi, appena a ridosso della diagnosi, sia in relazione al tipo di attività, prolungata e fisicamente impegnativa, sia in relazione all'ambiente di svolgimento, affollato, chiuso e voci ante; che, d'altro canto, il prolungamento dello stato di malattia già dal giorno stesso della prestazione ((OMISSIS)) era la prova più palese che la decisione dal R. di svolgere attività extra, malgrado la diagnosi ricevuta pochi giorni prima, avesse compromesso le sue facoltà di recupero così integrandosi una violazione dei doveri incombenti sul lavoratore ex art. 2104 c.c..
Anche in questa sede di legittimità, insiste il R. sulla circostanza che l'attività svolta presso il ristorante non poteva in alcun modo pregiudicare la ripresa dalla malattia.
L'assunto non è stato condiviso dal Giudice di merito non solo alla luce della avvenuta immediata prosecuzione, ma anche per la inconsistenza, ai fini della prova della invocata circostanza delle due deposizioni raccolte, quella del titolare del pubblico esercizio e quella del medico curante: la prima perchè smentita dalle dichiarazioni rese dalla parte stessa nell'immediatezza dei fatti e, quindi, più attendibili in quanto dirette e cronologicamente immediate e peraltro ribadite in ricorso, la seconda perchè viziata da una premessa di fatto erronea in ordine ai tempi della prestazione (tre ore e mezzo e non un'ora e tre quarti, che a dire del Dott. L. non avrebbe procurato pregiudizio) e da una valutazione dell'ambiente di lavoro non coincidente con gli altri elementi di fatto emergenti dalla prova accolta (non un ambiente di lavoro "movimentato "ma una sala ristorante gremita da cinquecento ospiti intenti al cenone di San Silvestro).
Giova, del resto, osservare, costituendo specifico motivo di gravame, unitamente a quello ricondotto al vizio di violazione di legge, che la denuncia di un vizio di motivazione, nella sentenza impugnata con ricorso per cassazione (ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 5), non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare autonomamente il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì soltanto quello di controllare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico - formale, le argomentazioni - svolte dal giudice del merito, al quale spetta in via esclusiva l'accertamento dei fatti, all'esito della insindacabile selezione e valutazione della fonti del proprio convincimento - con la conseguenza che il vizio di motivazione deve emergere - secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte (v., tra le tante, Cass. S.U. n. 13045/97; ed ancora, Cass. 17 luglio 2001 n. 9662, 3 marzo 2000 n. 2404) - dall'esame del ragionamento svolto dal giudice di merito, quale risulta dalla sentenza impugnata, e può ritenersi sussistente solo quando, in quel ragionamento, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d'ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l'identificazione del procedimento logico- giuridico posto a base della decisione, mentre non rileva la mera divergenza tra valore e significato, attribuiti dallo stesso giudice di merito agli elementi da lui vagliati, ed il valore e significato diversi che, agli stessi elementi, siano attribuiti dal ricorrente ed, in genere, dalle parti.
Nè può addebitarsi alla Corte di Appello una violazione del principio di proporzionalità tra la contestata infrazione e la sanzione inflitta.
La Corte territoriale, infatti, alla stregua di corretto ragionamento logico-giuridico, dopo aver puntualizzato che la condotta gravemente inadempiente posta in essere era pacificamente ascrivibile al genus della giusta causa, in quanto attuata in violazione dell'obbligo generale di collaborazione, ha ulteriormente specificato che, se pure il lavoro non assume un valore assoluto nella vita del lavoratore essendo soltanto un mezzo per procacciare a sè ed alla sua famiglia il sostentamento, comunque, non andava trascurato che l'obbligazione della prestazione lavorativa trae fonte da un contratto impegnativo tra le parti che è fonte, a sua volta, di legittimo affidamento nella controparte. Pertanto, se il datore di lavoro fa legittimo affidamento, nell'ambito di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sulla continuità della prestazione del dipendente, costituiscono violazione di tale affidamento tutte quelle condotte che, riconducibili ad una consapevole scelta del lavoratore, finiscono per incidere negativamente su tale continuità e pregiudicano la stessa prognosi positiva sulla prosecuzione del rapporto.
Con riferimento al caso di specie, la Corte territoriale ha tenuto ad evidenziare la dimostrata indifferenza del lavoratore rispetto ad uno dei principali obblighi lavorativi e, senza trascurare i referenti rappresentati dalle previsioni della contrattazione collettiva in tema di licenziamento (artt. 24 e 25), ha rilevato come, nel caso in esame, la violazione dell'obbligo di collaborazione avesse assunto connotazioni di particolare gravità in considerazione delle peculiari modalilà del fatto: richiesta di esenzione dal lavoro notturno, attività lavorativa non amatoriale o di svago, coincidenza con un periodo festivo durante il quale è frequente la richiesta di ferie da parte dei dipendenti.
Ad aggravare ulteriormente questo quadro, era poi da aggiungere la circostanza che tale inadempimento risultava preceduto negli ultimi due anni da ripetute mancanze sanzionate, di volta in volta, con sospensioni, multe ed ammonizione.
Sulla scorta di quanto sopra riportato, risulta evidente come con riferimento alla proporzionalità del licenziamento de quo, la Corte d'appello di Potenza abbia sviluppato nell'impugnata sentenza un iter argomentativo immune da vizi, rimarcando, in applicazione dell'art. 2106 c.c., la proporzionalità e fondatezza del licenziamento in parola, tanto alla stregua della grave condotta tenuta dal R., quanto in considerazione della consistente recidiva accumulata dallo stesso nel corso dell'ultimo biennio alle dipendenze della @@@@@@@. Neppure, infine, può trovare accoglimento il motivo di censura con cui il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 330 del 1970, art. 7, comma 1, ed insufficiente e/o contraddittoria motivazione, dolendosi, in relazione all'omessa affissione del codice disciplinare, che l'impugnata sentenza abbia affermato l'inapplicabilità alla tipologia di licenziamento esaminata di tale norma. A sostegno di ciò il ricorrente sottolinea che il licenziamento in questione, essendo scaturito da una condotta che non costituisce violazione di valori radicati nella coscienza sociale quale minimum etico, andava irrogato nel rispetto della L. n. 300 del 1970, art. 7, che prescrive, tra l'altro, l'affissione del codice disciplinare in azienda.
A tal proposito, si osserva che correttamente la Corte di Appello di Potenza ha ritenuto ultroneo l'accertamento della circostanza afferente l'affissione del codice disciplinare per essere la condotta contestata riconducibile alla violazione di un obbligo di legge - art. 2104 c.c. - e non già ad una specifica previsione disciplinare ex contractu.
In tale modo il Giudice a quo ha mostrato di recepire il consolidato orientamento di questa Corte, secondo cui la previa pubblicità del ed codice disciplinare mediante affissione in luogo accessibile a tutti i lavoratori, prescritta dalla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 7, comma 1, è richiesta soltanto ai fini del licenziamento intimato per specifiche ipotesi di giusta causa o giustificato motivo espressamente previste e così sanzionate dalla normativa collettiva (o anche da quella unilateralmente posta dal datore di lavoro nei casi in cui ciò è consentito), e non anche quando il recesso sia fondato su ragioni giustificative previste unicamente e direttamente dalla legge; talchè spetta al giudice di merito accertare in fatto se il licenziamento sia stato intimato sulla base delle suddette ipotesi specifiche o sia conseguenza di una previsione eventualmente contenuta nel codice disciplinare (ex plurimis, Cass. 26 luglio 2002 n. 11108).
Per quanto precede il ricorso va rigettato, rimanendo assorbito il ricorso incidentale condizionato proposto dalla società.
Le spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi; rigetta il ricorso principale e dichiara assorbito il ricorso incidentale. Condanna il R.M. alle spese di questo giudizio, liquidate in Euro 31,00 oltre Euro 3.000,00 per onorari ed oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 6 ottobre 2009.
Depositato in Cancelleria il 5 novembre 2009

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