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lunedì 23 settembre 2013

Cassazione: Giusta retribuzione anche nel pubblico impiego e lo stipendio può andare oltre la qualifica





Cass. civ. Sez. Unite, 11-12-2007,
n. 25837


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE
SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.
ri Magistrati:

Dott. CARBONE Vincenzo - Primo Presidente

Dott.
IANNIRUBERTO Giuseppe - Presidente di sezione

Dott. DI NANNI Luigi
Francesco - Consigliere

Dott. VITRONE Ugo - Consigliere

Dott. VIDIRI
Guido - rel. Consigliere

Dott. SETTIMJ Giovanni - Consigliere

Dott.
SEGRETO Antonio - Consigliere

Dott. RORDORF Renato - Consigliere

Dott. AMOROSO Giovanni - Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

REGIONE UMBRIA, in persona del
legale rappresentante pro-tempore, elettivamente domiciliata in ROMA,
VIA MARIA CRISTINA 8, presso lo studio dell'avvocato GOFFREDO GOBBI,
rappresentata e difesa dall'avvocato MANUALI PAOLA, giusta delega a
margine del ricorso;

- ricorrente -

contro

R.S.F., elettivamente
domiciliato in ROMA, VIA ANAPO 20, presso lo studio dell'avvocato RIZZO
CARLA, che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato MASTRANGELI
D. FABRIZIO, giusta delega a margine del controricorso;

-
controricorrente -

avverso la sentenza n. 343/05 della Corte d'Appello
di PERUGIA, depositata il 08/11/05;

udita la relazione della causa
svolta nella pubblica udienza del 20/11/07 dal Consigliere Dott. Guido
VIDIRI;

uditi gli avvocati Goffredo GOBBI, per delega dell'avvocato
Paola MANUALI, Fabrizio D. MASTRANGELI;

udito il P.M. in persona
dell'Avvocato Generale Dott. IANNELLI Domenico, che ha concluso per
l'accoglimento de primo e secondo motivo (giurisdizione dell'aga per la
differenza retributiva fino al 30/6/1998; ago per il periodo
successivo); rinvio per il resto ad una sezione semplice.


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Fatto Diritto P.Q.M.
Svolgimento del processo
Con ricorso depositato
in data 17 agosto 1999 dinanzi al Tribunale di Perugia, in funzione di
giudice del lavoro, R.S.F. riferiva di essere dipendente della Regione
dell'Umbria e di avere lavorato presso il "Centro di Studi Giuridici e
Politici", inquadrato nella 7^ qualifica funzionale. Con Delib. n. 14
del 1991, Delib. n. 13 del 1991, il Comitato Direttivo gli aveva
affidato il compito di responsabile della Segreteria del Centro, dopo
che dal settembre del 1991 il precedente responsabile, R.L., era stato
collocato in quiescenza ed il Comitato aveva deciso di non ricoprire il
posto. Dal 1 novembre 1991, in forza delle predette delibere, aveva
ricoperto l'incarico di segretario, vacante in organico, espletandone
tutte le mansioni sino al 31 dicembre 1998, allorchè con Delib. Giunta
Regionale del 30 dicembre 1998, n. 6488, con decorrenza dal 1 gennaio
1999 era stato assegnato, in qualità di dirigente, alla segreteria del
Centro il signor C.G..

L'espletamento di mansioni superiori non aveva
mai comportato per esso ricorrente - inquadrato sino al 5 novembre 1992
nel 6^ livello e successivamente nel 7^ - alcun incremento economico.
Tutto ciò premesso, chiedeva che gli venisse riconosciuto il
trattamento corrispondente al 9^ livello e che la Regione fosse
condannata a corrispondere le conseguenti differenze retributive.

Dopo
la costituzione della Regione, che aveva eccepito preliminarmente il
difetto di giurisdizione del giudice adito, quanto meno per il periodo
antecedente al 30 giugno 1998, entro il quale si era svolta la maggior
parte del rapporto, il Tribunale, ritenendo invece la propria
giurisdizione, accoglieva la domanda e condannava la Regione al
pagamento delle differenze retributive richieste nonchè al pagamento
delle spese del giudizio.

A seguito di gravame, la Corte d'appello di
Perugia con sentenza dell'8 novembre 2005 rigettava l'appello e
confermava l'impugnata sentenza. Nel pervenire a tale decisione la
Corte territoriale osservava in via pregiudiziale che sulla
giurisdizione si era formato il giudicato atteso che, con la stessa
ordinanza con cui era stata ritenuta non manifestamente infondata la
questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 29 del 1992, art.
56 e del D.Lgs. n. 387 del 1998, art. 15, era stata affermata
"preliminarmente la propria giurisdizione a conoscere dell'intera
vertenza". Si era pertanto in presenza di un provvedimento che, pur
qualificato "ordinanza", conteneva nella prima parte un provvedimento
sulla giurisdizione che, avendo natura di sentenza, andava
tempestivamente impugnato, mentre nella seconda parte una vera
ordinanza per essere stata rimessa al giudice delle leggi una questione
di costituzionalità. Nel merito poi il giudice d'appello affermava che
correttamente il Tribunale aveva ritenuto applicabile l'art. 36 Cost.
al pubblico impiego privatizzato in una fattispecie in cui veniva
rivendicata una retribuzione adeguata alle mansioni in concreto svolte,
superiori a quelle di inquadramento. Avverso tale sentenza la Regione
Umbria propone ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi.
Resiste con controricorso R.F.S..

Ambedue le parti hanno depositato
memorie ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione
1. Nel
controricorso R.S.F. afferma che il ricorso proposto dalla Regione
notificato il 14 marzo 2006 (consegnato gli ufficiali giudiziari il 13
marzo 2006) è inammissibile "avendo quest'ultima notificato due
ricorsi, di cui il primo è nullo in quanto non si comprende se viene
chiesta la cessazione totale o parziale della sentenza di primo grado"
e perchè la delega a proporre tale ricorso era stata conferita dal vice
Presidente della Giunta senza che venissero enunciate nè provate le
ragioni di impedimento alla firma per il Presidente della Regione, che
aveva rilasciata invece regolare delega in relazione al secondo
ricorso. A supporto della sua eccezione il R. deduce che la
notificazione del primo atto in data 6 marzo 2006 aveva consumato il
potere della Regione di ricorrere per cassazione sicchè il ricorso
successivamente notificato non poteva sanare i vizi del primo che, per
non essere stato oggetto di rinunzia, aveva finito per incardinare il
rapporto processuale.

1.1. L'eccezione è priva di giuridico
fondamento.

1.2. Ed invero va in primo luogo considerato che non può
ritenersi in alcun modo inficiato di invalidità un ricorso per
Cassazione che, sebbene mancante -come nel caso di specie - di una o
più righe per mero errore di stampa, consenta tuttavia, sulla base del
suo integrale contenuto, di desumere - dalla esposizione dei fatti e
dei motivi posti a base della detta impugnazione - la richiesta di
cassazione totale della sentenza impugnata. In ogni caso va considerato
che il R. avverso il secondo ricorso non ha sollevato fondate ragioni
di nullità e che inoltre non si è verificato nel caso di specie una
consumazione del potere di impugnazione, atteso che questa Corte ha più
volte ribadito il principio secondo cui la regola della consumazione
dell'impugnazione non esclude che, dopo la proposizione di
un'impugnazione viziata, possa esserne proposta una seconda immune dai
vizi della precedente e destinata a sostituirla, precisando anche al
riguardo che, per espressa previsione normativa (artt. 353 e 387 cod.
proc. civ., rispettivamente per l'appello e per il ricorso per
cassazione), la consumazione del diritto d'impugnazione presuppone
l'esistenza - al tempo della proposizione della seconda impugnazione -
di una declaratoria di inammissibilità o improcedibilità della
precedente;

sicchè, in mancanza di tale (preesistente) declaratoria,
ben è consentita la proposizione di una (altra) impugnazione (di
contenuto identico o diverso) in sostituzione della precedente viziata,
semprechè il relativo termine non sia decorso (cfr. in tali sensi:

Cass. 23 gennaio 1998 n. 643, cui adde tra le tante: Cass. 22 maggio
2007 n. 11870; Cass. 15 gennaio 2003 n. 491; Cass. 11 maggio 2002 n.
6560).

2. Quanto ora detto consente l'esame dei motivi del ricorso
proposto dalla Regione Umbria.

3. Con il primo motivo la Regione
denunzia violazione e falsa applicazione dell'art. 24 Cost., dell'art.
279 c.p.c., comma 2, e della L. 11 marzo 1953, art. 23, n. 87, in
relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 1 e 3 assumendo che la Corte
d'appello ha errato nel ritenere che l'ordinanza di remissione alla
Corte Costituzionale contenesse "nella prima parte un provvedimento
sulla giurisdizione, avente natura di sentenza", e che, su detto
presupposto ha fatto scaturire la formazione del giudicato sulla
giurisdizione.

Con il secondo motivo la ricorrente deduce violazione
ed errata interpretazione del D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 45, comma 17,
e del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 69, comma 7, in relazione all'art.
360 c.p.c., comma 1, n. 1 e 3. A tale riguardo sostiene che la Corte
d'appello avrebbe dovuto riconoscere la giurisdizione del giudice
amministrativo almeno sino al 30 giugno 1998, assumendo altresì che il
R. doveva ritenersi assoggettato a decadenza per ogni pretesa relativa
al suddetto periodo per essere dette pretese assoggettate alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo solo se proposte
entro il 15 settembre 2000.

Con il terzo motivo la Regione Umbria
lamenta violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 80 del 1998, art.
25 del D.Lgs. n. 387 del 1998, art. 15 e del D.Lgs. n. 29 del 1993,
art. 56 (ora art. 52 del t.u. approvato con il D.Lgs. n. 165 del 2001),
in relazione all'art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. Precisa a tale riguardo
la ricorrente che, come statuito più volte dai giudici amministrativi,
solo a decorrere dall'entrata in vigore del D.Lgs. n. 387 del 1998,
art. 15 e precisamente solo a partire dal 22 novembre 1998, andava
riconosciuto con carattere di generalità il diritto alle differenze
retributive a favore del dipendente pubblico che abbia svolto le
mansioni superiori, mentre per il periodo precedente non poteva essere
riconosciuto alcun diverso trattamento economico nè facendo riferimento
all'art. 36 Cost. nè all'art. 2126 c.c. nè all'art. 2041 c.c..

Con il
quarto motivo la Regione denunzia violazione e falsa applicazione del D.
Lgs. n. 165 del 2001, art. 52, comma 2, in relazione all'art. 360 c.p.
c., comma 1, n. 3, sostenendo sul punto che è stato illegittimamente
riconosciuto al R. un trattamento retributivo equivalente alla ex nona
qualifica, spettante al personale dirigenziale, sicchè risultava
violato il principio giurisprudenziale secondo cui la valutabilità
delle mansioni superiori poteva di fatto avvenire con riferimento al
livello o alla qualifica immediatamente superiore. Ed invero
l'espletamento delle mansioni superiori da parte del dipendente non può
riguardare una qualifica due volte superiore a quella rivestita, come
invece era avvenuto nel caso di specie per essersi il R. visto
riconosciuto un trattamento economico equivalente prima al sesto
livello e successivamente al settimo e per avere, infine, rivendicato
un trattamento equivalente al nono livello.

4. I primi due motivi del
ricorso, da esaminarsi congiuntamente per essere relativi alla
problematica del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e
giudice amministrativo e per comportare la risoluzione di questioni tra
loro strettamente connesse, vanno rigettati perchè privi di fondamento.

4.1. E' del tutto pacifico in dottrina e nella giurisprudenza, e
comunque univocamente postulato dal dato normativo (art. 134 Cost.;

L.
11 marzo 1953, n. 87, art. 23), che all'ordinanza con cui il giudice a
quo motiva la rilevanza e la non manifesta infondatezza della ipotesi
di illegittimità di norma che egli è chiamato ad applicare, non possa
riconnettersi altro effetto che quello endoprocessuale di attivare
l'incidente di costituzionalità (cfr. in tali sensi in motivazione:
Cass. 21 luglio 1995 n. 7950), essendosi al riguardo statuito pure che
l'ordinanza con la quale il giudice ritenga rilevante e non
manifestamente infondata una questione di legittimità costituzionale
trasmettendo gli atti alla Corte Costituzionale a norma della L. 11
marzo 1953, n. 87, art. 23, con la sospensione del giudizio in corso e
dell'esecuzione di propria precedente statuizione, configura un
provvedimento strumentale ed ordinatorio, privo di carattere decisorio
e, pertanto, non impugnabile neanche quando si ponga in discussione il
potere stesso di quel giudice di disporre la remissione di detta
questione alla Corte Costituzionale (cfr,. al riguardo:Cass., Sez. Un.,
31 maggio 1984 n. 3317).

4.2. Come però emerge dalla lettura della
impugnata sentenza l'ordinanza con la quale nella fattispecie in esame
gli atti sono stati rimessi alla Corte costituzionale non può reputarsi
provvedimento meramente ordinatorio per quanto attiene alla questione
sulla giurisdizione, essendo stato il giudice delle leggi investito
unicamente della diversa questione relativa alla diretta applicabilità
dell'art. 36 Cost., al pubblico impiego, questione poi dichiarata
infondata e che, non investendo in alcun modo la ritenuta giurisdizione
del giudice ordinario, non poteva impedire il passaggio in giudicato
sul punto della decisione del primo giudice.

4.3. A tale riguardo va
ricordato che questa Corte di cassazione ha più volte statuito che, al
fine di stabilire se un provvedimento abbia natura di sentenza o di
ordinanza, è decisiva non già la forma adottata ma il suo contenuto
(cosiddetto principio della prevalenza della sostanza sulla forma), di
modo che allorquando il giudice, ancorchè con provvedimento avente
veste formale di ordinanza, abbia, senza definire il giudizio, deciso
una o più delle questioni di cui all'art. 279 cod. proc. civ. - in
particolare affermando la propria giurisdizione - a detto provvedimento
va riconosciuta natura di sentenza non definitiva ai sensi dell'art.
279 cod. proc. civ., comma 2, n. 4, con l'ulteriore conseguenza che, a
norma dell'art. 361 cod. proc. civ., avverso la stessa va fatta riserva
di ricorso per cassazione o va proposto ricorso immediato,
determinandosi, in difetto, il passaggio in giudicato della decisione,
senza che rilevi in contrario che, nella sentenza definitiva, lo stesso
giudice abbia poi ribadito la propria giurisdizione (cfr. ex plurimis:
Cass., Sez. Un., 24 ottobre 2005 n. 20470; Cass. 7 aprile 2006 n.
8174).

4.4. Nel caso di specie la Corte territoriale ha ritenuto che
il provvedimento ricognitivo della giurisdizione del giudice ordinario
aveva solo la forma dell'ordinanza mentre doveva considerarsi una
sentenza per il suo contenuto; conclusione questa che - confortata
anche dalla sottoscrizione dello stesso provvedimento da parte del
presidente e dell'estensore e dalla distinta e propria collocazione,
pur all'interno di esso, della questione di giurisdizione e di quella
riguardante l'applicazione dell'art. 36 Cost. - si sottrae ad ogni
censura in questa sede di legittimità per essere il provvedimento
scrutinato sorretto da motivazione congrua, priva di salti logici e
rispettosa dei principi applicabili in materia.

4.5. Per concludere
sul punto va riconosciuta la giurisdizione del giudice ordinario per
tutte le pretese avanzate in giudizio da Silvio R.F. senza che possa
farsi al riguardo una distinzione tra trattamento economico antecedente
al 30 giugno 1998 e trattamento successivo, in conformità a quanto
affermato di recente dalla giurisprudenza di queste stesse Sezioni
Unite che, infatti - in una fattispecie assimilabile sotto molti
profili a quella in esame - hanno statuito che rientra nella
giurisdizione del giudice ordinario la controversia promossa da un
dipendente comunale il quale, assumendo di essere stato legittimamente
assegnato a mansioni inferiori rispetto alla qualifica riconosciuta da
provvedimenti dell'amministrazione datrice di lavoro emanati prima del
30 giugno 1998, i cui effetti siano perduranti per il periodo
successivo, chieda il ripristino delle mansioni di sua spettanza ed il
risarcimento del danno. Ed invero, in presenza del D.Lgs. 30 marzo
2001, n. 165, art. 69, comma 7, che fissa una proroga della
giurisdizione amministrativa esclusiva in materia di pubblico impiego
con riferimento alle "questioni attinenti al periodo del rapporto di
lavoro" anteriori al 30 giugno 1998, per temperare il frazionamento
delle domande ed evitare che i diritti divenuti esigibili in un certo
arco temporale debbano essere fatti valere dinanzi a giudici diversi
con competenza ripartita in base all'epoca della loro maturazione,
qualora la lesione lamentata dal lavoratore abbia origine da un
comportamento del datore di lavoro pubblico che si assume
permanentemente illecito, deve farsi riferimento al momento della
realizzazione del fatto dannoso e, quindi, al momento della cessazione
della permanenza del comportamento, di modo che, ove tale cessazione
intervenga in data successiva al 30 giugno 1998, la controversia
rientra nella giurisdizione del giudice ordinario(Cass., Sez. Un., 9
marzo 2007 n. 5404).

5. I due primi motivi di ricorso vanno pertanto
rigettati dovendosi riconoscere la giurisdizione del giudice ordinario
per tutte le domande spiegate dal R..

6. Anche il terzo e quarto
motivo del ricorso, con i quali si contesta con diverse argomentazioni
l'applicabilità dell'art. 36 Cost., al rapporto di impiego pubblico ora
privatizzato, vanno rigettati.

La Corte d'appello di Perugia, nel
confermare la sentenza di primo grado, ha affermato che il R. ha svolto
mansioni superiori a quelle proprie della qualifica funzionale di
inquadramento e che, pertanto, ha diritto al riconoscimento di una
retribuzione che tenendo conto, alla strega dell'art. 36 Cost., della
qualità del lavoro spiegato sia correlata alle mansioni superiori
svolte.

Le conclusioni cui è pervenuto il giudice d'appello - dopo
avere evidenziato come il divieto di corresponsione della retribuzione
corrispondente alle mansioni superiori stabilito dal D.Lgs. n. 29 del
1993, art. 52, comma 6, (poi modificato dal D.Lgs. n. 80 del 1998, art.
25) sia stato soppresso dal D.Lgs. n. 387 del 1998, art. 15, con
efficacia retroattiva - sono state supportate dalla considerazione che
nella giurisprudenza sia ormai principio acquisito la necessità un
giusto contemperamento, da perseguirsi attraverso il ricorso alla
"giusta retribuzione" ex art. 36 Cost., fra retribuzione e quantità e
qualità del lavoro svolto anche nel caso che l'utilizzazione del
dipendente avvenga in mansioni che siano state irregolarmente
acquisite.

6.1. La giurisprudenza amministrativa ha seguito un
orientamento volto al diniego dell'applicabilità dell'art. 36 Cost. al
pubblico impiego sul presupposto che su detta norma volta al rispetto
della "giusta retribuzione" dovessero prevalere gli artt. 97 e 98
Cost., non potendo il rapporto di pubblico impiego essere in alcun modo
assimilato ad un rapporto di scambio e dovendosi, anche ai fini del
controllo della spesa, rispettare l'esigenza di conservazione di un
assetto della pubblica amministrazione rigido e trasparente,
espressione della quale è quella della supremazia del parametro della
qualifica su quello delle mansioni, sicchè in una siffatta ottica
ostavano all'applicabilità dell'art. 36 Cost. pure le norme
codicistiche dell'art. 2116 c.c. e art. 2041 c.c. (cfr. per tale
indirizzo ex plurimis: Cons. Stato, Sez. 5^, 28 febbraio 2001 n. 1073;
Cons. Stato, Sez. 6^, 4 dicembre 2000 n. 6466; Cons. Stato, Sez. 5^, 12
ottobre n. 1438; Cons. Stato, Sez. 6^, 29 settembre 1999 n. 1291).

Nonostante tale indirizzo - secondo cui, come visto, il principio della
corrispondenza ex art. 36 Cost. della retribuzione dei lavoratori alla
qualità e quantità del lavoro prestato, non può trovare applicazione
nel rapporto di pubblico impiego, concorrendo in detto ambito altri
principi di pari rilevanza costituzionale - anche di recente ribadito
(Cons. Stato, Sez. 6^, 7 giugno 2005 n. 2184;

Cons. Stato, Sez. 6^, 23
gennaio 2004 n. 222), si sono sul punto tuttavia manifestate, in alcune
pronunzie dell'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, significative
aperture verso una maggiore tutela del lavoratore essendosi ritenuto:
che le differenze retribuitive vanno riconosciute al lavoratore sin dal
momento dell'emanazione del D.Lgs. n. 387 del 1998 e non a partire
dalla stipulazione dei nuovi contratti collettivi (Cons. Stato, Ad,
plen. 28 gennaio 2000 n. 10), e che è consentita la trasposizione di
regole privatistiche nell'area del pubblico impiego, sicchè l'art. 2126
c.c., può trovare applicazione anche in un rapporto instauratosi con la
pubblica amministrazione, senza il rispetto delle norme che ne regolano
la costituzione, con l'effetto che al dipendente di mero fatto della
pubblica amministrazione devono essere riconosciute le prestazioni
retributive e previdenziali (Cons. Stato, Ad. plen. 29 febbraio 1992 n.
1).

6.2. A diverse conclusioni è pervenuta la giurisprudenza dei
giudici della legge per avere, infatti, la Corte costituzionale con
numerose pronunzie patrocinato la diretta applicabilità al rapporto di
pubblico impiego dei principi dettati dall'art. 36 Cost., specificando
al riguardo che detta norma "determina l'obbligo di integrare il
trattamento economico del dipendente nella misura della quantità del
lavoro effettivamente prestato" a prescindere dalla eventuale
irregolarità dell'atto o dall'assegnazione o meno dell'impiegato a
mansioni superiori (Corte Cost. 23 febbraio 1989 n. 57; Corte Cost ord.
26 luglio 1988 n. 908); che "il principio dell'accesso agli impieghi
nelle pubbliche amministrazioni mediante pubblico concorso non è
incompatibile con il diritto dell'impiegato, assegnato a mansioni
superiori alla sua qualifica, di percepire il trattamento economico
della qualifica corrispondente, giusta il principio di equa
retribuzione sancito dall'art. 36 Cost.)" (Corte Cost. 27 maggio 1992
n. 236); che il mantenere da parte della pubblica amministrazione
l'impiegato a mansioni superiori, oltre i limiti prefissati per legge,
determina una mera illegalità, che però non priva il lavoro prestato
della tutela collegata al rapporto - ai sensi dell'art. 2126 c.c. e,
tramite detta disposizione, dell'art. 36 Cost. - perchè non può
ravvisarsi nella violazione della mera ristretta legalità quella
illiceità che si riscontra, invece, nel contrasto "con norme
fondamentali e generali e con i principi basilari pubblicistici
dell'ordinamento" e che, alla stregua della citata norma codicistica,
porta alla negazione di ogni tutela del lavoratore (Corte Cost. 19
giugno 1990 n. 296 attinente ad una fattispecie riguardante il
trattamento economico del personale del servizio sanitario nazionale in
ipotesi di affidamento di mansioni superiori in violazione del disposto
del D.P.R. n. 761 del 1979, art. 29, comma 2).

6.3. L'estensione della
norma costituzionale all'impiego pubblico è condivisa anche dalla
dottrina giuslavoristica che evidenzia come - pur essendo a seguito del
D.Lgs. n. 165 del 2001 il trattamento economico dell'impiegato
disciplinato dalla contrattazione collettiva e pur essendo detta
contrattazione con priva di vicoli unilateralmente opposti per fini di
controllo della spesa pubblica (quali quelli derivanti dai primi tre
commi dell'art. 48 del suddetto decreto) - i suddetti vincoli derivanti
da esigenze di bilancio non impediscano comunque la piena operatività,
anche nel settore del lavoro pubblico, dei principi costituzionali di
proporzionalità ed efficienza della retribuzione espressi dall'art. 36
Cost..

Principio questo che per poggiare sulla peculiare
corrispettività del rapporto lavorativo - qualificato dalla specifica
rilevanza sociale che assume in esso la retribuzione volta a compensare
"una attività contrassegnata dall'implicazione della stessa persona del
lavoratore", il quale ricava da tale attività il mezzo normalmente
esclusivo di sostentamento suo e della sua famiglia - da un lato ha
portato autorevole dottrina a sganciare il rapporto giuridico
retributivo dal novero dei diritti di credito per inquadrarlo tra i
diritti assoluti della persona, e dall'altro ha spinto ad affermare,
sulla base di una coessenzialità o di una stretta relazione dei due
principi della "sufficienza" e della "proporzionalità" ostativa a
qualsiasi rapporto gerarchico tra gli stessi, che l'attenuazione del
principio sinallagmatico, integrato nel caso in esame dalla rilevanza
della persona umana (che determina una traslazione del datore di lavoro
del rischio della inattività del prestatore di lavoro, come in caso di
sospensione del rapporto) attestano una dimensione sociale della
retribuzione e la sentita esigenza della copertura a livello
costituzionale dei diritti inderogabili del lavoratore.

6.4. Le
considerazioni svolte forniscono le coordinate per la soluzione della
problematica oggetto dell'esame di queste Sezioni Unite. Ed alla
stregua di quanto sinora enunciato e proprio in conformità della
ricordata giurisprudenza della Corte Costituzionale - in mancanza di
ragioni nuove e diverse e per una consequenziale doverosa fedeltà ai
precedenti, sulla quale si fonda, per larga parte, l'assolvimento della
funzione ordinamentale di assicurare l'esatta osservanza e l'uniforme
interpretazione della legge - deve essere ribadito il principio fissato
dai giudici di legittimità secondo il quale, nel pubblico impiego
privatizzato, il divieto di corresponsione della retribuzione
corrispondente alle mansioni superiori, stabilito dal D.Lgs. n. 29 del
1993, art. 56, comma 6, come modificato dal D.Lgs. n. 80 del 1998, art.
25, è stato soppresso dal D.Lgs. n. 387 del 1998, art. 15, con
efficacia retroattiva, atteso che la modifica del comma 6 ultimo
periodo disposta dalla nuova norma è una disposizione di carattere
transitorio, non essendo formulata in termini atemporali, come avviene
per le norme ordinarie, ma con riferimento alla data ultima di
applicazione della norma stessa e quindi in modo idoneo a incidere
sulla regolamentazione applicabile all'intero periodo transitorio. Ne
consegue che il principio della retribuzione proporzionato e
sufficiente ex art. 36 Cost., è applicabile anche al pubblico impiego
senza limitazioni temporali (cfr. al riguardo Cass. 17 aprile 2007 n.
9130 cui adde, da ultimo, Cass. 14 giugno 2007 n. 13877, che precisa
anche che l'applicazione dell'art. 36 Cost. non debba però
necessariamente tradursi in un rigido automatismo di spettanza al
pubblico dipendente del trattamento economico esattamente
corrispondente alle mansioni superiori ben potendo risultare
diversamente osservato il precetto costituzionale anche mediante la
corresponsione di un compenso aggiuntivo rispetto alla qualifica di
appartenenza; ed ancora per lo stesso indirizzo: Cass. 14 giugno 2007
n. 13877;

Cass. 8 gennaio 2004 n. 91; Cass. 4 agosto 2004 n. 19444).

6.5. Corollario di quanto sinora esposto è che - stante la valenza
generale dei criteri parametrici fissati dalla norma costituzionale in
materia di retribuzione - il disposto dell'art. 36 Cost. non può non
trovare applicazione anche nelle fattispecie, analoghe a quella in
esame, in cui la pretesa del lavoratore alla retribuzione
corrispondente allo svolgimento dell'attività prestata riguardi
mansioni superiori corrispondenti ad una qualifica di due livelli
superiori a quella di inquadramento (cfr. sul punto: Cass. 25 ottobre
2004 n. 20692).

Sul versante fattuale, poi, l'estensione della norma
costituzionale nei sensi innanzi precisati richiede in ogni caso che le
mansioni assegnate siano in concreto svolte nella loro pienezza, sia
per quanto attiene al profilo quantitativo che qualitativo
dell'attività spiegata sia per quanto attiene all'esercizio dei poteri
ed alle correlative responsabilità attribuite(cfr. al riguardo: Cass.
19 aprile 2007 n, 9328); circostanze queste che ben possono ritenersi
provate sulla base dei fatti allegati in causa (ad esempio, lunga
durata nello svolgimento delle mansioni, mancata denunzia di
inadempimenti o di inesatti assolvimenti degli obblighi derivanti dalle
mansioni assegnate) nonchè della condotta processuale della parte
datoriale (acquiescenza o mancata contestazione ex art. 416 c.p.c. dei
fatti e degli elementi di diritto della domanda di controparte).

6.6
Nè al fine di patrocinare una interpretazione del dato normativo
diversa da quella seguita sulla scia della giurisprudenza
costituzionale vale prospettare la possibilità di abusi conseguenti al
riconoscimento del diritto ad un'equa retribuzione ex art. 36 Cost., al
lavoratore cui vengano assegnate mansioni superiori al di fuori delle
procedure prescritte per l'accesso agli impieghi ed alle qualifiche
pubbliche, perchè, come è stato rimarcato da più parti, il cattivo uso
di assegnazione di mansioni superiori impegna la responsabilità
disciplinare e patrimoniale (e sinanche penale qualora si finisse per
configurare un abuso di ufficio per recare ad altri vantaggio) del
dirigente preposto alle gestione dell'organizzazione del lavoro, ma non
vale di certo sul piano giuridico a giustificare in alcun modo la
lesione di un diritto di cui in precedenza si è evidenziata la
rilevanza costituzionale.

7. La particolare importanza della questione
di diritto trattata induce queste Sezioni unite ai sensi del disposto
dell'art. 384 c.p.c., comma 1, (nel testo riscritto dal D.Lgs. 2
febbraio 2006, n. 40, art. 12) - nella cui ratio non è affatto estraneo
il rafforzamento della funzione nomofilattica della Corte di Cassazione
- ad enunciare il seguente principio di diritto: "In materia di
pubblico impiego - come si evince anche dalla lettura del D.Lgs. 3
febbraio 1993 n. 29, art. 56, comma 6, (nel testo sostituito dal D.Lgs.
31 marzo 1998, n. 80, art. 25, così come successivamente modificato dal
D.Lgs. 29 ottobre 1998, n. 387, art. 15) - l'impiegato cui sono state
assegnate, al di fuori dei casi consentiti, mansioni superiori, anche
corrispondenti ad una qualifica di due livelli superiori a quella di
inquadramento, ha diritto, in conformità della giurisprudenza della
Corte Costituzionale, ad una retribuzione proporzionata e sufficiente
ex art. 36 Cost.. Norma questa che deve, quindi, trovare integrale
applicazione - senza sbarramenti temporali di alcun genere - pure nel
settore del pubblico impiego privatizzato, sempre che le superiori
mansioni assegnate siano state svolte, sotto il profilo quantitativo e
qualitativo, nella loro pienezza, e sempre che in relazione
all'attività spiegata siano stati esercitati i poteri ed assunte le
responsabilità correlate a dette superiori mansioni.

8. Per concludere
il ricorso va rigettato per essere la sentenza impugnata supportata da
un iter argomentativo in linea con il principio di diritto ora
enunciato.

9. Le spese del presente giudizio di Cassazione - tenuto
conto della natura della controversia e della rilevanza e complessità
delle numerose questioni giuridiche affrontate - vanno compensate tra
le parti, ricorrendo giusti motivi.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso
e compensa tra le parti le spese del presente giudizio di Cassazione.

Così deciso in Roma, il 20 novembre 2007.

Depositato in Cancelleria il
11 dicembre 2007



 

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