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lunedì 23 settembre 2013

Cassazione: portiere parla male del condominio? Può essere licenziato





Cass. civ. Sez. lavoro, 12-12-2007, n. 26073


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE
LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MERCURIO
Ettore - Presidente

Dott. ROSELLI Federico - rel. Consigliere

Dott.
D'AGOSTINO Giancarlo - Consigliere

Dott. DE MATTEIS Aldo - Consigliere

Dott. NOBILE Vittorio - Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

F.C., domiciliato in ROMA presso LA
CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso
dall'avvocato SANGUEDOLCE SEBASTIANO, giusta delega in atti;

-
ricorrente -

contro

CONDOMINIO DI (OMISSIS), in persona del legale
rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA
LICINIO CALVO 14, presso lo studio dell'avvocato MICHELA REGGIO D'ACI,
rappresentato e difeso dall'avvocato MISTRETTA FRANCESCO, giusta delega
in atti;

- controricorrente -

avverso la sentenza n. 496/04 della
Corte d'Appello di PALERMO, depositata il 20/05/04 r.g.n. 385/02;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
04/10/07 dal Consigliere Dott. Federico ROSELLI;

udito l'Avvocatò
STEFANO BERETTA per delega SANGUEDOLCE SEBASTIANO;

udito il P.M. in
persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PATRONE Ignazio, che
ha concluso per il rigetto del ricorso.


--------------------------------------------------------------------------------
Fatto Diritto P.Q.M.
Svolgimento del processo
Con sentenza del 20
maggio 2004 la Corte d'appello di Palermo confermava, per quanto qui
ancora interessa, la decisione, emessa dal Tribunale, di accoglimento
della domanda proposta dal Condominio di (OMISSIS) contro il lavoratore
subordinato con mansioni di portiere F.C. ed intesa all'accertamento
della legittimità del licenziamento intimato il 19 marzo 1997 per
giusta causa.

Con la stessa sentenza la Corte d'appello confermava il
rigetto, pronunciato dal Tribunale, della domanda risarcitoria proposta
in riconvenzionale dal F. ed il parziale accoglimento delle sue pretese
retributive.

La Corte, come già il primo giudice, riteneva che i fatti
giustificanti il licenziamento fossero provati dalle deposizioni
testimoniali di alcuni condomini, la cui asserita incapacità ex art.
246 c.p.c., era stata dal F. eccepita troppo tardi ossia dopo l'udienza
successiva alla deposizione (art. 157 c.p.c., comma 2).

Quanto alla
proporzione della sanzione espulsiva, quei fatti, consistiti in minacce
contro un addetto alla pulizia dell'edificio condominiale, seguite
dall'allontanamento dell'addetto, ed ancora in minacce contro un
sostituto portiere accompagnate da turpiloquio verso il condominio,
erano contrari al vivere civile della comunità dell'edificio ed
interrompevano il legame di fiducia necessariamente intercorrente fra
datore e prestatore di lavoro.

La contrarietà di quei fatti ai valori
elementari della vita associata li rendeva suscettibili di sanzione
anche in mancanza di affissione del codice disciplinare di cui alla L.
20 maggio 1970, n. 300, art. 7.

Due licenziamenti che avevano
preceduto quello del 1997 erano stati revocati dal datore di lavoro
perchè formalmente illegittimi e non avevano causato alcuna
interruzione della retribuzione: essi perciò non avevano prodotto alcun
danno risarcibile ai sensi della L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8.

Quanto al lamentato danno biologico, consistito in nevrosi reattiva, la
sua derivazione da quegli atti di licenziamento non era stata provata,
apparendo anzi preesistenti l'instabilità psichica e l'irritabilità.

Contro questa sentenza ricorre per Cassazione il F. mentre il
Condominio resiste con controricorso.

Motivi della decisione
Col primo
motivo il ricorrente lamenta la violazione dell'art. 2119 c.c., L. n.
604 del 1966, art. 1, L. n. 300 del 1970, art. 7, artt. 115, 246, 157 c.
p.c., e vizi di motivazione, formulando in realtà diverse censure.

La
prima è manifestamente priva di fondamento giacchè esattamente la Corte
d'appello ha ritenuto integrante giusta causa di licenziamento il
comportamento del portiere di un edificio condominiale di abitazione,
il quale ritenga di difendere i propri interessi attraverso minacce
rivolte contro un suo sostituto o contro un addetto alle pulizie, fino
a provocarne l'allontanamento dal posto di lavoro, o ancora usi
turpiloquio riferendosi al condominio.

Nè il licenziamento presuppone
la previsione di tale comportamento nel codice disciplinare di cui
all'art. 7 cit., poichè compilazione ed affissione di questo codice
sono imposte dal legislatore al fine di impedire che il datore di
lavoro possa arbitrariamente e post factum configurare e di conseguenza
addebitare un illecito disciplinare. L'esigenza di affissione sussiste
quando trattisi di illeciti consistenti in violazione di discipline
aziendali ignote alla generalità e perciò difficilmente conoscibili se
non espressamente previste, mentre non sussiste per i comportamenti
manifestamente contrastanti con la legge e col contratto o con valori
comunemente accettati. (Cass. 18 febbraio 1995 n. 1747,18 giugno 1996
n. 5583, 8 febbraio 2000 n. 1412).

Infondata è anche la censura di
illegittima assunzione delle deposizioni testimoniali dei condomini,
interessati alla causa, poichè la relativa doglianza fu tardivamente
formulata nel giudizio di merito, come esattamente afferma la Corte
d'appello, ossia dopo la prima udienza successiva all'assunzione dei
testi (art. 157 cpv. c.p.c.), avendo così la parte tacitamente
rinunziato all'eccezione di inammissibilità ex art. 246 c.p.c.,
sollevata prima della detta assunzione.

La censura sull'attendibilità
dei testimoni è poi inammissibile poichè diretta ad ottenere da questa
Corte di legittimità nuovi, impossibili apprezzamenti di fatto.

Col
secondo motivo il ricorrente invoca le stesse norme di diritto, oltre
all'art. 2043 c.c., per avere la Corte d'appello escluso che i due
licenziamenti, revocati dal datore di lavoro perchè pacificamente
illegittimi, avessero provocato danni risarcibili L. n. 604 del 1966,
ex art. 8, o comunque da essi derivati.

Il motivo non è fondato.

La
questione che il ricorrente sottopone a questa Corte, e che consiste
nello stabilire se il licenziamento illegittimo revocato dia nondimeno
al lavoratore il diritto al risarcimento del danno L. n. 604 del 1966,
ex art. 8, dev'essere risolta in senso negativo, poichè la norma ora
detta pone il risarcimento come alternativo alla riassunzione onde il
relativo diritto non ha ragion d'essere quando il lavoratore abbia
ripreso il suo posto, salvo restando il risarcimento di eventuali danni
ex art. 1218 c.c., ad esempio per retribuzione ritardata o inferiore al
dovuto, oppure per licenziamento ingiurioso. In senso analogo questa
Corte si è espressa con riferimento all'indennità sostitutiva della
reintegrazione, di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 5,
(Cass. 21 dicembre 1945 n. 13047 e vedi anche Cass. 12 luglio 2004 n.
12867).

Nè la giurisprudenza della Corte è orientata diversamente con
riguardo alla clausola penale legale di cui al quarto comma dello
stesso art. 18, quando, come nel caso qui in esame, il licenziamento
sia stato revocato prima che il licenziato abbia esercitato l'azione
giudiziale (Cass. 26 febbraio 1988 n. 2068,25 maggio 1991 n. 5969,4
dicembre 1986 n. 7197, 19 giugno 1993 n. 6837,12 ottobre 1993 n.
10085).

Nella specie gli ulteriori danni ex art. 1218 c.c., cit.,
lamentati dal lavoratore come nocumento alla salute, sono stati negati
dai giudici di merito per difetto di prova, con valutazione
incensurabile nel giudizio di legittimità, come s'è detto.

Col terzo
motivo il ricorrente denuncia la violazione degli artt. 112, 115, 132,
161 c.p.c., e vizi di motivazione con riguardo al rigetto delle pretese
retributive, deciso "acriticamente e senza alcuna motivazione".

Il
motivo è infondato poichè la Corte d'appello ha negato la retribuzione
per lavoro straordinario, essendo risultato lo svolgimento di tante ore
di lavoro giornaliero quante previste come ordinarie dal contratto
collettivo.

Per il resto il motivo è inammissibile per genericità
ossia per inosservanza dell'art. 366 c.p.c., n. 3.

Rigettato il
ricorso, lo spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.
La Corte rigetta il
ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali
in Euro 20,00 oltre ad Euro duemila per onorario, nonchè spese generali
IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 4 ottobre 2007.

Depositato in
Cancelleria il 12 dicembre 2007


 

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