Cass. pen. Sez. IV, (ud. 08-10-2009) 04-12-2009, n. 46741
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
1. Il Tribunale di Ancona, sezione distaccata di Senigallia, ha affermato la responsabilità di M.G. in ordine al reato di lesioni personali commesse con violazione della normativa sulla circolazione stradale. La pronunzia è stata riformata dalla Corte d'appello che ha emesso pronunzia assolutoria perchè il fatto non costituisce reato.
Il fatto è stato ricostruito dai giudici di merito nei seguenti termini. L'imputato, alla guida di un'auto, percorreva una strada statale ed avviava manovra di svolta a sinistra per accedere ad un'area di servizio che si trovava sul lato opposto della carreggiata. Alcuni veicoli, ed in particolare un autoarticolato, che procedevano nell'opposto senso di marcia si erano fermati per favorire la manovra. In quel frangente sopravveniva, nel senso di marcia dell'autoarticolato, un ciclomotore guidato da V.M. T. che superava a destra i veicoli fermi: ne derivava l'urto tra l'auto ed il ciclomotore, a seguito del quale la V. riportava lesioni personali.
Il Tribunale ha affermato la responsabilità dell'imputato, ritenendo che questi potesse prevedere la manovra irregolare oltre che altamente imprudente della vittima. La Corte d'appello ha controvertito tale valutazione. Si è evidenziato che la manovra posta in essere dalla ciclomotorista, oltre ad essere altamente imprudente, è vietata dall'art. 148 C.d.S.. Invece, la manovra compiuta dall'imputato era del tutto regolare; nè vi sono elementi per ritenere che egli abbia agito in modo non appropriato o a velocità elevata. Anzi, la tesi difensiva di essersi mosso con molta cautela non ha trovato alcuna smentita dalle emergenze probatorie. E' ben vero che il conducente di un veicolo ha l'obbligo di fronteggiare anche le prevedibili irregolarità di comportamento altrui, ma "tale cautela non può spingersi sino ad imporre di prevedere comportamenti al di fuori di ogni ragionevole prevedibilità". Nel caso di specie, non solo la manovra della ciclomotorista era imprudente, ma l'imputato ha posto in essere tutte le possibili cautele dirette ad evitare eventuali imprudenze di altri utenti, muovendosi a bassa velocità e con cautela.
Ricorre per cassazione la parte civile deducendo vizio della motivazione. E' notorio, si afferma, che ciclisti e ciclomotoristi si muovono, nelle strade congestionate dei centri cittadini, sulla parte destra della carreggiata, anche perchè il sorpasso sulla sinistra sarebbe difficile e pericoloso. Nel caso di specie, inoltre, sulla parte estrema della carreggiata percorsa dalla V. vi era uno spazio libero di circa due metri che consentiva la manovra di sorpasso a destra che, come si desume dalle dichiarazioni della polizia giudiziaria, non può ritenersi eccezionale ed imprevedibile.
D'altra parte, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte, il veicolo superato dalla ricorrente non era fermo.
3. Il ricorso è infondato.
Il caso in esame propone una complessa questione teorica, ricca di implicazioni applicative. In breve, si tratta di stabilire se il principio di affidamento trovi applicazione nell'ambito dei reati colposi commessi a seguito di violazione di norme sulla circolazione stradale.
La giurisprudenza di questa Corte è prevalentemente, anche se solo implicitamente, orientata nel senso di escludere la rilevanza del principio nell'ambito della categoria di illeciti di cui si discute.
Tale punto di vista appare altamente problematico per diverse convergenti ragioni. Esso, infatti, trascura il dibattito sviluppatosi nella letteratura internazionale sul principio di affidamento che, curiosamente, ha trovato il primo e meno controverso riconoscimento proprio nell'ambito dei reati inerenti alla circolazione stradale. Ancora, l'approccio giurisprudenziale in tema di circolazione stradale si colloca in opposizione rispetto a quello maturato nell'ambito della responsabilità colposa nelle attività compiute in equipe: qui il principio di affidamento non solo è stato accolto, ma è stato modellato in modo da coglierne implicitamente il fondamento e da evidenziarne piuttosto nitidamente i limiti applicativi.
Questa situazione suggerisce qualche considerazione di carattere generale. In breve, il principio di affidamento costituisce applicazione del principio del rischio consentito: dover continuamente tener conto delle altrui possibili violazioni della diligenza imposta avrebbe come risultato di paralizzare ogni azione, i cui effetti dipendano anche dal comportamento altrui. Al contrario, l'affidamento è in linea con la diffusa divisione e specializzazione dei compiti ed assicura il migliore adempimento delle prestazioni a ciascuno richieste. Nell'ambito della circolazione stradale esso assicura la regolarità della circolazione, evitando l'effetto paralizzante di dover agire prospettandosi tutte le altrui possibili trascuratezze. Il principio, d'altra parte, si connette pure al carattere personale e rimproverabile della responsabilità colposa, circoscrivendo entro limiti plausibili ed umanamente esigibili l'obbligo di rapportarsi alle altrui condotte: esso è stato efficacemente definito come una vera e propria pietra angolare della tipicità colposa. Pacificamente, la possibilità di fare affidamento sull'altrui diligenza viene meno quando l'agente è gravato da un obbligo di controllo o sorveglianza nei confronti di terzi; o quando, in relazione a particolari contingenze concrete, sia possibile prevedere che altri non si atterrà alle regole cautelari che disciplinano la sua attività.
Come si è accennato, il principio trova puntuale applicazione nell'ambito della responsabilità in equipe. Esso può essere enucleato con chiarezza nell'ambito della giurisprudenza relativa a casi che vedono il coinvolgimento nell'attività di cura di medici portatori di diverse competenze specialistiche. Qui il principio di affidamento consente a ciascun professionista di concentrarsi sui compiti affidatigli, confidando legittimamente che gli altri specialisti si comportino in modo appropriato. Lo stesso principio consente di conferire all'obbligo di diligenza e perizia gravante su ciascun agente una dimensione "umana", concretamente esigibile, conforme al carattere personale della responsabilità penale; ed al contempo impronta a criteri di razionalità ed efficienza l'organizzazione di attività complesse, che recano una relazione intersoggettiva multispecialistica.
La giurisprudenza di legittimità non ha mai enfatizzato l'idea si separazione, di limitazione delle responsabilità sottesa al principio di affidamento. Essa ha piuttosto rimarcato che ciascun professionista, oltre ad agire con competenza e prudenza nell'ambito specificamente demandatogli, non può esimersi dal curare gli aspetti dell'atto medico che riguardano il comune coinvolgimento verso l'unico fine di cura del paziente. In conseguenza, ciascun medico non può isolarsi del tutto nel suo compito, ma deve altresì considerare e valutare l'attività dei colleghi. Tale ripetuta enunciazione, che sembra svilire il contenuto del principio di affidamento, viene subito però stemperata con l'affermazione, pure ricorrente, che tale obbligo di controllo di attività poste in essere da specialisti di altre discipline si configura solo in presenza di errori evidenti e non settoriali, come tali rilevabili ed emendabili con l'ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista ordinario (Cass. 4^, 24 gennaio 2005, Rv. 231535; Cass. 4^, 16 luglio 2006, Rv.
234971; Cass. 4^, 11 ottobre 2007, Rv. 237891). E' interessante notare, per i riflessi sul tema esaminato nell'ambito del presente giudizio, che in alcune pronunzie la Corte suprema ha più o meno esplicitamente evidenziato che il coinvolgimento di diverse figure nell'atto medico costituisce un fattore di razionalità e sicurezza, ma è anche possibile fonte di un rischio aggiuntivo, distinto da quello connesso all'attività medica monosoggettiva.
La conclusione che si può trarre da tale indirizzo giurisprudenziale è che il principio di affidamento viene riconosciuto; ma trova una precisa limitazione nei casi in cui siano presenti altrui errori evidenti e non specialistici, tali cioè da poter essere governati dalla competenza del professionista dotato delle comuni competenze.
Tale approccio non solo lascia trasparire con chiarezza, tra le pieghe dell'argomentazione, il principio di affidamento; ma ne evidenzia il concreto ruolo nella conformazione del dovere di riconoscere l'altrui errore nell'ambito della definizione dell'agente modello. Il principio di affidamento, dunque, opera qui già sul piano dell'imputazione oggettiva, quando contribuisce a definire sfere di competenza e di responsabilità. Naturalmente, non è qui utile approfondire il tema della responsabilità in equipe, che pure ha ben più complesse articolazioni che coinvolgono le relazioni gerarchiche tra i professionisti ed i livelli di complessità e specializzazione delle diverse categorie di atti terapeutici. Appare sufficiente aver annotato che il principio di affidamento non è formalmente evocato, forse per il timore che esso possa determinare cedimenti nel sistema di rigorosa repressione di condotte che risultino non all'altezza del dovere di strenua dedizione al servizio del paziente. Esso, tuttavia, traspare nei definiti termini che si sono enunciati.
Ben diversa è la situazione presente nell'ambito della giurisprudenza in tema di circolazione stradale. Qui la tendenza è quella di escludere o limitare al massimo la possibilità di fare affidamento sull'altrui correttezza. Si afferma, così, che poichè le norme sulla circolazione stradale impongono severi doveri di prudenza e diligenza proprio per fare fronte a situazioni di pericolo, anche quando siano determinate da altrui comportamenti irresponsabili, la fiducia di un conducente nel fatto che altri si attengano alle prescrizioni del legislatore, se mal riposta, costituisce di per sè condotta negligente. In conseguenza, è stata confermata l'affermazione di responsabilità in un caso in cui la ricorrente aveva dedotto che, giunta con l'auto in prossimità dell'incrocio a velocità moderata e, comunque, nei limiti della norma e della segnaletica, aveva confidato che l'autista del mezzo che sopraggiungeva arrestasse la sua corsa in ossequio all'obbligo di concedere la precedenza (Da ultimo Cass. 4^, 28 marzo 1996, Rv.
204451). Su tali basi si è affermato, ad esempio, che anche nelle ipotesi in cui il semaforo verde consente la marcia, l'automobilista deve accertarsi della eventuale presenza, anche colpevole, di pedoni che si attardino nell'attraversamento (Cass. 4^, 18 ottobre 2000, Rv.
218473); e che l'obbligo di calcolare le altrui condotte inappropriate deve giungere sino a prevedere che il veicolo che procede in senso contrario possa improvvisamente abbagliare, e che quindi occorre procedere alla strettissima destra in modo da essere in grado, se necessario, di fermarsi immediatamente (Cass. 4^, 19 giugno 1987, Rv. 176415).
In qualche caso a tale ampia configurazione della responsabilità è stato apposto il limite della imprevedibilità (Cass. 4^, 24 settembre 2008, Rv. 241476), che talvolta si richiede sia assoluta (Cass. 4^, 3 giugno 2008 Rv. 241004). L'obbligo di moderare adeguatamente la velocità in relazione alle caratteristiche del veicolo e alle condizioni ambientali deve essere inteso nel senso che il conducente deve essere non solo sempre in grado di padroneggiare assolutamente il veicolo in ogni evenienza, ma deve anche prevedere le eventuali imprudenze altrui e tale obbligo trova il suo limite naturale unicamente nella normale prevedibilità degli eventi, oltre il quale non è consentito parlare di colpa (Cass. 4^, 8 marzo 1983, Rv. 158790).
Si tratta allora di comprendere se l'atteggiamento rigorista abbia una giustificazione o debba essere invece temperato con l'introduzione, entro limiti ben definiti, del principio di affidamento.
Senza dubbio quello della circolazione stradale è un contesto meno definito di quello del lavoro in equipe. Si configura, infatti, un'impersonale, intensa interazione che mostra frequenti violazioni delle regole di prudenza. D'altra parte, il codice della strada presenta norme che sembrano estendere al massimo l'obbligo di attenzione e prudenza, sino a comprendere il dovere di prospettarsi le altrui condotte irregolari. Ad esempio, l'art. 141 impone di regolare la velocità in relazione a tutte le condizioni rilevanti, in modo che sia evitato ogni pericolo per la sicurezza; e di mantenere condizioni di controllo del veicolo idonee a fronteggiare ogni "ostacolo prevedibile". L'art. 145 pone la regola della "massima prudenza" nell'impegnare un incrocio. L'art. 191 prescrive la massima prudenza nei confronti dei pedoni, sia che si trovino sugli appositi attraversamenti, sia che abbiano comunque già iniziato l'attraversamento della carreggiata. Tali norme tratteggiano obblighi di vasta portata, che riguardano anche la gestione del rischio connesso alle altrui condotte imprudenti. D'altra parte, come si è accennato, le condotte imprudenti nell'ambito della circolazione stradale sono tanto frequenti che esse costituiscono un rischio tipico, prevedibile, da governare nei limiti del possibile.
Tali norme, tuttavia, non possono essere lette in modo tanto estremo da enucleare l'obbligo generale di prevedere e governare sempre e comunque il rischio da altrui attività illecita. Vi sono aspetti della circolazione stradale che per forza implicano un razionale affidamento: di fronte ad una strada il cui il senso di circolazione sia regolato non si può pretendere che l'automobilista si paralizzi nel timore che alcuno possa non attenersi a tale disciplina.
Insomma, un'istanza di sensatezza del sistema e di equità induce con immediatezza a cogliere che il principio di affidamento debba essere in qualche guisa riconosciuto nell'ambito della circolazione stradale. La soluzione contraria non solo sarebbe irrealistica, ma condurrebbe a risultati non conformi al principio di personalità della responsabilità, prescrivendo obblighi talvolta inesigibili e votando l'utente della strada al destino del colpevole per definizione o, se si vuole, del capro espiatorio.
Nè può esercitare un'influenza contraria (come sembra ritenere la ricorrente) il fatto che gli altrui comportamenti imprudenti siano tanto gravi quanto diffusi, come quello (rilevante nel caso in esame) di ciclomotoristi che sorpassano audacemente sulla destra veicoli fermi. Un tale approccio condurrebbe, addirittura, ad un effetto paradossale: quello di svuotare la forza cogente della disciplina positiva e di generare un patologico affidamento inverso da parte dell'agente indisciplinato sulla altrui attenzione anche nel prevedere le proprie audaci intemperanze comportamentali.
Per tentare di definire la concreta portata del principio nell'ambito della circolazione occorre considerare che i contesti fattuali possibili sono assolutamente indeterminati; e non è quindi realistico che l'affidamento concorra a definire i modelli di agenti, le sfere di rischio e di responsabilità in modo categoriale, come invece accade nel ben più definito contesto del lavoro in equipe e, entro confini peraltro assai limitati, nell'ambito della sicurezza del lavoro.
Tuttavia, le accennate esigenze della vita di relazione e di personalizzazione della responsabilità che fondano il principio concorrono comunque a modellare la colpa, orientano la misura ed i limiti del dovere normativo di prevedere, ridimensionano il pervasivo dovere di prevedere sempre e comunque le altrui condotte irregolari.
D'altra parte, pure sul versante più squisitamente soggettivo della colpa il principio ha un suo rilevante spazio di azione: essa impone di valutare se, nelle condizioni date, l'agente dovesse e potesse veramente, realisticamente prevedere; se gli si potesse chiedersi di concentrarsi sulla possibile violazione da parti di altri delle dovute regole di cautela.
Le esigenze di limitazione del dovere di prudenza sono scorte dalla giurisprudenza che, come si è visto, richiede che l'altrui irregolarità sia prevedibile: un limite che, naturalmente, assume diversa ampiezza in relazione alle diverse norme, più o meno rigide, più o meno rigorose, che possono entrare in questione. E' tuttavia importante che tale limite sia enunciato; che esso sia scorto, per così dire, come un attributo che modella la colpa; che soprattutto ne siano definiti i tratti essenziali: non una prevedibilità astratta che risulterebbe in fin dei conti insignificante, ma piuttosto concreta, rapportata alle circostanze del caso concreto.
Occorre, in breve, che le circostanze di ciascun accidente mostrino segni, indizi anche tenui che consentano di rendere concretamente non insignificante la probabilità di condotte inosservanti.
Del resto, la giurisprudenza di questa Corte ha in numerose occasioni sottolineato il ruolo fondante della prevedibilità ed evitabilità dell'evento. Anche nell'ambito della circolazione stradale che qui interessa, è stata ripetutamente affermata la necessità di tener conto degli elementi di spazio e di tempo, e di valutare se l'agente abbia avuto qualche possibilità di evitare il sinistro: la prevedibilità ed evitabilità vanno cioè valutate in concreto (Cass. 4^, 25 ottobre 1990, Rv. 185559; Cass. 4^, 9 maggio 1983, Rv.
159688; Cass. 5^, 2 febbraio 1978, Rv. 139204). Tali enunciazioni generali abbisognano di un ulteriore chiarimento, già del resto ripetutamente proposto di recente da questa Corte (Cass. 4^, 06 luglio 2007, Rv. 237050; Cass. 4^, 7 febbraio 2008, Rv. 239258):
l'esigenza della prevedibilità ed evitabilità in concreto dell'evento si pone in primo luogo e senza incertezze nella colpa generica, poichè in tale ambito la prevedibilità dell'evento ha un rilievo decisivo nella stessa individuazione della norma cautelare violata; ma anche nell'ambito della colpa specifica la prevedibilità vale non solo a definire in astratto la conformazione del rischio cautelato dalla norma, ma rileva pure in relazione al profilo squisitamente soggettivo, al rimprovero personale, imponendo un'indagine rapportata alle diverse classi di agenti modello ed a tutte le specifiche contingenze del caso concreto. Certamente tale spazio valutativo è pressochè nullo nell'ambito delle norme rigide la cui inosservanza da luogo quasi automaticamente alla colpa; ma nell'ambito di norme elastiche che indicano un comportamento determinabile in base a circostanze contingenti, vi è spazio per il cauto apprezzamento in ordine alla concreta prevedibilità ed evitabilità dell'esito antigiuridico da parte dell'agente modello.
Non può essere escluso del tutto che contingenze particolari possano rendere la condotta inosservante non soggettivamente rimproverabile a causa, ad esempio, della imprevedibilità della condotta di guida dell'altro soggetto coinvolto nel sinistro. Tuttavia, tale ponderazione non può essere meramente ipotetica, congetturale, ma deve di necessità fondarsi su emergenze concrete e risolutive, onde evitare che l'apprezzamento in ordine alla colpa sia tutto affidato all'imponderabile soggettivismo del giudice.
L'esigenza di una indagine concreta, si è pure affermato dalla giurisprudenza da ultimo indicata, non viene meno neppure quando, come nella circolazione stradale, la condotta inosservante di altri soggetti non costituisce in sè una contingenza imprevedibile. Si è chiarito che lo spazio per l'apprezzamento che giunga a ritenere imprevedibile la condotta di guida inosservante dell'altro conducente è ristretto e va percorso con particolare cautela. Ciò nonostante, l'esigenza di preservare la già evocata dimensione soggettiva della colpa (id est la concreta rimproverabilità della condotta) ha condotto questa Corte ad enunciare che, come si è prima esposto, le particolarità del caso concreto possono dar corpo ad una condotta realmente imprevedibile.
A tali principi si ispira la sentenza impugnata quando, nell'esaminare il caso, evoca la ragionevole prevedibilità e la rapporta, con implicita evidenza, alle particolarità del caso concreto. L'imputato aveva avviato lentamente la manovra di svolta per accedere all'area di servizio, dopo che il traffico veicolare nell'opposto senso di marcia si era bloccato: l'accertamento in fatto compiuto dal giudice di merito non può essere qui posto in discussione (a la situazione non muterebbe comunque ove l'autoarticolato avesse rallentato al massimo per agevolare la manovra). Egli, quindi, agiva con la doverosa cautela. La ciclomotorista, al contrario, non solo sorpassava scorrettamente sulla destra la colonna ferma, ma ometteva di fermarsi o rallentare, conformandosi alla condotta degli altri utenti, in un contesto (l'impianto di distribuzione di carburanti) in cui tutto lasciava presagire una manovra del tipo di quella posta in essere dall'imputato, propiziata dalla fermata dell'autoarticolato. In tale situazione di fatto appare adeguatamente supportato il giudizio di "ragionevole imprevedibilità" della condotta di guida della vittima.
Il ricorso deve essere conseguentemente rigettato. Segue per legge la condanna al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 8 ottobre 2009.
Depositato in Cancelleria il 4 dicembre 2009
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