Nuova pagina 1
(Sezione lavoro, sentenza n. 8919/09; depositata il 15 aprile) |
PREVIDENZA SOCIALE
Cass. civ. Sez. lavoro, 15-04-2009, n. 8919
Cass. civ. Sez. lavoro, 15-04-2009, n. 8919
Svolgimento del processo
Con
ricorso al Tribunale d'Isernia, in funzione di giudice del lavoro,
D.L.R. lamentava che, collocata in cassa integrazione guadagni
straordinaria in vari periodi sino al (OMISSIS), aveva ricevuto la
relativa indennità in misura inferiore al dovuto, poichè l'Inps aveva
ritenuto che il "tetto" introdotto dalla L. 13 agosto 1980, n. 427
fosse riferito ai mesi di calendario e non anche alle singole mensilità
retributive, compresa la tredicesima, e pertanto chiedeva la condanna
dell'Istituto al pagamento della indennità sulle tredicesime mensilità
relative ai rispettivi periodi di cassa integrazione. La domanda era
accolta con sentenza che, a seguito di appello dell'Inps, era confermata
dalla Corte d'appello di Campobasso.
L'Inps propone ricorso per cassazione. La lavoratrice intimata non si è costituita.
Motivi della decisione
1. Con l'unico motivo l'Inps denuncia violazione del D.Lgs. n. 788 del 1945, art. 1, u.c., del D.L. n. 269 del 2003 e della L. n. 427 del 1980,
art. unico. Sostiene che, a seguito dell'introduzione del massimale
mensile ai fini delle calcolo delle quote di integrazione salariale, è
diventato necessario tenere conto della retribuzione globale,
comprensiva delle mensilità aggiuntive e della stessa tredicesima, per
il calcolo delle somme dovute a titolo di integrazione salariale, ai
fini della verifica del rispetto del massimale mensile, con la
conseguenza che la tredicesima è computabile solo in tale sede, e in
concreto non rileva se il massimale è raggiunto per effetto del computo
della retribuzione base. Si richiama ai fini interpretativi il testo
della L. n. 427 del 1980, articolo unico nel testo D.L. n. 299 del 1994, ex art. 1, comma 5, come modificato dalla Legge di conversione n. 451 del 1994,
il quale prescrive di computare i ratei delle mensilità aggiuntive
esclusivamente ai fini del computo della retribuzione di riferimento da
comparare al previsto massimale mensile e della conseguente scelta del
maggiore dei due importi. Si richiama infine anche la norma di
interpretazione autentica di cui al D.L. n. 269 del 2003, art. 44, comma 6, convertito con modificazioni dalla L. n. 326 del 2003. 2. In materia di misura dell'indennità di integrazione salariale già la prima fonte normativa dell'istituto, e cioè il D.Lgs.Lgt. n. 788 del 1945,
ha previsto all'art. 1, comma 1, che essa fosse ragguagliata a una
certa percentuale della "retribuzione globale che sarebbe spettata per
le ore non prestate", e successive disposizioni (art. 5) contenevano
previsioni finalizzate alla concreta applicazione di tale regola. Il
riferimento alla retribuzione globale è contenuto anche nella normativa
sulla cassa integrazione straordinaria (L. n. 1115 del 1968, art. 2; nello stesso senso L. n. 164 del 1975, art. 2).
Una norma introduttiva di un limite massimo in cifra fissa dell'importo
dell'integrazione salariale erogabile è contenuta già nel D.L. n. 624 del 1979, art. 13 che non fu convertito in legge, ma i cui effetti, in caso di provvedimenti già adottati, furono confermati dalla lege n. 33 del 1980, art. 4. E' poi intervenuto la L. n. 427 del 1980,
articolo unico che si riferisce sia agli operai che agli impiegati e
che, precisata per questi ultimi la misura dell'integrazione nell'80 per
cento "della retribuzione che sarebbe spettata per le ore di lavoro non
prestate" (comma 1), nel comma 2, pur ribadendo che l'importo doveva
essere calcolato "tenendo conto dell'orario di ciascuna settimana
indipendentemente dal periodo di paga", stabiliva che l'importo stesso
non poteva superare l'ammontare mensile di L. 600.000, da rapportare
alle ore di integrazione autorizzate (comma 2, il quale prevedeva anche
criteri per l'aggiornamento del limite massimo in relazione agli aumenti
dell'indennità di contingenza).
Il testo della L. 13 agosto 1980, n. 427, richiamato articolo unico è stato successivamente sostituito dal D.L. 16 maggio 1994, n. 299, art. 1 convertito con modificazioni dalla L. 19 luglio 1994, n. 451.
La
nuova disposizione, nel modificare (nel comma 2) l'importo
dell'integrazione massima fissata su base mensile e nell'aggiornare le
modalità della sua rivalutazione (a seguito della soppressione
dell'indennità di contingenza), ha in particolare previsto due diversi
limiti massimi, di cui il secondo, superiore, applicabile ai lavoratori
la cui retribuzione di riferimento per il calcolo dell'integrazione
salariale sia superiore a un certo importo. Ai fini della questione in
esame, interessa che la disposizione sia formulata nei seguenti termini
testuali: "quando la retribuzione di riferimento per il calcolo
dell'integrazione medesima, comprensiva dei ratei di mensilità
aggiuntive, è superiore a L. (...)".
Infine il D.L. n. 269 del 2003, art. 44, comma 6, nel testo di cui alla Legge di conversione n. 326 del 2003, contiene la disposizione secondo cui la L. n. 427 del 1980,
articolo unico, comma 2, e successive modificazioni "si interpreta nel
senso che, nel corso di un anno solare, il trattamento di integrazione
salariale compete, nei limiti dei massimali ivi previsti, per un massimo
di dodici mensilità, comprensive dei ratei di mensilità aggiuntive". 3.
Questa Corte con la sentenza n. 7870/2004 ha rilevato che la
disposizione appena citata ha la funzione di precisare, con gli effetti
anche retroattivi delle norme di interpretazione autentica, che i ratei
delle mensilità aggiuntive e in particolare della tredicesima devono
essere computati nella retribuzione di riferimento per il computo della
integrazione salariale e nei limiti del massimale mensile. In altri
termini ha ritenuto che la norma di interpretazione avvalorasse
l'interpretazione secondo cui la concreta incidenza nella determinazione
della integrazione salariale della tredicesima mensilità può essere (in
tutto in parte) preclusa dal raggiungimento del massimale mensile di
legge per effetto delle altre voci della retribuzione.
4.
Questa Corte prescinde dal precedente citato, poichè la Corte
costituzionale ha successivamente adottato un orientamento innovativo
circa la possibile incidenza nell'ordinamento delle norme della
Convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU) e alla luce di tale
orientamento si possono prospettare seri dubbi di costituzionalità in
merito all'efficacia delle norme di interpretazione autentica sui
processi già in corso.
In effetti la Corte
costituzionale, con le sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, ha affermato
che le norme della CEDU, così come interpretate dalla relativa Corte con
sede in Strasburgo, assumono il valore di fonti integratrici del
parametro di costituzionalità di cui all'art. 117 Cost., comma
1, che, nel testo attuale, prevede che la potestà legislativa sia
esercitata (sia dallo Stato che dalle Regioni) nel rispetto anche dei
vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi
internazionali. D'altra parte, dalla giurisprudenza della Corte di
Strasburgo si evince un orientamento secondo cui in linea di massima il
principio di preminenza del diritto e la nozione di giusto processo
consacrati dall'art. 6 della Convenzione non consentono l'emanazione
nella materia civile di norme con effetti retroattivi, tra cui quelle di
interpretazione autentica, incidenti sui processi già in corso.
Risulta
quindi necessario, al fine di vagliare l'effettiva rilevanza nel
presente giudizio della questione di costituzionalità relativa al D.L. n. 269 del 2003, art. 44, comma 6, nel testo di cui alla Legge di conversione n. 326 del 2003,
esaminare puntualmente quale sarebbe l'incidenza sulla definizione del
medesimo giudizio di un'eventuale dichiarazione di illegittimità
costituzionale della norma di interpretazione in questione. A tal fine è
necessario individuare, con un compiuto esame del quadro normativo su
cui è intervenuta la disposizione di interpretazione autentica, come lo
stesso dovrebbe essere interpretato ai fini della decisione della causa
in assenza della disposizione di interpretazione autentica (cfr. Cass.,
Sez. un., n. 25505/2006, paragr. 2.4. della motivazione, che ha ritenuto
priva di rilevanza la questione di legittimità costituzionale,
prospettata sotto il profilo del possibile contrasto con il parametro
costituzionale di cui all'art. 111 Cost., di una norma di
interpretazione autentica in materia fiscale, emanata con un Decreto
Legge convertito con legge approvata con voto di fiducia, visto che il
collegio avrebbe recepito la soluzione adottata dalla norma di
interpretazione autentica anche in mancanza della stessa;
cfr. anche Cass. n. 21692/2008).
5.
Procedendo a tale approfondimento interpretativo, è opportuno rilevare
che la fattispecie è regolata, ratione temporis, in parte dal testo
originario della L. n. 427 del 1980, articolo unico e in parte dal testo così come modificato dal D.L. 16 maggio 1994, n. 299, art. 1 convertito con modificazioni dalla L. 19 luglio 1994, n. 451.
Ad
avviso della Corte, la soluzione da dare alla questione interpretativa
in esame è desumibile in maniera chiara dagli elementi testuali e
sistematici della normativa applicabile.
Si è
già visto come le disposizioni in materia di integrazione salariale
hanno sempre fatto riferimento ad una nozione omnicomprensiva della
retribuzione, in maniera coerente con i principi generalmente
applicabili in materia di base di calcolo retributiva delle prestazioni
previdenziali, principi i quali devono assicurare che non si verifichino
discriminazioni tra lavoratori appartenenti a settori produttivi
diversi, caratterizzati da articolazioni eterogenee delle componenti
retributive.
Inoltre, con riferimento a una disposizione, come quella della L. n. 427 del 1980,
articolo unico che ha introdotto un limite massimo mensile dell'importo
dell'integrazione salariale, non vi può essere alcun dubbio che anche
le mensilità aggiuntive debbano concorrere alla determinazione della
retribuzione oraria costituente base di calcolo dell'integrazione
salariale, ai fini del rispetto dei massimali mensili. Ciò perchè, in
difetto di una diversa espressa previsione, fissato dalla legge un
massimale mensile, deve escludersi la facoltà dell'Inps di corrispondere
separatamente l'incidenza sulla integrazione salariale di componenti
della retribuzione aventi cadenza di maturazione eccedente il mese di
calendario, come le mensilità aggiuntive. Ed è del tutto logico che una
prestazione previdenziale corrisposta al fine di compensare il
pregiudizio retributivo causato al lavoratore dipendente da sospensioni
temporanee del rapporto di lavoro si riferisca unitariamente e
definitivamente a tutto il pregiudizio inerente al periodo di
riferimento, mentre sarebbe illogico, oltre che privo del necessario
fondamento normativo, che l'Inps debba corrispondere dei supplementi in
riferimento a particolari componenti retributive previste dalle varie
discipline legali o contrattuali e alle relative scadenze.
Coerentemente
con tali necessarie conclusioni, in sede di modifica del testo
dell'articolo unico citato, comma 2, essendosi indicato un massimale
differenziato per l'ipotesi di retribuzione superiore a un certo
importo, si è precisato che la retribuzione di riferimento per il
calcolo dell'integrazione è comprensiva dei ratei delle mensilità
aggiuntive.
Quanto alla giurisprudenza di
questa Corte, deve rilevarsi che la sentenza n. 6665/2000 non prende
specificamente in esame il problema del rapporto tra incidenza della
tredicesima, mensilità e massimale mensile di legge dell'integrazione
salariale, ma indirettamente avvalora le tesi interpretativa appena
illustrata, in quanto sancisce che l'incidenza di tale mensilità
aggiuntiva deve essere computata nel determinare la retribuzione oraria
da prendere a base di calcolo dell'indennità. 6. E' opportuno infine
rilevare che è coerente con il risultato interpretativo a cui si è
pervenuti l'impostazione delle problematiche applicative formulata
dall'Inps nei termini secondo cui, in tanto gli assicurati possono
fondatamente lamentare il mancato computo della tredicesima, in quanto
il massimale mensile non sia già stato raggiunto con il computo delle
altre componenti della retribuzione.
7,
Passando allo specifico esame del ricorso, deve rilevarsi che la
sentenza impugnata non evidenzia una chiara comprensione dei termini
della problematica. Infatti, mentre dallo stesso tenore della domanda,
come riferita, sembra che la pretesa riguardasse un computo della
tredicesima al di fuori dei massimali mensili di cui ai "mesi di
calendario", la motivazione, nell'asserire il rispetto dei criteri
legali da parte del giudice di primo grado, fa un generico riferimento
alla regola della computabilità della tredicesima e a quella sui
massimali mensili, di cui non chiarisce la portata, anche perchè mancano
i conseguenti accertamenti di fatto.
Il
ricorso deve quindi essere accolto, con cassazione della sentenza
impugnata e rinvio della causa ad altro giudice che si atterrà al
seguente principio di diritto: "Con riferimento alla disciplina di cui
alla L. 13 agosto 1980, n. 427, articolo unico sia nel suo testo originario che in quello parzialmente modificato dal D.L. 16 maggio 1994, n. 299, art. 1 convertito con modificazioni dalla L. 19 luglio 1994, n. 451,
le mensilità aggiuntive e in particolare la tredicesima mensilità sono
computabili nella retribuzione costituente base di calcolo degli importi
della integrazione salariale, nell'ambito dei limiti massimi
dell'importo mensile della integrazione fissati dal citato articolo
unico e successive modificazioni, ed è conseguentemente esclusa una
diversa e ulteriore incidenza delle mensilità aggiuntive sul trattamento
di integrazione salariale. Ne consegue l'irrilevanza della questione di
costituzionalità in riferimento all'art. 117 Cost., comma 1 e
all'art. 6, paragr. 1, della Convenzione europea dei diritti dell'uomo,
della norma di interpretazione autentica di cui al D.L. n. 269 del 2003, art. 44, comma 6, nel testo di cui alla Legge di conversione n. 326 del 2003".
Conseguentemente il giudice di rinvio non potrà valutare positivamente
la domanda qualora la assicurata abbia già percepito il trattamento di
integrazione salariale nella misura massima di legge in rapporto alle
ore autorizzate. Al giudice di rinvio si demanda anche la regolazione
delle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La
Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla
Corte d'appello di Salerno anche per le spese del giudizio di
cassazione.
Così deciso in Roma, il 15 gennaio 2009.
Depositato in Cancelleria il 15 aprile 2009
Nessun commento:
Posta un commento