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LAVORO (RAPPORTO) - RESPONSABILITA' CIVILE
Cass. civ. Sez. lavoro, 20-03-2009, n. 6907
Cass. civ. Sez. lavoro, 20-03-2009, n. 6907
Svolgimento del processo
La
signora D.A., ha convenuto in giudizio la società IVM s.r.l., della
quale era stata dipendente in qualità di impiegata, impugnando una serie
di provvedimenti disciplinari, e, soprattutto, il licenziamento che le
era stato intimato.
La lavoratrice esponeva,
in particolare: di essere stata assunta dal (OMISSIS) ed addetta ad una
serie di mansioni varie come la reception, il centralino, la gestione
dei cartellini, l'elaborazione delle agende; di non avere provvedimenti
disciplinari fino al (OMISSIS); che appunto all'inizio del (OMISSIS) la
responsabile della sua attività le aveva consigliato di trovarsi un
nuovo lavoro in un'altra azienda, perchè la società non era più
soddisfatta delle sue prestazioni;
che nei
mesi dall'(OMISSIS) all'(OMISSIS) era stata sottoposta a sette
provvedimenti disciplinari di cui sei per un giorno di sospensione
ciascuno ed uno per una multa di tre ore, per addebiti che secondo
l'interessata erano insussistenti, oppure tardivi, oppure ancora privi
di rilevanza disciplinare; di essere stata licenziata il (OMISSIS)
sempre per fatti a suo parere non sussistenti.
Sosteneva
che si era trattato di un episodio di mobbing. Chiedeva perciò che una
serie di sanzioni disciplinari, così come lo stesso licenziamento,
fossero dichiarati, nulli, illegittimi ed inefficaci, che la convenuta
fosse condannata a riassumere la dipendente, oppure a risarcirle il
danno nella misura di legge, e, inoltre, che il giudice accertasse il
carattere di mobbing e perciò l'illegittimità dei comportamenti posti in
essere dalla IVM dal (OMISSIS) al (OMISSIS), accertando anche che
avevano provocato alla ricorrente un danno biologico, con condanna della
società al relativo risarcimento.
Costituitosi
il contraddittorio ed istruita la controversia il giudice di primo
grado accoglieva la domanda, sia pure riconoscendo il danni da mobbing
soltanto nella somma di Euro 9.500,00, sensibilmente inferiore a quelle
richieste.
Questa pronunzia veniva
integralmente confermata dalla Corte d'Appello di Milano con sentenza n.
177, in data 12 gennaio - 4 aprile 2005, che respingeva l'impugnazione
della società.
La Corte d'Appello confermava
la sentenza di primo grado anche nella motivazione, e riteneva, in
sintesi: che due delle sanzioni disciplinari, impugnate dinanzi al
collegio arbitrale, fossero già state derubricate in semplici multe con
accettazione delle parti, e che anche la loro rilevanza ai fini della
recidiva andasse ridotta in relazione alla minor entità della sanzione;
che un'altra sanzione fosse tardiva;
che
le altre sanzioni fossero illegittime, per irrilevanza e/o
insussistenza degli addebiti contestati, o per la sproporzione di essi;
che
effettivamente il clima aziendale nei confronti della signora D. fosse
pesante, dato che i rimproveri orali da parte dei superiori venivano
effettuati adottando toni pesanti ed in modo tale che potesse essere
uditi dagli altri colleghi di lavoro;
che
sussistesse una sproporzione evidente tra il provvedimento di
licenziamento ed i tre lievi addebiti riportati nella relativa
contestazione, e che non si poteva tener conto, ai fini della recidiva,
delle sanzioni disciplinari irrogate in precedenza proprio perchè nulle
e/o illegittime;
che, tenuto conto anche dei
richiami e dei rimproveri continui delta sua dirigente nei confronti
della lavoratrice, si fosse verificata effettivamente un episodio di
mobbing;
che, come era risultato dalla
consulenza medica, effettivamente questo mobbing avesse avuto
ripercussioni nelle condizioni delle signora D. e comportato un danno
biologico, sia pure modesto, da quantificare nella misura percentuale
del 6%.
Avverso la sentenza di appello, che
non risulta notificata, la società IVM s.r.l. proponeva ricorso per
cassazione, articolati su quattro motivi di impugnazione, notificato, in
termini, il 30 marzo 2006.
Resisteva l'intimata signora D.A. resisteva con controricorso notificato, in termine, il 9 maggio 2006.
Motivi della decisione
1.
Nel primo motivo, relativo ad alcuni dei provvedimenti disciplinari in
contestazione, la società denunzia l'errore di diritto in relazione agli
artt. 2104, 2105 e 2106 c.c., e art. 1453 c.c. e
segg., nonchè l'omessa e comunque insufficiente motivazione su un punto
decisivo della controversia Sostiene, in particolare, che la signora D.
non aveva eseguito con diligenza le prestazioni che le erano affidate,
con conseguente violazione delle disposizioni degli artt. 2104 e 2105 c.c., e che, ai sensi dell'art. 2106 c.c., queste violazioni potevano dare luogo all'applicazione di provvedimenti disciplinari.
Nega
che gli inadempimenti della dipendenti fossero lievi, o di scarsa
importanza, e che vi fosse una sproporzione tra gli addebiti ed i
provvedimenti.
Nega ancora che l'interessata fosse oberata da una mole eccessiva di lavoro.
Sottolinea
anche le mancanze e gli errori cui si riferivano le sanzioni che erano
state derubricate in sede conciliativa rimanevano comunque tali, e che
tutte le mancanze e gli errori comportavano inadempimenti contrattuali.
2.
Nel secondo motivo di impugnazione, relativo al licenziamento, la
ricorrente denunzia l'errore di diritto per travisamento dei fatti, e
l'omessa o comunque insufficiente motivazione su un punto decisivo della
controversia.
Sottolinea l'importanza delle
tre mancanze poste a base del recesso (per l'esattezza, l'errata
compilazione del prospetto trimestrale delle presenze e delle assenze di
un dipendente, l'errato aggiornamento dell'agenda aziendale, l'errata
distribuzione della posta) e ribadisce che potevano essere poste alla
base del recesso.
Allo stesso modo
sussistevano effettivamente gli addebiti cui si riferivano i precedenti
provvedimenti disciplinari, e la ricorrente ne sottolinea la rilevanza,
perchè confermavano la negligenza e lo scarso impegno della lavoratrice.
In
ogni caso il licenziamento, anche se, in ipotesi, non fosse stato
giustificato per giusta causa, avrebbe potuto esserlo per giustificato
motivo soggettivo.
3. Nel terzo motivo di
impugnazione, dedicato al mobbing, la ricorrente denunzia il
travisamento dei fatti e l'omessa e comunque insufficiente e
contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia.
Nega
ancora una volta che i provvedimenti disciplinari irrogati fossero
illegittimi, e che sussistessero le vessazioni e le aggressioni verbali
lamentate dalla lavoratrice, che quest'ultima fosse stata sottoposta a
controlli esasperati.
4. Con il quarto ed
ultimo motivo, relativo specificamente al danno da mobbing, alla
consulenza tecnica di ufficio e al danno biologico, la società IVM
denunzia l'insufficiente e contraddittoria motivazione su di un punto
decisivo della controversia.
Secondo la
ricorrente la consulenza di ufficio avrebbe accertato che nella signora
D. non vi era stata e non vi era alcuna malattia in atto, ma soltanto
disturbi dell'adattamento, che erano temporanei e transeunti.
La
ricorrente contesta le conclusioni del consulente d'ufficio, e lamenta
che la sentenza di primo grado non aveva tenuto conto delle note
critiche del proprio consulente di parte.
Nega
si fosse verificata l'invalidità temporanea liquidata dal consulente di
ufficio, come pure la sussistenza di un danno esistenziale.
5.
Il ricorso non è fondato e non può trovare accoglimento. Nella gran
parte i motivi di impugnazione sono sostanzialmente inammissibili,
perchè si limitano, in realtà, a riproporre questioni di mero fatto,
relative alla valutazione del comportamento della signora D. nel
svolgimento della propria attività di lavoro, ma queste valutazioni,
proprio perchè tali non possono essere oggetto di un ulteriore riesame
in questa sede di legittimità.
Vale la pena di
sottolineare in proposito che i fatti in se stessi appaiono chiari, e
sostanzialmente - almeno nelle loro linee generali - non contestati
dalle parti.
L'oggetto della discussione,
invece, è costituito appunto dalla vantazione e dall'interpretazione di
questi fatti, mentre non sussistono i vari profili denunziati di difetto
di motivazione: in realtà la motivazione esposta dalla sentenza della
Corte d'Appello di Milano, nei suoi vari aspetti, chiarisce in maniera
ampia, precisa, puntuale, e del tutto logica e convincente, le ragioni
per le quali ha compiuto quelle valutazioni ed è giunta a quella
decisione, nè le sue valutazioni appaiono scalfite dalle argomentazioni
della società ricorrente.
Queste
considerazioni appaiono adeguate e sufficienti a dimostrare
l'inammissibilità di una parte delle argomentazioni contenute nel primo
motivo del ricorso, quelle sul fatto che l'interessata non sarebbe stata
oberata da una mole eccessiva di lavoro (mole che, peraltro, - dato che
quelle affidate alla resistente erano per lo più attività non
suscettibili di rinvio - dovrebbe eventualmente essere valutata non in
via generale, ma con riferimento alle specifiche evenienze occorse nelle
singole giornate cui riferivano gli addebiti), e quella che sussistesse
una sproporzione tra gli addebiti e per intero le argomentazioni
contenute negli altri motivi di impugnazione, il secondo, il terzo ed il
quarto.
Con particolare riferimento al
secondo motivo rimane da osservare, per completezza, che è
inevitabilmente diverso il livello della diligenza ritenuta necessaria
da un datore di lavoro (creditore della prestazione), e perciò delle
mancanze che possono giustificare dei provvedimenti punitivi, ed il
livello invece ritenuto necessario dal prestatore (debitore della
prestazione).
Una valutare oggettiva non può
che essere lasciata necessariamente ad un terzo, in concreto il giudice
del merito; in sostanza la società pretende invece, inammissibilmente,
di sovrapporre la propria valutazione, inevitabilmente soggettiva a
quella della Corte d'Appello: questo vale, ad esempio, la dove riafferma
che la resistente non sarebbe stata oberata da una mole eccessiva di
lavoro, ma anche, soprattutto, quando i provvedimenti adottati fossero
sproporzionati rispetto all'effettiva entità dei fatti contestati.
Considerazioni
analoghe valgono per la valutazione dell'esistenza di un fenomeno di
mobbing, di cui al terzo motivo di ricorso, e per quella delle
conseguenze psicofisiche e del danno che ne è derivato, che sono
oggetto, invece, del quarto motivo.
6. Va
esaminato separatamente, per completezza, il primo argomento contenuto
del primo motivo, quello sulla legittimità delle sanzioni.
La
società ricorrente sostiene che sussistevano i presupposti legali per
l'applicazione dei provvedimenti disciplinari contestati e contesta in
particolare che vi fosse una sproporzione tra gli addebiti ed i
provvedimenti adottati.
La prima osservazione da un lato è inammissibile e dall'altro è inconferente.
Come
risulta dalla lettura dello stesso ricorso (che, per la verità, è assai
chiaro e dettagliato) la maggior parte gli addebiti contestati
concerneva ipotesi di svolgimento delle proprie mansioni con
insufficiente diligenza, che investono - piuttosto che fatti
disciplinari in senso proprio, che presuppongono un comportamento in
qualche misura volontario - semplici difficoltà operative, una minore
capacità di esecuzione delle mansioni stesse.
Se
si tolgono i semplici fatti di mancanza di diligenza, tra quanto
prospettato a giustificazione degli addebiti rimane, per la verità,
soltanto una quota modesta di fatti che possono essere considerati
volontari (l'utilizzazione non autorizzata del fax aziendale per la
trasmissione di corrispondenza propria, le accuse ai superiori di
manomissione del proprio cartellino presenze).
La ricorrente ricorda che l'art. 2106 c.c., sulle sanzioni disciplinari, rimanda ai due articoli precedenti, e che l'art. 2104 c.c., prescrive l'obbligo del lavoratore di eseguire le proprie mansioni con la necessaria diligenza.
Per la verità il richiamo generico contenuto nell'art. 2106 c.c., sulla possibilità di irrogare sanzioni disciplinari sembra riferirsi a fatti di inadempimento volontario previsti nell'art. 2105 c.c., e nell'art. 2104 c.c., comma 2, piuttosto che alla semplice, e generica, carenza di diligenza contemplata nel comma 1.
In
una organizzazione negoziale basata sulla contrattazione collettiva,
l'individuazione degli indebiti che possono essere oggetto di sanzione è
demandata appunto alla contrattazione collettiva.
La
ricorrente non precisa dove il contratto collettivo di settore preveda
la possibilità di applicare sanzioni disciplinari per i diversi fatti
contestati, mentre la valutazione della loro gravità in concreto riporta
ancora una volta ad una analisi di fatto e perciò ad un ambito non più
suscettibile di riesame in questa sede.
7. Ma, anche astraendo da questo, in ogni caso la censura è inconferente.
Anche
ammettendo, in via di ipotesi non concessa, che in quelle circostanze
sussistesse, sotto il profilo strettamente formale, la possibilità di
irrogare dei provvedimenti disciplinari, quelle specifiche sanzioni
adottate in concreto sono stati annullate in giudizio (così come lo è
stato il licenziamento che ne era stato il completamento), perchè -
secondo la tesi accolta dai giudici di primo e di secondo grado - erano
state irrogate all'interno di un comportamento complessivo di mobbing,
anche quando altrimenti non lo sarebbero state se non fosse sussistita
una specifica volontà di colpire la D., per indurla alle dimissioni, e/o
per precostituire una base per disporre il suo licenziamento (come poi
effettivamente è avvenuto).
La sentenza
impugnata, in realtà, non si basa tanto sulla motivazione che le
sanzioni fossero illegittime (o che lo fossero una parte di esse),
quanto su quella che fossero eccessive e che, in realtà, fossero state
irrogate per ragioni strumentali ed in maniera sostanzialmente
pretestuosa, amplificando l'importanza attribuita a fatti di modesta
rilevanza, in sostanza che i provvedimenti non sarebbero stati adottati,
e non sarebbero stati adottati tutti ed in un così breve periodo di
tempo, se non fosse sussistita una precisa volontà di colpire la
lavoratrice. Le stesse considerazioni valgono, del resto, per il
licenziamento che si è basato anche sulle precedenti sanzioni, e che -
sempre secondo la ricostruzione dei giudici di merito - ha concluso
l'operazione di mobbing. 8. Concludendo, dunque, il ricorso non è
fondato e non può trovare accoglimento.
Le spese seguono la soccombenza, e vengono liquidate nella misura riportata nel dispositivo.
P.Q.M.
La
Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese che
liquida in Euro 29,00, oltre ad Euro 3.000,00 (tremila/00) per onorari,
oltre a spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 21 gennaio
2009.
Depositato in Cancelleria il 20 marzo 2009
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