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lunedì 30 marzo 2015

Cassazione: capo non può trattare male dipendente polemico



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La Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione (Sent. n. 15752/2009) ha stabilito che non è lecito ‘trattare male’ il dipendente che è solito polemizzare su tutto e, il datore di lavoro che...


INGIURIA E DIFFAMAZIONE
Cass. pen. Sez. V, (ud. 24-03-2009) 15-04-2009, n. 15752

Fatto Diritto P.Q.M.

Svolgimento del processo


- Che con l'impugnata sentenza, in riforma di quella di condanna pronunciata dal tribunale di Trani il 16 maggio 2007, P.M. L. fu assolta con la formula "il fatto non costituisce reato" dall'addebito di diffamazione in danno di D.M.G., che le era stato contestato per avere, nella qualità di capo del Servizio Igiene Alimenti e Nutrizione (SIAN) del comune di (OMISSIS), inviato, il (OMISSIS), al D.M., dirigente medico di detto servizio, e ad altri soggetti, una nota nella quale, con riferimento ad una precedente richiesta di chiarimenti avanzata in data 30 ottobre 2001 dallo stesso D. M. relativamente a vere o presunte inosservanze a lui addebitate di procedure amministrative nell'ambito dell'attività d'istituto, si affermava, tra l'altro, che: "l'insistenza con cui la S.V. chiede precisazioni e linee operative su argomenti che sono già stato oggetto di comunicazioni da parte degli scriventi, e che non appaiono poi così difficili a capirsi, lascia spazio a valutazioni poco lusinghiere sulla Sua idoneità a ricoprire il ruolo affidatole.
Così come non appare per nulla consono, tanto al Suo ruolo quanto a quello dei destinatari della Sua nota, il tono perentorio e ultimativo colà utilizzato";
- che avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione la costituita parte civile D.M.G., denunciando:
1) inosservanza ed erronea applicazione dell'art. 603 c.p.p., in relazione all'art. 191 c.p.p., per avere la Corte d'appello indebitamente acquisito, per quindi attribuirgli altrettanto indebita rilevanza ai fini del decidere, un documento costituito da una protesta scritta inviata il (OMISSIS) da un'organizzazione sindacale al direttore generale della ASL per i comportamenti del D. M.; documento di data precedente a quella della sentenza di primo grado e comunque - si sostiene - privo di alcun rapporto con i fatti di cui è causa;
2) errata applicazione ed interpretazione dell'art. 595 c.p., per avere la Corte d'appello ritenuto giustificate le espressioni contenute nella nota del 9 novembre 2001 sulla sola base della ritenuta addebitabilità al D.M. dei rapporti conflittuali che si erano creati tra lui e la dott.ssa P.;
3) violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), in relazione all'art. 192 c.p.p., comma 1, e art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e), per non avere il giudice d'appello, nel discostarsi radicalmente dalla decisione assunta da quello di primo grado, adempiuto all'onere di prendere in esame, confutandoli, i passaggi argomentativi posti a base di detta decisione, per fondarsi, invece, sull'indebito e apodittico rilievo, funzionale al ritenuto carattere provocatorio della missiva del D.M. cui la P. aveva risposto con quella del (OMISSIS), secondo cui tutto sarebbe nato dal carattere dello stesso D.M., presentato come persone sofferente di vittimismo, portata alla polemica ed incapace di instaurare rapporti d'ufficio sereni e fattivi.

Motivi della decisione


- Che il ricorso appare meritevole, per quanto di ragione, di accoglimento, in quanto, prescindendo dal rilievo, in verità non determinante, attribuito dalla Corte di merito al documento cui si riferisce il primo motivo di ricorso, quello che deve ritenersi in effetti censurabile, in linea con quanto lamentato nel secondo e nel terzo motivo, è l'avvenuto riconoscimento, a fronte della non negata offensività delle espressioni contenute nella lettera incriminata, della valenza sostanzialmente scriminante che avrebbe assunto il pregresso comportamento del D.M., culminato nell'asseritamente pretestuosa richiesta di chiarimenti cui, con la lettera anzidetta, era stata data risposta, senza che, peraltro, risulti neppure ben chiarito il ragionamento giuridico in base al quale si era pervenuti alla suddetta conclusione, facendosi riferimento, nella parte conclusiva dell'impugnata sentenza, prima alla pretesa assenza di una "precisa volontà offensiva" e poi ad un "pregresso comportamento provocatorio" della persona offesa;
riferimenti, questi, con riguardo ai quali va osservato, relativamente alla volontà offensiva, che non risulta in alcun modo specificato per quale ragione essa non potesse desumersi, contrariamente all'evidenza, dal letterale tenore delle espressioni adoperate (di cui peraltro si riconosce, nella stessa impugnata sentenza, il carattere "poco opportuno"); relativamente al "pregresso comportamento provocatorio", come tale suscettibile di giuridica rilevanza solo ai sensi dell'art. 599 c.p., comma 2, che, potendosi in ipotesi individuare il "fatto ingiusto" solo nel contenuto e nel tono della missiva inviata il (OMISSIS) alla P. dal D.M. e non certo (come invece sembrerebbe da certi passaggi dell'impugnata sentenza) nel carattere generalmente polemico mostrato dal D.M. nei rapporti d'ufficio, non risulta minimamente presa in considerazione, da parte del giudice d'appello, l'esigenza posta dalla norma, con l'inciso "subito dopo di esso", della contiguità cronologica tra il "fatto ingiusto" e lo "stato d'ira" ad esso conseguente; il che appare tanto più grave in quanto, stando alla ricostruzione dei fatti offerta dall'impugnata sentenza, tra l'invio della nota del D.M. alla P. e la risposta di quest'ultima sarebbero passati ben nove giorni;
- che, alla stregua della suesposte considerazioni, deve quindi darsi luogo ad annullamento dell'impugnata sentenza, ai soli effetti civili, con rinvio, ai sensi dell'art. 622 c.p.p., al giudice civile competente per valore in grado di appello, il quale, nella massima libertà di valutazione degli elementi di fatto acquisiti o che venissero acquisiti, dovrà tuttavia decidere sulle pretese risarcitorie del D.M. evitando di incorrere nella segnalate carenze motivazionali che hanno caratterizzato la sentenza annullata;
- che, con riguardo alle spese relative al presente grado di giudizio, sulle stesse dovrà provvedere lo stesso giudice civile in sede di definizione del giudizio.

P.Q.M.


La Corte annulla, ai soli effetti civili, la sentenza impugnata, con rinvio, per nuovo esame, al giudice civile competente per valore in grado di appello. Spese al definitivo.
Così deciso in Roma, il 24 marzo 2009.
Depositato in Cancelleria il 15 aprile 2009

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