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SENTENZA N. 273
ANNO 2009
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Francesco AMIRANTE Presidente
- Ugo DE SIERVO Giudice
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
- Giuseppe FRIGO "
- Alessandro CRISCUOLO "
- Paolo GROSSI "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel
giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 227 del codice penale
militare di pace promosso dal Tribunale militare di Napoli, nel
procedimento penale militare a carico di C. C., con ordinanza del 29
maggio 2008, iscritta al n. 63 del registro ordinanze 2009 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 10, prima serie speciale, dell’anno 2009.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 23 settembre 2009 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano.
Ritenuto in fatto
1.
– Con ordinanza emessa il 5 ottobre 2005 il Tribunale militare di
Napoli – già Tribunale militare di Palermo – ha sollevato, in
riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità
costituzionale dell’art. 227 del codice penale militare di pace nella
parte in cui non prevede, per il delitto di diffamazione rientrante
nella giurisdizione dei tribunali militari, la causa di non punibilità
della prova liberatoria prevista dall’art. 596, terzo comma, numero 1), e
quarto comma, del codice penale per il corrispondente delitto di
diffamazione rientrante nella giurisdizione ordinaria.
Il
rimettente premette in fatto che C. C. è stato tratto a giudizio per
rispondere del reato di diffamazione aggravata in quanto avrebbe inviato
a diverse autorità un esposto dal contenuto lesivo della reputazione
del brigadiere dei carabinieri F. M., anche mediante l’attribuzione di
fatti determinati.
Il
Tribunale militare precisa di aver già sollevato, su eccezione della
difesa dell’imputato, la medesima questione di legittimità
costituzionale, dichiarata manifestamente inammissibile dalla Corte con
ordinanza n. 49 del 2008, per insufficiente descrizione della
fattispecie sotto il duplice profilo dell’omissione da parte del
Tribunale della descrizione del caso concreto e della mancata
indicazione di quale tra le tre ipotesi previste dall’art. 596, terzo
comma, cod. pen. veniva a ricorrere nel caso di specie.
Alla
ripresa del processo, la difesa dell’imputato ha nuovamente eccepito
l’illegittimità dell’art. 227 cod. pen. mil. pace e il collegio ha
sollevato nuovamente la questione descrivendo più dettagliatamente il
fatto.
Il
rimettente evidenzia, sulla base di quanto emerge dal capo
d’imputazione e dai documenti prodotti dalle parti, che l’imputato,
maresciallo capo dei carabinieri, in servizio presso la sezione
anticrimine dei carabinieri di Monreale, con un esposto indirizzato a
vari comandi dell’Arma e a varie Autorità giudiziarie, avrebbe offeso la
reputazione del brigadiere dei carabinieri F. M. attribuendogli i
seguenti fatti: di spendere con disinvoltura il nome di un sostituto
procuratore generale di Caltanissetta; di lasciare l’auto di servizio
incustodita sulla pubblica via; di occupare abusivamente un seminterrato
grazie alla compiacenza di istituzioni locali; di mancare di
riservatezza, così pregiudicando la sicurezza del sostituto procuratore e
dei colleghi; di vivere indebitamente di luce riflessa senza far sapere
di non avere più rapporti di lavoro con il magistrato; di utilizzare il
nome di quest’ultimo come quello di garante inconsapevole di
inqualificabili condotte e, infine, di godere della comprensione del
comando provinciale dei carabinieri di Caltanissetta per le sue vicende
personali.
Il
Tribunale militare, compiuta una ricognizione dei dati normativi
vigenti, afferma, in primo luogo, che l’art. 596 cod. pen., pur
escludendo in via generale la prova liberatoria (primo comma), la
ammette nelle limitate ipotesi contemplate nei commi secondo e terzo,
prevedendo inoltre (quarto comma) che, una volta provata la verità del
fatto, l’autore dell’imputazione non è più punibile. Osserva, inoltre,
che tale causa di non punibilità è, invece, del tutto ignota al codice
penale militare che non contiene alcuna norma analoga.
La
prova liberatoria di cui all’art. 596 cod. pen. in origine non era
presente nel codice del 1930, che si limitava a prevedere l’eventuale
deferimento a un giurì d’onore del giudizio sulla verità del fatto. Solo
con il decreto legislativo luogotenenziale 14 settembre 1944, n. 288
(Provvedimenti relativi alla riforma della legislazione penale), venne
introdotta la modifica dell’art. 596 cod. pen. nei termini tutt’oggi in
vigore, senza però che fosse prevista, né allora né in epoca successiva,
una corrispondente disciplina per le fattispecie militari.
In
tal modo, il trattamento penalistico pressoché identico quanto alla
morfologia complessiva delle due figure criminose di ingiuria e
diffamazione, si diversifica profondamente in tema di cause di non
punibilità, in quanto da un lato il codice penale comune risolve «in
senso liberale la questione del valore da attribuire alla verità
dell’addebito», mentre dall’altro il codice penale militare, nato nel
1941, continua a rispecchiare la sua matrice autoritaria, contraria ad
ammettere la possibilità di provare la legittimità della pubblica
censura ai comportamenti di determinati soggetti.
L’attuale
disarmonia, a parere del collegio rimettente, «non appare comprensibile
sotto il profilo della ragionevolezza, non essendo possibile
individuare alcun valido motivo della perdurante sperequazione; e per
ciò stesso appare ingiustificata ex art. 3 Cost., poiché
finisce per trattare la posizione dei militari imputati di ingiuria e
diffamazione in modo pesantemente diverso da quello previsto per i non
appartenenti alle forze armate imputati di illeciti del tutto analoghi».
Il
Tribunale militare evidenzia che il caso sottoposto al suo giudizio
rientrerebbe nell’ipotesi contemplata dall’art. 596, terzo comma, numero
1), cod. pen. perché la persona offesa è un pubblico ufficiale e i
fatti a lui attribuiti si riferiscono all’esercizio delle sue funzioni.
Quanto
alla rilevanza, il Tribunale militare di Napoli asserisce che è appena
il caso di rilevare che l’esito del procedimento sarebbe ben diverso se
si ammettesse o si negasse la possibilità della prova liberatoria:
poiché in un caso si potrebbe pervenire a una pronuncia favorevole
all’imputato nei termini previsti dall’art. 596, quarto comma, cod. pen.
e, nell’altro, ad una soluzione di segno contrario.
2. – È intervenuto
nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione
di costituzionalità venga dichiarata inammissibile o infondata.
L’eccezione di inammissibilità si fonda sull’insufficiente descrizione della fattispecie, perché il Tribunale
militare avrebbe omesso di precisare se l’imputato, nell’esercizio del
suo diritto di difesa, abbia chiesto o meno di essere ammesso a provare
la verità dei fatti attribuiti alla persona offesa dal reato per il
quale si procede.
In
via subordinata, l’Avvocatura dello Stato evidenzia l’infondatezza
della questione di costituzionalità perché fondata su di una disparità
di trattamento di situazioni che invece non possono essere equiparate,
stante la peculiarità degli interessi tutelati dal diritto penale
militare.
Considerato in diritto
1.
– Il Tribunale militare di Napoli – già Tribunale militare di Palermo –
ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione
di legittimità costituzionale dell’art. 227 del codice penale militare
di pace nella parte in cui non prevede, per il delitto di diffamazione
rientrante nella giurisdizione dei tribunali militari, la causa di non
punibilità della prova liberatoria prevista dall’art. 596, terzo comma,
numero 1), e quarto comma, del codice penale per il corrispondente
delitto di diffamazione rientrante nella giurisdizione ordinaria.
Secondo
il rimettente, l’esclusione della prova liberatoria per il delitto di
diffamazione militare è in contrasto con il principio di ragionevolezza,
in quanto non vi è alcuna ragione giustificatrice della disparità di
trattamento dei militari imputati di ingiuria e diffamazione rispetto ai
non appartenenti alle forze armate imputati di illeciti del tutto
analoghi.
2.
– Preliminarmente, deve esaminarsi l’eccezione dell’Avvocatura dello
Stato di inammissibilità della questione perché nell’ordinanza di
rimessione il collegio non ha specificato se l’imputato del giudizio a quo ha chiesto di essere ammesso a provare la verità dei fatti attribuiti alla persona offesa.
L’eccezione
deve essere respinta, in quanto il rimettente chiarisce che è la stessa
difesa dell’imputato ad aver reiteratamente chiesto al collegio di
sollevare la questione di costituzionalità dell’art. 227 cod. pen. mil.
pace, ciò allo scopo evidente di rimuovere l’ostacolo giuridico alla
ammissibilità delle prove circa la verità dei fatti oggetto
dell’imputazione di diffamazione militare.
3. – La questione è fondata.
4.
– Questa Corte ha da tempo chiarito che la diversità di disciplina tra
ordinamento penale comune e militare può rilevare in termini di
violazione del principio di eguaglianza solo ove sia dato riscontrare
una assoluta identità tra il reato comune e quello militare, sul terreno
sia della condotta tipica, sia dell’oggettività giuridica del reato (si
vedano, ex plurimis, le sentenze n. 272 del 1997 e n. 448 del
1991) e che i reati militari sono connotati, quale loro peculiare ed
intrinseca caratteristica, da «un’offesa alla disciplina e al servizio»
cui corrisponde l’interesse generale di garantire l’efficienza e la
coesione delle forze armate.
Le
due fattispecie di diffamazione previste, rispettivamente, dall’art.
595 cod. pen. e dall’art. 227 cod. pen. mil. pace sono già state oggetto
di una questione di costituzionalità, prospettata in relazione alla
violazione del principio di uguaglianza determinata dalla differente
disciplina della condizione di procedibilità.
In
tale occasione, la Corte ha ritenuto legittima l’esclusione della
procedibilità a querela della persona offesa per il delitto di
diffamazione militare e la sua esclusiva subordinazione alla richiesta
del comandante di corpo prevista dall’art. 260 cod. pen. mil. pace,
affermando che «nei
reati militari [è] sempre insita “un’offesa alla disciplina e al
servizio, una lesione quindi di un interesse eminentemente pubblico che
non tollera subordinazione all’interesse privato caratteristico della
querela”: presupposto sulla base del quale “si è preferito attribuire al
comandante del corpo, con l’istituto della richiesta” una facoltà di
scelta tra l’adozione di provvedimenti di natura disciplinare ed il
ricorso all’ordinaria azione penale»
(ordinanza n. 410 del 2000, nella quale si citano le sentenze n. 449
del 1991 e n. 42 del 1975, nonché l’ordinanza n. 229 del 1988).
Si è quindi esclusa la violazione del principio di uguaglianza, giustificando la diversità di trattamento nella
peculiarità della situazione propria del cittadino inserito
nell’ordinamento militare – alle cui specifiche regole egli è vincolato –
rispetto a quella della generalità degli altri cittadini e ponendo
l’accento ancora una volta sulla lesione del bene giuridico della
disciplina e del servizio che, rispondendo a interessi di tipo
pubblicistico, non tollera subordinazione all’interesse privato.
Nell’esaminare
la presente questione deve rilevarsi che, salvo per l’aspetto, sopra
evidenziato, dell’immanenza in tutti i reati militari della tutela «di
un interesse eminentemente pubblico» quale quello della disciplina e del
servizio, le due fattispecie poste a raffronto, diffamazione militare
(art. 227 cod. pen. mil. pace) e diffamazione “comune” (art. 595 cod.
pen.), presentano una piena equivalenza sul terreno sia della condotta
tipica, sia dell’oggettività giuridica del reato. La diffamazione
militare si pone in rapporto di specialità con il corrispondente delitto
previsto dal codice penale, distinguendosi unicamente per la qualità
del soggetto attivo e della persona offesa, che devono essere entrambi
militari, restando invece identica, sotto il profilo testuale, la
descrizione della fattispecie base delle due norme incriminatrici, vale a
dire l’offesa della altrui reputazione nella comunicazione con più
persone.
Anche
le ipotesi aggravate, previste rispettivamente dall’art. 595, secondo,
terzo e quarto comma, cod. pen. e dall’art. 227, secondo e terzo comma,
cod. pen. mil. pace, sono sostanzialmente corrispondenti. In entrambi i
casi è previsto un aggravamento della pena nell’ipotesi
dell’attribuzione del fatto determinato e dell’offesa recata a mezzo
stampa, con altro mezzo di pubblicità o in atto pubblico. Infine, a
fronte della previsione dell’aggravante rappresentata dall’offesa recata
ad un corpo politico amministrativo o giudiziario per il delitto
comune, nell’ipotesi speciale è contemplata la corrispondente aggravante
dell’offesa recata a un corpo militare ovvero a un ente amministrativo o
giudiziario militare, coerentemente con la specificità della
diffamazione militare.
Se, dunque, l’unica ratio
giustificativa della diversa disciplina tra le due ipotesi delittuose
in tema di condizione di procedibilità è l’interesse di tipo
pubblicistico della tutela della disciplina e del servizio, mancano
ulteriori apprezzabili ragioni che possano giustificare il diverso
trattamento ai fini dell’applicazione della causa di non punibilità
della cosiddetta exceptio veritatis.
Il presupposto, infatti, per l’applicabilità della prova liberatoria di
cui all’art. 596, terzo comma, numero 1), cod. pen. è che la persona
offesa sia un pubblico ufficiale e che il fatto ad esso attribuito si
riferisca all’esercizio delle sue funzioni. È evidente che viene in
rilievo un interesse pubblico all’accertamento del fatto che non può che
determinare l’estensione di tale strumento probatorio anche a quanto
previsto dall’art. 227 cod. pen. mil. pace.
Nel
caso in esame, pertanto, all’estensione dell’applicabilità della prova
liberatoria prevista dall’art. 596, terzo comma, numero 1), cod. pen.
alla diffamazione militare non ostano le ragioni che, in occasione
dell’ordinanza n. 410 del 2000 hanno precluso l’accoglimento della
questione allora sollevata. Del resto, proprio con riferimento a quanto
affermato in tale decisione, la tutela delle specifiche esigenze
dell’ordinamento militare è sufficientemente assicurata dal diverso
sistema di attivazione dell’azione penale.
Sulla
base di tali considerazioni, si impone la dichiarazione di
illegittimità costituzionale, per contrasto con il principio di
uguaglianza, dell’art. 227 cod. pen. mil. pace, nella parte in cui non
prevede l’applicabilità anche al delitto di diffamazione militare
dell’art. 596, terzo comma, numero 1), e quarto comma, del codice
penale.
Per
le medesime ragioni la pronuncia di illegittimità costituzionale deve
essere estesa, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87,
anche con riguardo all’applicabilità dell’art. 596, terzo comma, numero
2), cod. pen. che, allo stesso modo, prevede la prova liberatoria quando
per il fatto attribuito alla persona offesa vi sia nei suoi confronti
un procedimento penale.
Resta
esclusa l’ipotesi di cui al numero 3) del terzo comma dell’art. 596
cod. pen, relativa alla richiesta formale del querelante di estendere il
giudizio all’accertamento della verità o della falsità del fatto ad
esso attribuito. Tale ultima disposizione, infatti, si riferisce alla
figura del querelante e, pertanto, la sua applicazione non può
estendersi alla fattispecie di diffamazione militare dato che, come si è
visto, l’ordinamento penale militare non conosce l’istituto della
querela.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara
l’illegittimità costituzionale dell’art. 227 del codice penale militare
di pace nella parte in cui non prevede l’applicabilità anche al delitto
di diffamazione militare dell’art. 596, terzo comma, numero 1),
e quarto comma, del codice penale;
dichiaraai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87,
l’illegittimità costituzionale dell’art. 227 del codice penale militare
di pace nella parte in cui non prevede l’applicabilità anche al delitto
di diffamazione militare dell’art. 596, terzo comma, numero 2), e
quarto comma, del codice penale.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 ottobre 2009.
F.to:
Francesco AMIRANTE, Presidente
Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 29 ottobre 2009.
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