LAVORO (RAPPORTO) - OBBLIGAZIONI E CONTRATTI
Cass. civ. Sez. lavoro, 16-06-2009, n. 13953 |
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO 15171/2006
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ROSELLI Federico - Presidente
Dott. DI NUBILA Vincenzo - Consigliere
Dott. IANNIELLO Antonio - Consigliere
Dott. NOBILE Vittorio - rel. Consigliere
Dott. MELIADO' Giuseppe - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
G.M.,
elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FLAMINIA 195, presso lo studio
dell'avvocato VACIRCA SERGIO, che lo rappresenta e difende unitamente
all'avvocato PETRONIO LUCIANO GIORGIO, giusta mandato a margine del
ricorso;
- ricorrente -
contro
PASTIFICIO @@@@@@@ S.P.A.;
- intimata -
sul ricorso 13035/2006 proposto da:
PASTIFICIO
@@@@@@@ S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore,
elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FLAMINIA 362, presso lo studio
dell'avvocato TRANE PASQUALE, che la rappresenta e difende unitamente
all'avvocato ZILIOLI TITO, giusta mandato a margine del controricorso e
ricorso incidentale;
- controricorrente e ricorrente incidentale -
contro
G.M.;
- intimato -
e sul ricorso 15171/2006 proposto da:
G.M.,
elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FLAMINIA 195, presso lo studio
dell'avvocato VACIRCA SERGIO, che lo rappresenta e difende unitamente
all'avvocato PETRONIO LUCIANO GIORGIO, giusta mandato a margine del
controricorso e ricorso incidentale;
- controricorrente e ricorrente incidentale rispetto a ricorso incidentale -
e contro
PASTIFICIO @@@@@@@ S.P.A.;
- intimata -
avverso la sentenza n. 196/2005 della CORTE D'APPELLO di VENEZIA, depositata il 17/03/2005 R.G.N. 76/02;
udita la relazione della causa svolta nella Udienza pubblica del 16/04/2009 dal Consigliere Dott. NOBILE Vittorio;
udito l'Avvocato PETRONIO LUCIANO GIORGIO;
udito l'Avvocato ZILIOLI TITO;
udito
il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SEPE Ennio
Attilio, che ha concluso per l'accoglimento del ricorso principale per
quanto di ragione, (primo motivo, assorbito il secondo), rigetto altri
motivi; rigetto dell'incidentale, inammissibile l'incidentale
all'incidentale o assorbito.
Svolgimento del processo
Con
ricorso del 11/3/1999 G.M. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale
di Verona la s.p.a. Pastificio @@@@@@@ esponendo: che era stato assunto
con la qualifica di dirigente e mansioni di "direttore operazioni
internazionali" dal 14/11/1995; che il contratto stipulato il (OMISSIS)
prevedeva "un bonus basato su obiettivi di anno in anno concordati" e
"per il 96 garantito in L. 50.000.000" netti "su base annua"; che il
rapporto si era risolto in data 23/10/1997 per dimissioni con
liquidazione dell'indennità sostitutiva del preavviso per il periodo
24/10/1997 - 15/12/1997.
Il ricorrente
lamentava che il "bonus" non gli era stato riconosciuto per l'anno 1997 e
che, previa liquidazione equitativa, di esso si doveva tener conto
anche ai fini del calcolo del TFR. Precisava, inoltre, che aveva goduto
di benefici aggiuntivi (alloggio, vitto e acquisto prodotti della
convenuta presso lo spaccio aziendale a prezzi ridotti) per un valore
medio complessivo di L. 880.000 mensili da considerare ai fini della
riliquidazione dell'indennità di preavviso e del TFR, della retribuzione
feriale e dell'indennità sostitutiva delle ferie non godute. Chiedeva,
infine, la corresponsione delle differenze retributive relative alle
ferie non godute e concludeva per la condanna della società convenuta al
pagamento in suo favore della somma indicata.
La
società si costituiva, eccependo la improcedibilità della domanda e
contestando, nel merito, la fondatezza della stessa, precisando che il
bonus non era un elemento costante ma accessorio della retribuzione; che
i benefici aggiuntivi pure non rientravano nella retribuzione e,
pertanto, non dovevano essere computati ai fini della determinazione
degli istituti dei quali era richiesto il ricalcolo; che il numero di
giorni di ferie maturati e non goduti era inferiore a quello effettuato
dal ricorrente.
In via riconvenzionale, la
società chiedeva la condanna del ricorrente al risarcimento del danno,
da liquidarsi equitativamente in L. 50.000.000, causato dal colposo
comportamento del ricorrente che ave va impedito il tempestivo recupero
di un credito.
Il Giudice del lavoro del
Tribunale di Verona, con sentenza n. 627/2000, rigettava tutte le
domande del G. nonchè la riconvenzionale della società.
Avverso la detta sentenza il G. proponeva appello, chiedendo l'accoglimento delle domande.
La
società Pastificio @@@@@@@ resisteva al gravame di controparte e
proponeva appello incidentale, per sentire accogliere la domanda
riconvenzionale rigettata in primo grado.
Il
G. replicava all'appello incidentale, chiedendone la declaratoria di
inammissibilità per genericità e, in ogni caso, il rigetto.
La
Corte d'appello di Venezia, con sentenza depositata il 17/3/2005, in
parziale accoglimento dell'appello principale condannava la società a
corrispondere al G. la somma in Euro pari a L. 9.410.012, oltre
interessi legali previa rivalutazione ex art. 429 c.p.c. e 151
disp. att. c.p.c. dal dovuto all'effettivo saldo; rigettava l'appello
incidentale e compensava le spese di entrambi i gradi.
In
sintesi la Corte territoriale, per quanto riguardava il bonus, riteneva
che la clausola contrattuale si presentava "con un oggetto
indeterminato tale da determinarne la nullità o, al più, la sua
interpretazione come istitutiva di un obbligo a trattare".
Rilevava,
inoltre, che la domanda di risarcimento del danno "per mancata
conclusione del previsto accordo per la determinazione degli obiettivi e
del compenso" non era stata formulata nel giudizio di primo grado.
Per
quanto riguardava, altresì, le richieste di incidenza, in vari
istituti, "di quanto corrisposto a titolo di vitto ed alloggio per i
giorni lavorativi del ricorrente in sede e da quest'ultimo risparmiato
per acquisti a prezzi ridotti presso lo spaccio aziendale", la Corte
d'appello escludeva la natura retributiva di tali voci.
La
Corte di merito accoglieva, invece, la domanda relativa alle ferie non
godute, rilevando che la società non aveva mai dedotto una libera
determinazione e facoltà del G. di determinare egli stesso il periodo
delle ferie (circostanza posta a base del rigetto nella sentenza di
primo grado).
Infine la Corte territoriale
riteneva infondata la domanda riconvenzionale, per motivi diversi
rispetto a quelli di cui alla sentenza appellata.
Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso il G. con cinque motivi.
La s.p.a. Pastificio @@@@@@@ ha resistito con controricorso ed ha proposto ricorso incidentale con un unico motivo.
Il
G., a sua volta, ha resistito con controricorso al ricorso incidentale
della società ed ha avanzato ulteriore ricorso incidentale, con unico
motivo, condizionato all'accoglimento del ricorso incidentale della
società.
Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
Preliminarmente vanno riuniti i ricorsi avverso la stessa sentenza ex art. 335 c.p.c..
Premesso
che nella fattispecie non trova applicazione l'art. 366 bis c.p.c.,
trattandosi di ricorso avverso sentenza pubblicata (in data 17/3/2005)
anteriormente all'entrata in vigore del D.Lgs. n. 40 del 2006, il Collegio rileva che con il primo motivo del ricorso principale il G., denuncia vizio di motivazione, violazione dell'art. 1362 c.c. e segg. nonchè violazione degli artt. 1175, 1226, 1346, 1365, 1366, 1367, 1374, 1375 e 2099 c.c. e l'art. 432 c.p.c..
In
particolare il ricorrente sostiene che "non si può dedurre la non
obbligatorietà di un compenso contrattualmente previsto dal fatto che
non siano fissati, in modo preciso, i criteri da seguire per addivenire
alla sua determinazione e questi possano essere diversi", in quanto tale
mancanza "significa soltanto che si è inteso affidare al futuro
comportamento delle parti, rispettoso delle regole della buona fede (art. 1175 c.c.),
la detta determinazione dei criteri relativi al quantum, e quindi la
misura concreta della prestazione (con conseguente possibilità che venga
ad operare la disposizione di cui all'art. 1374 c.c., e quindi
che, in assenza di una intesa dei soggetti contrattuali, sia il
Giudice, esercitando la equità integrativa prevista dalla norma e
scegliendo fra tutti i criteri in astratto possibili da applicare, a
definire la misura concreta della prestazione dovuta)".
In
sostanza, secondo la ricorrente, interpretando correttamente la
clausola contrattuale de qua in base ai canoni ermeneutici, la Corte
d'Appello avrebbe dovuto constatare che "il bonus era stato previsto
come obbligatorio" anche per gli anni successivi al 1996, di guisa che
ben avrebbe potuto essere determinato nel quantum ai sensi sia dell'art. 2099 c.c. sia dell'art. 432 c.p.c. (per cui erronea era la affermazione della nullità della relativa clausola ex art. 1346 c.c.).
In
sintesi, quindi, la Corte territoriale "una volta, correttamente,
riconosciuto che la volontà delle parti era nel senso che ogni anno
dovesse essere riconosciuto un bonus, avrebbe dovuto, invece affermare
che, mancato, per il 1997, l'accordo delle parti sulla misura del bonus,
questa avrebbe potuto e dovuto essere determinata dal Giudice in
applicazione delle norme richiamate".
Il
motivo non merita accoglimento, in quanto, da un lato, la premessa è
chiaramente esclusa dalla interpretazione della clausola contrattuale
affermata nell'impugnata sentenza, che resiste alla censura del
ricorrente e, dall'altro, la Corte di merito, a fronte della detta
interpretazione, legittimamente ha escluso la possibilità, nella
fattispecie, del ricorso ai criteri integrativi invocati dal G. sotto
diversi profili.
Come questa Corte ha più
volte affermato "l'interpretazione del contratto e degli atti di
autonomia privata costituisce una attività riservata al giudice di
merito, ed è censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione
dei criteri legali di ermeneutica contrattuale ovvero per vizi di
motivazione, qualora la stessa risulti contraria a logica o incongrua,
cioè tale da non consentire il controllo del procedimento logico seguito
per giungere alla decisione. Ai fini della censura di violazione dei
canoni ermeneutici, non è peraltro sufficiente l'astratto riferimento
alle regole legali di interpretazione, ma è necessaria la specificazione
dei canoni in concreto violati, con la precisazione del modo e delle
considerazioni attraverso i quali il giudice se ne è discostato, nonchè,
in ossequio al principio di specificità ed autosufficienza del ricorso,
con la trascrizione del testo integrale della regolamentazione pattizia
del rapporto o della parte in contestazione, ancorchè la sentenza abbia
fatto ad essa riferimento, riproducendone solo in parte il contenuto,
qualora ciò non consenta una sicura ricostruzione del diverso
significato che ad essa il ricorrente pretenda di attribuire. La
denuncia del vizio di motivazione dev'essere invece effettuata mediante
la precisa indicazione delle lacune argomentative, ovvero delle
illogicità consistenti nell'attribuzione agli elementi di giudizio di un
significato estraneo al senso comune, oppure con l'indicazione dei
punti inficiati da mancanza di coerenza logica, e cioè connotati da
un'assoluta incompatibilità razionale degli argomenti, sempre che questi
vizi emergano appunto dal ragionamento logico svolto dal giudice del
merito, quale risulta dalla sentenza. In ogni caso, per sottrarsi al
sindacato di legittimità, non è necessario che quella data dal giudice
sia l'unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto,
sicchè, quando di una clausola siano possibili due o più
interpretazioni, non è consentito alla parte, che aveva proposto
l'interpretazione disattesa dal giudice, dolersi in sede di legittimità
del fatto che ne sia stata privilegiata un'altra" (v. Cass. sez. 1^
22/2/2007 n. 4178, Cass. sez. 1^ 7/3/2007 n. 5273, Cass. sez. 3^
12/7/2007 n. 15604).
Nella specie la Corte
territoriale ha espressamente escluso che la clausola contrattuale in
contestazione potesse "interpretarsi nel senso della previsione
dell'obbligatorietà della corresponsione, con possibile sua
determinazione in sede giudiziale ai sensi di quanto previsto o dall'art. 2099 c.c., o dall'art. 432 c.p.c. o, ancora, dall'art. 1374 c.c.".
Al
riguardo la Corte di merito, premesso che la detta clausola "ha come
suo elemento necessario, oltre l'entità del compenso (suscettibile,
eventualmente, di determinazione in sede giudiziale) anche
l'individuazione del tipo degli obiettivi e della loro entità, che non
possono essere certo stabiliti in questa sede", ha rilevato che
"contrariamente a quanto dato per scontato dall'appellante, gli
obiettivi possono essere di diversa tipologia e, specie in contratto di
dipendente con qualifica dirigenziale dotato di potere di spese,
individuabili, per esempio... nel fatturato o negli utili; di
conseguenza, la clausola si presenta con un oggetto indeterminato tale
da determinarne la nullità ai sensi dell'art. 1346 c.c. o, al più, la sua interpretazione come istitutiva di un obbligo a trattare".
In
tal modo, quindi, la Corte ha chiaramente escluso che le parti, per gli
anni successivi al 1996, abbiano concluso un accordo sugli elementi
necessari: non solo in ordine alla determinazione dei criteri per la
quantificazione del compenso de quo, bensì anche in relazione alla
individuazione del tipo e della entità degli obiettivi richiesti per la
spettanza stessa del compenso medesimo (al riguardo configurando, nella
fattispecie, al più, la pattuizione di un "obbligo a trattare").
Tale
decisione, sorretta da motivazione congrua e priva di vizi logici,
resiste alla censura del ricorrente, che, in sostanza (seppure
"autosufficiente", in quanto riporta il contenuto della lettera -
contratto) si risolve nella mera riproposizione della diversa
interpretazione della clausola contrattuale, disattesa dalla Corte
territoriale (sull'accertamento della presenza dei requisiti necessari
per una sicura identificazione dell'oggetto del contratto, riservato al
giudice del merito e soggetto al sindacato della Cassazione solo sotto
il profilo della logicità e congruità della motivazione v. fra le altre
Cass. 11/4/1992 n. 4474; sulla irrilevanza della mera contrapposizione
di una diversa interpretazione rispetto a quella criticata, ai fini
della denuncia di violazione di regole ermeneutiche e di vizio di
motivazione, v. fra le altre Cass. 18/3/2001 n. 11078).
Del
resto, in mancanza degli elementi essenziali per la definizione dell'an
stesso del diritto al bonus de quo (per la evidenziata indeterminatezza
assoluta degli obiettivi, che "di anno in anno" si sarebbero dovuti
concordare), legittimamente la Corte di merito ha escluso che, nella
fattispecie, a tale mancanza si potesse sopperire con i rimedi
integrativi invocati dal G..
Come questa Corte ha più volte affermato "i principi di correttezza e buona fede - di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c.
- non creano obbligazioni: autonome in capo al datore di lavoro, bensì
rilevano "come norme di relazione; con funzione di fonti integrative del
contratto (art. 1374 c.c.) ove ineriscano a comportamenti
dovuti in relazione ad obblighi di prestazione imposti dal contratto
collettivo o da altro atto di autonomia privata" (v. Cass. 10/4/1996 n.
3351, Cass. 21/5/1998 n. 5091, Cass. 18/5/1999 n. 4818, Cass. 7/7/1999
n. 7082, Cass. 29/3/2000 n. 3840, Cass. 14/9/2000 n. 12140, v. anche
Cass. 24/10/1995 n. 11051), ed in specie "o come modalità di generico
comportamento delle parti ai fini della concreta realizzazione delle
rispettive posizioni di diritti ed obblighi, oppure come comportamento
dovuto in relazione a specifici obblighi di prestazione" (v. Cass. S.U.
29/5/1993 n. 6031, Cass. 25/1/1996 n. 557, Cass. 29/5/1998 n. 5357,
Cass. 13/5/2004 n. 9141).
La violazione di
tali principi, quindi, "si configura solo nell'ipotesi in cui vengano
lesi diritti soggettivi già riconosciuti in base a norme di legge,
riguardando le modalità di adempimento degli obblighi a tali diritti
correlati. Le stesse regole non valgono, invece, a configurare obblighi
aggiuntivi che non trovino, ai sensi dell'art. 1173 c.c. la
loro fonte nel contratto, nel fatto illecito o in ogni altro atto o
fatto idoneo a produrlo in conformità dell'ordinamento giuridico" (v.
Cass. 29/3/2007 n. 7731, Cass. 9/3/2005 n. 5140).
Peraltro,
una volta escluso (con accertamento di fatto del giudice del merito,
come sopra congruamente motivato) l'obbligo del datore alla
corresponsione del compenso aggiuntivo de quo (per il 1997, in mancanza
di qualsiasi determinazione degli obiettivi condizionanti la spettanza
stessa del compenso), il lavoratore non può invocare la determinazione
da parte del giudice ex art. 2099 c.c., la quale comunque presuppone la esistenza del diritto all'elemento retributivo ulteriore de quo.
Del pari, poi, legittimamente la Corte territoriale ha escluso la possibilità del ricorso all'art. 432 c.p.c.,
in quanto, come questa Corte ha più volte precisato, "la valutazione
equitativa della prestazione, rimessa al giudice del lavoro dall'art. 432 c.p.c.,
ha per oggetto il valore economico di questa e non la determinazione in
ordine alla sua esistenza, esigendo la norma che sia certo il diritto e
non sia possibile determinare la somma dovuta" (v. fra le altre Cass.
18/4/2002 n. 5603).
Del resto la
giurisprudenza di questa Corte richiamata dal ricorrente a sostegno
della applicabilità dei mezzi integrativi invocati riguarda, pur sempre,
diverse fattispecie nelle quali il diritto al compenso aggiuntivo era
certo, ovvero determinato nell'an, riguardando la integrazione o la
determinazione giudiziale soltanto la misura del diritto stesso.
Con il secondo motivo del ricorso principale il G., denunciando violazione degli artt. 112, 420, 434 e 437 c.p.c.,
in sostanza lamenta che erroneamente la Corte territoriale ha ritenuto
di non poter accogliere la domanda come "risarcimento del danno per
l'intervenuta violazione, da parte della s.p.a. Pastificio @@@@@@@, del
suo obbligo di addivenire alla determinazione del bonus e dei suoi
criteri", ed all'uopo, rileva che avendo egli dedotto, già nel ricorso
introduttivo (punto 4), di aver "per il 1997 più volte invitato il sig.
R.G., direttore generale della società, a provvedere a concordare
l'obiettivo da raggiungere per quell'anno e il corrispondente bonus", in
sostanza, "l'inquadramento dell'azione proposta in uno schema
risarcitorio" rientrava "nel potere riservato al giudice del merito, di
qualificare giuridicamente la domanda sulla base dei fatti dedotti dalla
parte".
Il motivo è infondato.
Come
questa Corte ha più volte affermato "il potere - dovere del giudice di
qualificare giuridicamente l'azione e di attribuire il "nomen juris" al
rapporto giuridico sostanziale dedotto in giudizio, anche in difformità
rispetto alle deduzioni delle parti, trova un limite - la cui violazione
determina il vizio di ultrapetizione - nel divieto di sostituire
l'azione proposta con una diversa, perchè fondata su fatti diversi o su
una diversa "causa petendi", con la conseguente introduzione di un
diverso titolo accanto a quello posto a fondamento della domanda, e di
un nuovo tema di indagine" (v. Cass. 20/11/1998 n. 11753, Cass.
15/5/2001 n. 6712).
Costituisce, quindi,
"domanda nuova, improponibile in appello, la deduzione di una nuova
"causa petendi", che comporti, attraverso la prospettazione di nuove
circostanze o situazioni giuridiche, il mutamento dei fatti costitutivi
del diritto fatto valere in giudizio e l'introduzione nel processo di un
nuovo tema di indagine e di decisione, alterando l'oggetto sostanziale
dell'azione ed i termini della controversia" (v. Cass. 19/8/2003 n.
12133).
Peraltro, in particolare, è stato anche precisato che "l'art. 1453 c.c.,
comma 2 deroga alle norme processuali che vietano la mutatio libelli
nel corso del processo nel senso di consentire la sostituzione della
domanda di adempimento del contratto con quella di risoluzione per
inadempimento, non già anche con quella di risarcimento del danno (fatto
salvo in ogni caso dal comma 1), la quale integra un'azione del tutto
diversa per petitum, dalle altre due, con la conseguenza che urta contro
tale divieto, e quindi è inammissibile, la domanda risarcitoria
introdotta in corso di causa, in luogo di quella (iniziale) di
adempimento" (in tal senso v. Cass. 27/3/2004 n. 6161; sulla
insostituibilità della domanda di risoluzione per inadempimento a quella
originaria di risarcimento del danno cfr. Cass. 27/7/2006 n. 17144,
Cass. 26/4/1999 n. 4164, Cass. 9/4/1998 n. 3680; sulla novità della
domanda di adempimento a titolo di retribuzione rispetto alla originaria
domanda di risarcimento del danno cfr. Cass. 21/1/1967 n. 196).
Orbene,
in conformità con tali principi, la Corte di merito, legittimamente -
pur considerando la deduzione della circostanza evidenziata
dall'appellante, di cui al punto 4 del ricorso di primo grado - ha
rilevato che la domanda risarcitoria non era stata formulata nel
giudizio di primo grado e non poteva ritenersi esaminabile in appello,
"essendo formulata, quantomeno con una diversa causa petendi,
individuabile, in un caso, nel mancato adempimento di un obbligo
contrattuale di corrispondere un compenso retributivo e, nell'altro, nel
risarcimento del danno per mancata conclusione di un obbligo a trattare
e concludere accordo", in tal modo correttamente fondando la diversità e
novità della azione risarcitoria sulla diversità della causa petendi,
intesa anche come diversità dei fatti costitutivi del diritto fatto
valere e del tema di indagine e di decisione.
Con il terzo motivo del ricorso principale il G., denunciando violazione dell'art. 416 c.p.c.,
premesso che, in relazione ai "vantaggi realizzati negli acquisti allo
spaccio aziendale", con l'appello aveva evidenziato che "la
contestazione del Pastificio @@@@@@@ aveva riguardato solo i profili di
diritto (la natura retributiva di tale vantaggi; l'includibilità del suo
controvalore nella base di calcolo delle altre erogazioni, e in specie
del preavviso e del TFR) non anche la misura del controvalore, come
indicato dal ricorrente", lamenta che erroneamente la Corte territoriale
avrebbe ritenuto che tutto deve intendersi contestato da parte del
Pastificio @@@@@@@, anche il quantum e le relative circostanze.
Il
motivo è inconferente e non coglie nel segno la impugnata decisione, la
quale, con riferimento a quanto risparmiato dal G. per acquisti a
prezzi ridotti presso lo spaccio aziendale (così come per quanto
corrisposto a titolo di vitto ed alloggio per i giorni lavorativi in
sede) ha semplicemente rilevato che la società "ha sempre contestato la
natura retributiva di tali voci". Condividendo, infatti, tale tesi
difensiva della appellata, in base alle argomentazioni svolte (come
appresso censurate con il quarto e con il quinto motivo), la Corte
d'Appello ha respinto il relativo motivo di appello avanzato dal G.
(senza che al riguardo potesse assumere alcun rilievo il quantum di
risparmio medio mensile indicato dal ricorrente - seppure non
specificamente contestato -).
Con il quarto motivo il ricorrente principale, denunciando vizio di motivazione e violazione dell'art. 2099 c.c., D.L. n. 333 del 1992, art. 3 conv. con L. n. 359 del 1992, art. 115 c.p.c., artt. 1182, 2109, 2118, 2120, 2121 c.c., artt. 416 e 420 c.p.c., nonchè dell'art. 1362 c.c.
e segg. in relazione all'art. 24 del ccnl dirigenti industriali
27/4/95, in sostanza lamenta che erroneamente la Corte territoriale
avrebbe escluso la natura retributiva di quanto corrispostogli "a titolo
di vitto e alloggio per i giorni lavorativi del ricorrente in sede,
conseguentemente escludendo che del relativo controvalore dovesse
tenersi conto ai fini del calcolo di quanto dovuto al lavoratore per
retribuzione del periodo feriale, indennità sostitutiva delle ferie non
godute e del preavviso e TFR".
Premesso che
l'accertamento da parte del giudice del merito della natura retributiva,
risarcitoria o mista dei trattamenti aggiuntivi come quelli in esame,
costituisce giudizio di fatto che, se congruamente motivato, non è
censurabile in questa sede di legittimità (cfr. fra le altre Cass.
19/2/2004 n. 3278, Cass. 10/11/2003 n. 16852, Cass. 3/11/2000 n. 14388) e
considerata anche la natura, "ontologicamente non retributiva" del
servizio mensa (cfr. Cass. S.U. 1/4/1993 n. 3888, Cass. 21/1/1994 n.
581, Cass. 14/11/2001 n. 14198), il motivo non merita accoglimento.
Al
riguardo, sul punto, la sentenza impugnata (atteso che il ricorrente,
ha semplicemente indicato il numero dei giorni in cui ha alloggiato in
albergo a spese della società nonchè l'importo medio mensile sia per il
vitto che per l'alloggio, nulla allegando di preciso sulle
caratteristiche dei trattamenti de quibus) ha accertato "che le spese
dell'albergo erano pagate direttamente dalla società e le spese dei
pasti erano rimborsate in base alle relative ricevute presentate dal
ricorrente, con assimilazione nel secondo caso ad un servizio
sostitutivo di mensa interna" ed ha concluso che "tali caratteristiche, a
prescindere dalla ricorrenza dell'elemento della continuità (non
desumibile dal solo dato numerico in mancanza di ulteriori
specificazioni sugli accordi), inducono a ritenere che i relativi
esborsi, come da qualificazione delle parti durante il rapporto, siano
avvenuti a titolo di rimborso spese”.
Tale
decisione, esente da errori di diritto e congruamente motivata, resiste
alla censura del ricorrente principale, che, in sostanza, propone
dinanzi a questa Corte una revisione del "ragionamento decisorio" che ha
condotto il giudice al giudizio di fatto de quo, sollecitando, quindi,
un inammissibile riesame del merito (v. fra le altre, da ultimo Cass.
7/6/2005 n. 11789, Cass. 6/3/2006 n. 4766). Del resto anche la
denunciata violazione dell'art. 115 c.p.c. è apprezzabile, in sede di ricorso per Cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cui all'art. 360 c.p.c.,
comma 1, n. 5, e deve emergere direttamente dalla lettura della
sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede
di legittimità" (v. fra le altre Cass. sez. 1^ 20/6/2006 n. 14267).
Del
pari non può essere accolta la censura rivolta all'interpretazione
dell'art. 24 del ccnl affermata dalla Corte di Appello, la quale,
proprio in base al dato letterale e a quello sistematico invocati dal
ricorrente, ha ritenuto che la inclusione, nella base di computo del
TFR, dell'equivalente del vitto e dell'alloggio eventualmente dovuti al
dirigente "nella misura convenzionalmente concordata", avvalorasse la
tesi del riferimento delle parti collettive al compenso per vitto e
alloggio, appunto, "convenzionalmente concordato", e non ai veri e
propri rimborsi spese, come tali erogati, volta per volta, a tale titolo
dal datore di lavoro e privi di natura retributiva.
Parimenti,
poi, non può accogliersi il quinto motivo, con il quale il ricorrente
principale, denunciando vizio di motivazione e violazione degli artt. 2099, 2109, 2118, 2120 e 2120 c.c., degli artt. 115, 416, 420, 432 c.p.c.
nonchè dell'art. 7 del citato ccnl, censura la esclusione della natura
retributiva dei risparmi realizzati dal G. effettuando acquisti a prezzi
ridotti presso lo spaccio aziendale.
A parte la inammissibilità della denuncia diretta di violazione di una norma collettiva, nel regime anteriore al D.Lgs. n. 40 del 2006 e al nuovo testo dell'art. 360 c.p.c.,
comma 1, n. 3, osserva il Collegio che sul punto la decisione della
Corte territoriale, fondata sulla mancata allegazione degli elementi
necessari per ritenere la natura retributiva della voce relativa
(semplicemente indicata come importo medio mensile di risparmi per
acquisti di prodotti aziendali), resiste alla censura del ricorrente
principale per le medesime ragioni svolte con riguardo al quarto motivo.
Peraltro
il ricorrente principale, sul punto, lamenta altresì la mancata
ammissione della prova per testi "dedotta dall'attore sul cap. 11/c del
ricorso introduttivo", il mancato accoglimento delle altre istanze ed in
specie della CTU sulla contabilità aziendale e sui coupons consegnati
all'attore per l'acquisto di prodotti della società, nonchè il mancato
ricorso ad una valutazione equitativa ex art. 432 c.p.c..
La
prima di tali doglianze è inammissibile, in quanto in sede di ricorso
per Cassazione "la parte che addebiti a vizio della sentenza impugnata
la mancata ammissione di prove testimoniali richieste nel giudizio di
merito, ha l'onere, se non di trascrivere nell'atto di impugnazione i
relativi capitoli, almeno di indicare in modo esaustivo le circostanze
di fatto che formavano oggetto della disattesa istanza istruttoria, in
quanto il detto ricorso deve risultare autosufficiente e, quindi,
contenere in sè tutti gli elementi che diano al giudice di legittimità
la possibilità di provvedere al diretto controllo della decisività dei
punti controversi, e della correttezza e sufficienza della motivazione
della pronuncia impugnata, non essendo sufficiente un generico rinvio
agli atti difensivi del pregresso giudizio di merito" - come nella
fattispecie - (v. Cass. 25/10/2004 n. 20700, Cass. 12/6/2006 n. 13556,
Cass. 26/2/2007 n. 4391, Cass. 10/8/2007 n. 17606, Cass. 3/8/2007 n.
17043).
Del pari inammissibile è la seconda
doglianza relativa alla mancata ammissione della CTU, in quanto, in base
all'indirizzo consolidato dettato da questa Corte, "la consulenza
tecnica d'ufficio è un mezzo istruttorio (e non una prova vera e
propria) sottratto alla disponibilità delle parti ed affidato al
prudente apprezzamento del giudice del merito, rientrando nel suo potere
discrezionale la valutazione di disporre la nomina dell'ausiliario
giudiziario e la motivazione dell'eventuale diniego può anche essere
implicitamente desumibile dal contesto generale delle argomentazioni
svolte e dalla valutazione del quadro probatorio unitariamente
considerato effettuata dal suddetto giudice" - come nella specie - (v.
fra le altre Cass. 2/3/2006 n. 4660, Cass. 5/7/2007 n. 15219, Cass.
6/5/2002 n. 6479).
Nè, infine, può essere accolta la terza doglianza, in quanto la valutazione equitativa della prestazione ex art. 432 c.p.c.
presuppone comunque la certezza del diritto (v. Cass. n. 5603/2002
sopra richiamata) e non può essere invocata al fine di determinare lo
stesso an del diritto controverso.
Così
respinto il ricorso principale, risulta, poi, infondato il ricorso
incidentale della società, con il quale quest'ultima, denunciando
violazione e falsa applicazione degli artt. 2109, 2095 e 2697 c.c.
e dell'art. 7 del ccnl citato, censurando il capo della sentenza di
appello che ha condannato la società a pagare al G. la indennità per
ferie non godute, che era stata negata dal giudice di primo grado, in
sostanza deduce che deve presumersi in capo al dirigente, "per il solo
fatto di ricoprire all'interno di un'azienda un ruolo di preminenza
gerarchica, un'ampia autonomia decisionale anche nello scegliere se e
quando godere delle ferie, con conseguente onere a suo carico di fornire
la prova contraria (ossia dimostrare la ricorrenza di obiettive ragioni
aziendali ostative a quel godimento)".
In
particolare, poi, la società afferma che il G. godeva di ampia autonomia
e discrezionalità di poteri, nell'esercizio delle sue mansioni di
direttore operazioni internazionali ed era libero di gestire anche il
periodo di ferie.
Osserva al riguardo il
Collegio che (a parte la inammissibilità della denuncia diretta di
violazione di una norma collettiva, nel regime anteriore al nuovo testo dell'art. 360 c.p.c.,
comma 1, n. 3) dal principio affermato da questa Corte - secondo cui
"il dirigente che, pur avendo il potere di attribuirsi il periodo di
ferie senza alcuna ingerenza del datore di lavoro, non eserciti il
potere medesimo e non usufruisca quindi del periodo di riposo annuale,
non ha il diritto all'indennità sostitutiva delle ferie non godute, a
meno che non provi la ricorrenza di necessità aziendali assolutamente
eccezionali ed obiettive ostative alla suddetta fruizione" (v. Cass.
7/6/2005 n. 11786, Cass. 27/8/1996 n. 7883) - non può desumersi affatto -
come ritiene la società - una presunzione, per tutti i dirigenti, di
piena autonomia decisionale nella scelta del "se e quando godere delle
ferie", essendo evidente che tale potere non spetta a tutti i dirigenti
in quanto tali.
Nella fattispecie, poi, la
sentenza impugnata ha accolto, sul punto, l'appello del G. rilevando che
"in effetti la convenuta, salvo un irrilevante accenno alla preferenza
del ricorrente di lavorare, per sua comodità, presso la sede spagnola
rispetto ad altre sedi estere, non ha mai dedotto una libera
determinazione e facoltà del G. di determinare egli stesso il periodo di
ferie (circostanza posta a base del rigetto nella sentenza di primo
grado)".
A fronte di tale decisione la censura
della società si risolve, quindi, in una contestazione del tutto
generica e inconsistente, in quanto la ricorrente incidentale neppure
indica se, con quale atto e in che termini abbia dedotto, nei giudizi di
merito, la circostanza della facoltà di libera autodeterminazione delle
ferie in capo al G..
In tal modo respinto
anche il ricorso incidentale della società, da ultimo, risulta assorbito
il ricorso incidentale condizionato, a sua volta proposto dal G.
(legittimato dall'interesse sopravvenuto a seguito del ricorso
incidentale della società - v. Cass. 7/5/1992 n. 5423, Cass. 28/1/2004
n. 1616), con il quale si denuncia la "omissione di pronuncia
preliminare sull'operatività e sull'applicazione, nella fattispecie,
dell'art. 7 del ccnl dirigenti industriali in data 27/4/1995 e dell'art. 2109 c.c., con violazione dell'art. 112 c.p.c.
e difetto di motivazione", espressamente soltanto "per la non creduta
ipotesi di accoglimento del ricorso incidentale della s.p.a. Pastificio
@@@@@@@ ".
Infine, in considerazione della soccombenza reciproca, ricorrono giusti motivi per compensare le spese tra le parti.
P.Q.M.
LA
CORTE Riunisce i ricorsi, rigetta il ricorso principale, rigetta il
ricorso incidentale della società, assorbito il ricorso incidentale
condizionato del G.; compensa le spese.
Così deciso in Roma, il 16 aprile 2009.
Depositato in Cancelleria il 16 giugno 2009
c.c. art. 1453
c.c. art. 2095
c.c. art. 2099
c.c. art. 2109
c.p.c. art. 183
c.p.c. art. 432
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