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lunedì 13 luglio 2015

Cassazione: Dirigenti quando spetta l'indennità sostitutiva delle ferie



 
LAVORO (RAPPORTO)   -   OBBLIGAZIONI E CONTRATTI
Cass. civ. Sez. lavoro, 16-06-2009, n. 13953
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO 15171/2006
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ROSELLI Federico - Presidente
Dott. DI NUBILA Vincenzo - Consigliere
Dott. IANNIELLO Antonio - Consigliere
Dott. NOBILE Vittorio - rel. Consigliere
Dott. MELIADO' Giuseppe - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
G.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FLAMINIA 195, presso lo studio dell'avvocato VACIRCA SERGIO, che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato PETRONIO LUCIANO GIORGIO, giusta mandato a margine del ricorso;
- ricorrente -
contro
PASTIFICIO @@@@@@@ S.P.A.;
- intimata -
sul ricorso 13035/2006 proposto da:
PASTIFICIO @@@@@@@ S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FLAMINIA 362, presso lo studio dell'avvocato TRANE PASQUALE, che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato ZILIOLI TITO, giusta mandato a margine del controricorso e ricorso incidentale;
- controricorrente e ricorrente incidentale -
contro
G.M.;
- intimato -
e sul ricorso 15171/2006 proposto da:
G.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FLAMINIA 195, presso lo studio dell'avvocato VACIRCA SERGIO, che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato PETRONIO LUCIANO GIORGIO, giusta mandato a margine del controricorso e ricorso incidentale;
- controricorrente e ricorrente incidentale rispetto a ricorso incidentale -
e contro
PASTIFICIO @@@@@@@ S.P.A.;
- intimata -
avverso la sentenza n. 196/2005 della CORTE D'APPELLO di VENEZIA, depositata il 17/03/2005 R.G.N. 76/02;
udita la relazione della causa svolta nella Udienza pubblica del 16/04/2009 dal Consigliere Dott. NOBILE Vittorio;
udito l'Avvocato PETRONIO LUCIANO GIORGIO;
udito l'Avvocato ZILIOLI TITO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SEPE Ennio Attilio, che ha concluso per l'accoglimento del ricorso principale per quanto di ragione, (primo motivo, assorbito il secondo), rigetto altri motivi; rigetto dell'incidentale, inammissibile l'incidentale all'incidentale o assorbito.

Fatto Diritto P.Q.M.

Svolgimento del processo

Con ricorso del 11/3/1999 G.M. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Verona la s.p.a. Pastificio @@@@@@@ esponendo: che era stato assunto con la qualifica di dirigente e mansioni di "direttore operazioni internazionali" dal 14/11/1995; che il contratto stipulato il (OMISSIS) prevedeva "un bonus basato su obiettivi di anno in anno concordati" e "per il 96 garantito in L. 50.000.000" netti "su base annua"; che il rapporto si era risolto in data 23/10/1997 per dimissioni con liquidazione dell'indennità sostitutiva del preavviso per il periodo 24/10/1997 - 15/12/1997.
Il ricorrente lamentava che il "bonus" non gli era stato riconosciuto per l'anno 1997 e che, previa liquidazione equitativa, di esso si doveva tener conto anche ai fini del calcolo del TFR. Precisava, inoltre, che aveva goduto di benefici aggiuntivi (alloggio, vitto e acquisto prodotti della convenuta presso lo spaccio aziendale a prezzi ridotti) per un valore medio complessivo di L. 880.000 mensili da considerare ai fini della riliquidazione dell'indennità di preavviso e del TFR, della retribuzione feriale e dell'indennità sostitutiva delle ferie non godute. Chiedeva, infine, la corresponsione delle differenze retributive relative alle ferie non godute e concludeva per la condanna della società convenuta al pagamento in suo favore della somma indicata.
La società si costituiva, eccependo la improcedibilità della domanda e contestando, nel merito, la fondatezza della stessa, precisando che il bonus non era un elemento costante ma accessorio della retribuzione; che i benefici aggiuntivi pure non rientravano nella retribuzione e, pertanto, non dovevano essere computati ai fini della determinazione degli istituti dei quali era richiesto il ricalcolo; che il numero di giorni di ferie maturati e non goduti era inferiore a quello effettuato dal ricorrente.
In via riconvenzionale, la società chiedeva la condanna del ricorrente al risarcimento del danno, da liquidarsi equitativamente in L. 50.000.000, causato dal colposo comportamento del ricorrente che ave va impedito il tempestivo recupero di un credito.
Il Giudice del lavoro del Tribunale di Verona, con sentenza n. 627/2000, rigettava tutte le domande del G. nonchè la riconvenzionale della società.
Avverso la detta sentenza il G. proponeva appello, chiedendo l'accoglimento delle domande.
La società Pastificio @@@@@@@ resisteva al gravame di controparte e proponeva appello incidentale, per sentire accogliere la domanda riconvenzionale rigettata in primo grado.
Il G. replicava all'appello incidentale, chiedendone la declaratoria di inammissibilità per genericità e, in ogni caso, il rigetto.
La Corte d'appello di Venezia, con sentenza depositata il 17/3/2005, in parziale accoglimento dell'appello principale condannava la società a corrispondere al G. la somma in Euro pari a L. 9.410.012, oltre interessi legali previa rivalutazione ex art. 429 c.p.c. e 151 disp. att. c.p.c. dal dovuto all'effettivo saldo; rigettava l'appello incidentale e compensava le spese di entrambi i gradi.
In sintesi la Corte territoriale, per quanto riguardava il bonus, riteneva che la clausola contrattuale si presentava "con un oggetto indeterminato tale da determinarne la nullità o, al più, la sua interpretazione come istitutiva di un obbligo a trattare".
Rilevava, inoltre, che la domanda di risarcimento del danno "per mancata conclusione del previsto accordo per la determinazione degli obiettivi e del compenso" non era stata formulata nel giudizio di primo grado.
Per quanto riguardava, altresì, le richieste di incidenza, in vari istituti, "di quanto corrisposto a titolo di vitto ed alloggio per i giorni lavorativi del ricorrente in sede e da quest'ultimo risparmiato per acquisti a prezzi ridotti presso lo spaccio aziendale", la Corte d'appello escludeva la natura retributiva di tali voci.
La Corte di merito accoglieva, invece, la domanda relativa alle ferie non godute, rilevando che la società non aveva mai dedotto una libera determinazione e facoltà del G. di determinare egli stesso il periodo delle ferie (circostanza posta a base del rigetto nella sentenza di primo grado).
Infine la Corte territoriale riteneva infondata la domanda riconvenzionale, per motivi diversi rispetto a quelli di cui alla sentenza appellata.
Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso il G. con cinque motivi.
La s.p.a. Pastificio @@@@@@@ ha resistito con controricorso ed ha proposto ricorso incidentale con un unico motivo.
Il G., a sua volta, ha resistito con controricorso al ricorso incidentale della società ed ha avanzato ulteriore ricorso incidentale, con unico motivo, condizionato all'accoglimento del ricorso incidentale della società.
Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

Preliminarmente vanno riuniti i ricorsi avverso la stessa sentenza ex art. 335 c.p.c..
Premesso che nella fattispecie non trova applicazione l'art. 366 bis c.p.c., trattandosi di ricorso avverso sentenza pubblicata (in data 17/3/2005) anteriormente all'entrata in vigore del D.Lgs. n. 40 del 2006, il Collegio rileva che con il primo motivo del ricorso principale il G., denuncia vizio di motivazione, violazione dell'art. 1362 c.c. e segg. nonchè violazione degli artt. 1175, 1226, 1346, 1365, 1366, 1367, 1374, 1375 e 2099 c.c. e l'art. 432 c.p.c..
In particolare il ricorrente sostiene che "non si può dedurre la non obbligatorietà di un compenso contrattualmente previsto dal fatto che non siano fissati, in modo preciso, i criteri da seguire per addivenire alla sua determinazione e questi possano essere diversi", in quanto tale mancanza "significa soltanto che si è inteso affidare al futuro comportamento delle parti, rispettoso delle regole della buona fede (art. 1175 c.c.), la detta determinazione dei criteri relativi al quantum, e quindi la misura concreta della prestazione (con conseguente possibilità che venga ad operare la disposizione di cui all'art. 1374 c.c., e quindi che, in assenza di una intesa dei soggetti contrattuali, sia il Giudice, esercitando la equità integrativa prevista dalla norma e scegliendo fra tutti i criteri in astratto possibili da applicare, a definire la misura concreta della prestazione dovuta)".
In sostanza, secondo la ricorrente, interpretando correttamente la clausola contrattuale de qua in base ai canoni ermeneutici, la Corte d'Appello avrebbe dovuto constatare che "il bonus era stato previsto come obbligatorio" anche per gli anni successivi al 1996, di guisa che ben avrebbe potuto essere determinato nel quantum ai sensi sia dell'art. 2099 c.c. sia dell'art. 432 c.p.c. (per cui erronea era la affermazione della nullità della relativa clausola ex art. 1346 c.c.).
In sintesi, quindi, la Corte territoriale "una volta, correttamente, riconosciuto che la volontà delle parti era nel senso che ogni anno dovesse essere riconosciuto un bonus, avrebbe dovuto, invece affermare che, mancato, per il 1997, l'accordo delle parti sulla misura del bonus, questa avrebbe potuto e dovuto essere determinata dal Giudice in applicazione delle norme richiamate".
Il motivo non merita accoglimento, in quanto, da un lato, la premessa è chiaramente esclusa dalla interpretazione della clausola contrattuale affermata nell'impugnata sentenza, che resiste alla censura del ricorrente e, dall'altro, la Corte di merito, a fronte della detta interpretazione, legittimamente ha escluso la possibilità, nella fattispecie, del ricorso ai criteri integrativi invocati dal G. sotto diversi profili.
Come questa Corte ha più volte affermato "l'interpretazione del contratto e degli atti di autonomia privata costituisce una attività riservata al giudice di merito, ed è censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale ovvero per vizi di motivazione, qualora la stessa risulti contraria a logica o incongrua, cioè tale da non consentire il controllo del procedimento logico seguito per giungere alla decisione. Ai fini della censura di violazione dei canoni ermeneutici, non è peraltro sufficiente l'astratto riferimento alle regole legali di interpretazione, ma è necessaria la specificazione dei canoni in concreto violati, con la precisazione del modo e delle considerazioni attraverso i quali il giudice se ne è discostato, nonchè, in ossequio al principio di specificità ed autosufficienza del ricorso, con la trascrizione del testo integrale della regolamentazione pattizia del rapporto o della parte in contestazione, ancorchè la sentenza abbia fatto ad essa riferimento, riproducendone solo in parte il contenuto, qualora ciò non consenta una sicura ricostruzione del diverso significato che ad essa il ricorrente pretenda di attribuire. La denuncia del vizio di motivazione dev'essere invece effettuata mediante la precisa indicazione delle lacune argomentative, ovvero delle illogicità consistenti nell'attribuzione agli elementi di giudizio di un significato estraneo al senso comune, oppure con l'indicazione dei punti inficiati da mancanza di coerenza logica, e cioè connotati da un'assoluta incompatibilità razionale degli argomenti, sempre che questi vizi emergano appunto dal ragionamento logico svolto dal giudice del merito, quale risulta dalla sentenza. In ogni caso, per sottrarsi al sindacato di legittimità, non è necessario che quella data dal giudice sia l'unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, sicchè, quando di una clausola siano possibili due o più interpretazioni, non è consentito alla parte, che aveva proposto l'interpretazione disattesa dal giudice, dolersi in sede di legittimità del fatto che ne sia stata privilegiata un'altra" (v. Cass. sez. 1^ 22/2/2007 n. 4178, Cass. sez. 1^ 7/3/2007 n. 5273, Cass. sez. 3^ 12/7/2007 n. 15604).
Nella specie la Corte territoriale ha espressamente escluso che la clausola contrattuale in contestazione potesse "interpretarsi nel senso della previsione dell'obbligatorietà della corresponsione, con possibile sua determinazione in sede giudiziale ai sensi di quanto previsto o dall'art. 2099 c.c., o dall'art. 432 c.p.c. o, ancora, dall'art. 1374 c.c.".
Al riguardo la Corte di merito, premesso che la detta clausola "ha come suo elemento necessario, oltre l'entità del compenso (suscettibile, eventualmente, di determinazione in sede giudiziale) anche l'individuazione del tipo degli obiettivi e della loro entità, che non possono essere certo stabiliti in questa sede", ha rilevato che "contrariamente a quanto dato per scontato dall'appellante, gli obiettivi possono essere di diversa tipologia e, specie in contratto di dipendente con qualifica dirigenziale dotato di potere di spese, individuabili, per esempio... nel fatturato o negli utili; di conseguenza, la clausola si presenta con un oggetto indeterminato tale da determinarne la nullità ai sensi dell'art. 1346 c.c. o, al più, la sua interpretazione come istitutiva di un obbligo a trattare".
In tal modo, quindi, la Corte ha chiaramente escluso che le parti, per gli anni successivi al 1996, abbiano concluso un accordo sugli elementi necessari: non solo in ordine alla determinazione dei criteri per la quantificazione del compenso de quo, bensì anche in relazione alla individuazione del tipo e della entità degli obiettivi richiesti per la spettanza stessa del compenso medesimo (al riguardo configurando, nella fattispecie, al più, la pattuizione di un "obbligo a trattare").
Tale decisione, sorretta da motivazione congrua e priva di vizi logici, resiste alla censura del ricorrente, che, in sostanza (seppure "autosufficiente", in quanto riporta il contenuto della lettera - contratto) si risolve nella mera riproposizione della diversa interpretazione della clausola contrattuale, disattesa dalla Corte territoriale (sull'accertamento della presenza dei requisiti necessari per una sicura identificazione dell'oggetto del contratto, riservato al giudice del merito e soggetto al sindacato della Cassazione solo sotto il profilo della logicità e congruità della motivazione v. fra le altre Cass. 11/4/1992 n. 4474; sulla irrilevanza della mera contrapposizione di una diversa interpretazione rispetto a quella criticata, ai fini della denuncia di violazione di regole ermeneutiche e di vizio di motivazione, v. fra le altre Cass. 18/3/2001 n. 11078).
Del resto, in mancanza degli elementi essenziali per la definizione dell'an stesso del diritto al bonus de quo (per la evidenziata indeterminatezza assoluta degli obiettivi, che "di anno in anno" si sarebbero dovuti concordare), legittimamente la Corte di merito ha escluso che, nella fattispecie, a tale mancanza si potesse sopperire con i rimedi integrativi invocati dal G..
Come questa Corte ha più volte affermato "i principi di correttezza e buona fede - di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. - non creano obbligazioni: autonome in capo al datore di lavoro, bensì rilevano "come norme di relazione; con funzione di fonti integrative del contratto (art. 1374 c.c.) ove ineriscano a comportamenti dovuti in relazione ad obblighi di prestazione imposti dal contratto collettivo o da altro atto di autonomia privata" (v. Cass. 10/4/1996 n. 3351, Cass. 21/5/1998 n. 5091, Cass. 18/5/1999 n. 4818, Cass. 7/7/1999 n. 7082, Cass. 29/3/2000 n. 3840, Cass. 14/9/2000 n. 12140, v. anche Cass. 24/10/1995 n. 11051), ed in specie "o come modalità di generico comportamento delle parti ai fini della concreta realizzazione delle rispettive posizioni di diritti ed obblighi, oppure come comportamento dovuto in relazione a specifici obblighi di prestazione" (v. Cass. S.U. 29/5/1993 n. 6031, Cass. 25/1/1996 n. 557, Cass. 29/5/1998 n. 5357, Cass. 13/5/2004 n. 9141).
La violazione di tali principi, quindi, "si configura solo nell'ipotesi in cui vengano lesi diritti soggettivi già riconosciuti in base a norme di legge, riguardando le modalità di adempimento degli obblighi a tali diritti correlati. Le stesse regole non valgono, invece, a configurare obblighi aggiuntivi che non trovino, ai sensi dell'art. 1173 c.c. la loro fonte nel contratto, nel fatto illecito o in ogni altro atto o fatto idoneo a produrlo in conformità dell'ordinamento giuridico" (v. Cass. 29/3/2007 n. 7731, Cass. 9/3/2005 n. 5140).
Peraltro, una volta escluso (con accertamento di fatto del giudice del merito, come sopra congruamente motivato) l'obbligo del datore alla corresponsione del compenso aggiuntivo de quo (per il 1997, in mancanza di qualsiasi determinazione degli obiettivi condizionanti la spettanza stessa del compenso), il lavoratore non può invocare la determinazione da parte del giudice ex art. 2099 c.c., la quale comunque presuppone la esistenza del diritto all'elemento retributivo ulteriore de quo.
Del pari, poi, legittimamente la Corte territoriale ha escluso la possibilità del ricorso all'art. 432 c.p.c., in quanto, come questa Corte ha più volte precisato, "la valutazione equitativa della prestazione, rimessa al giudice del lavoro dall'art. 432 c.p.c., ha per oggetto il valore economico di questa e non la determinazione in ordine alla sua esistenza, esigendo la norma che sia certo il diritto e non sia possibile determinare la somma dovuta" (v. fra le altre Cass. 18/4/2002 n. 5603).
Del resto la giurisprudenza di questa Corte richiamata dal ricorrente a sostegno della applicabilità dei mezzi integrativi invocati riguarda, pur sempre, diverse fattispecie nelle quali il diritto al compenso aggiuntivo era certo, ovvero determinato nell'an, riguardando la integrazione o la determinazione giudiziale soltanto la misura del diritto stesso.
Con il secondo motivo del ricorso principale il G., denunciando violazione degli artt. 112, 420, 434 e 437 c.p.c., in sostanza lamenta che erroneamente la Corte territoriale ha ritenuto di non poter accogliere la domanda come "risarcimento del danno per l'intervenuta violazione, da parte della s.p.a. Pastificio @@@@@@@, del suo obbligo di addivenire alla determinazione del bonus e dei suoi criteri", ed all'uopo, rileva che avendo egli dedotto, già nel ricorso introduttivo (punto 4), di aver "per il 1997 più volte invitato il sig. R.G., direttore generale della società, a provvedere a concordare l'obiettivo da raggiungere per quell'anno e il corrispondente bonus", in sostanza, "l'inquadramento dell'azione proposta in uno schema risarcitorio" rientrava "nel potere riservato al giudice del merito, di qualificare giuridicamente la domanda sulla base dei fatti dedotti dalla parte".
Il motivo è infondato.
Come questa Corte ha più volte affermato "il potere - dovere del giudice di qualificare giuridicamente l'azione e di attribuire il "nomen juris" al rapporto giuridico sostanziale dedotto in giudizio, anche in difformità rispetto alle deduzioni delle parti, trova un limite - la cui violazione determina il vizio di ultrapetizione - nel divieto di sostituire l'azione proposta con una diversa, perchè fondata su fatti diversi o su una diversa "causa petendi", con la conseguente introduzione di un diverso titolo accanto a quello posto a fondamento della domanda, e di un nuovo tema di indagine" (v. Cass. 20/11/1998 n. 11753, Cass. 15/5/2001 n. 6712).
Costituisce, quindi, "domanda nuova, improponibile in appello, la deduzione di una nuova "causa petendi", che comporti, attraverso la prospettazione di nuove circostanze o situazioni giuridiche, il mutamento dei fatti costitutivi del diritto fatto valere in giudizio e l'introduzione nel processo di un nuovo tema di indagine e di decisione, alterando l'oggetto sostanziale dell'azione ed i termini della controversia" (v. Cass. 19/8/2003 n. 12133).
Peraltro, in particolare, è stato anche precisato che "l'art. 1453 c.c., comma 2 deroga alle norme processuali che vietano la mutatio libelli nel corso del processo nel senso di consentire la sostituzione della domanda di adempimento del contratto con quella di risoluzione per inadempimento, non già anche con quella di risarcimento del danno (fatto salvo in ogni caso dal comma 1), la quale integra un'azione del tutto diversa per petitum, dalle altre due, con la conseguenza che urta contro tale divieto, e quindi è inammissibile, la domanda risarcitoria introdotta in corso di causa, in luogo di quella (iniziale) di adempimento" (in tal senso v. Cass. 27/3/2004 n. 6161; sulla insostituibilità della domanda di risoluzione per inadempimento a quella originaria di risarcimento del danno cfr. Cass. 27/7/2006 n. 17144, Cass. 26/4/1999 n. 4164, Cass. 9/4/1998 n. 3680; sulla novità della domanda di adempimento a titolo di retribuzione rispetto alla originaria domanda di risarcimento del danno cfr. Cass. 21/1/1967 n. 196).
Orbene, in conformità con tali principi, la Corte di merito, legittimamente - pur considerando la deduzione della circostanza evidenziata dall'appellante, di cui al punto 4 del ricorso di primo grado - ha rilevato che la domanda risarcitoria non era stata formulata nel giudizio di primo grado e non poteva ritenersi esaminabile in appello, "essendo formulata, quantomeno con una diversa causa petendi, individuabile, in un caso, nel mancato adempimento di un obbligo contrattuale di corrispondere un compenso retributivo e, nell'altro, nel risarcimento del danno per mancata conclusione di un obbligo a trattare e concludere accordo", in tal modo correttamente fondando la diversità e novità della azione risarcitoria sulla diversità della causa petendi, intesa anche come diversità dei fatti costitutivi del diritto fatto valere e del tema di indagine e di decisione.
Con il terzo motivo del ricorso principale il G., denunciando violazione dell'art. 416 c.p.c., premesso che, in relazione ai "vantaggi realizzati negli acquisti allo spaccio aziendale", con l'appello aveva evidenziato che "la contestazione del Pastificio @@@@@@@ aveva riguardato solo i profili di diritto (la natura retributiva di tale vantaggi; l'includibilità del suo controvalore nella base di calcolo delle altre erogazioni, e in specie del preavviso e del TFR) non anche la misura del controvalore, come indicato dal ricorrente", lamenta che erroneamente la Corte territoriale avrebbe ritenuto che tutto deve intendersi contestato da parte del Pastificio @@@@@@@, anche il quantum e le relative circostanze.
Il motivo è inconferente e non coglie nel segno la impugnata decisione, la quale, con riferimento a quanto risparmiato dal G. per acquisti a prezzi ridotti presso lo spaccio aziendale (così come per quanto corrisposto a titolo di vitto ed alloggio per i giorni lavorativi in sede) ha semplicemente rilevato che la società "ha sempre contestato la natura retributiva di tali voci". Condividendo, infatti, tale tesi difensiva della appellata, in base alle argomentazioni svolte (come appresso censurate con il quarto e con il quinto motivo), la Corte d'Appello ha respinto il relativo motivo di appello avanzato dal G. (senza che al riguardo potesse assumere alcun rilievo il quantum di risparmio medio mensile indicato dal ricorrente - seppure non specificamente contestato -).
Con il quarto motivo il ricorrente principale, denunciando vizio di motivazione e violazione dell'art. 2099 c.c., D.L. n. 333 del 1992, art. 3 conv. con L. n. 359 del 1992, art. 115 c.p.c., artt. 1182, 2109, 2118, 2120, 2121 c.c., artt. 416 e 420 c.p.c., nonchè dell'art. 1362 c.c. e segg. in relazione all'art. 24 del ccnl dirigenti industriali 27/4/95, in sostanza lamenta che erroneamente la Corte territoriale avrebbe escluso la natura retributiva di quanto corrispostogli "a titolo di vitto e alloggio per i giorni lavorativi del ricorrente in sede, conseguentemente escludendo che del relativo controvalore dovesse tenersi conto ai fini del calcolo di quanto dovuto al lavoratore per retribuzione del periodo feriale, indennità sostitutiva delle ferie non godute e del preavviso e TFR".
Premesso che l'accertamento da parte del giudice del merito della natura retributiva, risarcitoria o mista dei trattamenti aggiuntivi come quelli in esame, costituisce giudizio di fatto che, se congruamente motivato, non è censurabile in questa sede di legittimità (cfr. fra le altre Cass. 19/2/2004 n. 3278, Cass. 10/11/2003 n. 16852, Cass. 3/11/2000 n. 14388) e considerata anche la natura, "ontologicamente non retributiva" del servizio mensa (cfr. Cass. S.U. 1/4/1993 n. 3888, Cass. 21/1/1994 n. 581, Cass. 14/11/2001 n. 14198), il motivo non merita accoglimento.
Al riguardo, sul punto, la sentenza impugnata (atteso che il ricorrente, ha semplicemente indicato il numero dei giorni in cui ha alloggiato in albergo a spese della società nonchè l'importo medio mensile sia per il vitto che per l'alloggio, nulla allegando di preciso sulle caratteristiche dei trattamenti de quibus) ha accertato "che le spese dell'albergo erano pagate direttamente dalla società e le spese dei pasti erano rimborsate in base alle relative ricevute presentate dal ricorrente, con assimilazione nel secondo caso ad un servizio sostitutivo di mensa interna" ed ha concluso che "tali caratteristiche, a prescindere dalla ricorrenza dell'elemento della continuità (non desumibile dal solo dato numerico in mancanza di ulteriori specificazioni sugli accordi), inducono a ritenere che i relativi esborsi, come da qualificazione delle parti durante il rapporto, siano avvenuti a titolo di rimborso spese”.
Tale decisione, esente da errori di diritto e congruamente motivata, resiste alla censura del ricorrente principale, che, in sostanza, propone dinanzi a questa Corte una revisione del "ragionamento decisorio" che ha condotto il giudice al giudizio di fatto de quo, sollecitando, quindi, un inammissibile riesame del merito (v. fra le altre, da ultimo Cass. 7/6/2005 n. 11789, Cass. 6/3/2006 n. 4766). Del resto anche la denunciata violazione dell'art. 115 c.p.c. è apprezzabile, in sede di ricorso per Cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cui all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, e deve emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità" (v. fra le altre Cass. sez. 1^ 20/6/2006 n. 14267).
Del pari non può essere accolta la censura rivolta all'interpretazione dell'art. 24 del ccnl affermata dalla Corte di Appello, la quale, proprio in base al dato letterale e a quello sistematico invocati dal ricorrente, ha ritenuto che la inclusione, nella base di computo del TFR, dell'equivalente del vitto e dell'alloggio eventualmente dovuti al dirigente "nella misura convenzionalmente concordata", avvalorasse la tesi del riferimento delle parti collettive al compenso per vitto e alloggio, appunto, "convenzionalmente concordato", e non ai veri e propri rimborsi spese, come tali erogati, volta per volta, a tale titolo dal datore di lavoro e privi di natura retributiva.
Parimenti, poi, non può accogliersi il quinto motivo, con il quale il ricorrente principale, denunciando vizio di motivazione e violazione degli artt. 2099, 2109, 2118, 2120 e 2120 c.c., degli artt. 115, 416, 420, 432 c.p.c. nonchè dell'art. 7 del citato ccnl, censura la esclusione della natura retributiva dei risparmi realizzati dal G. effettuando acquisti a prezzi ridotti presso lo spaccio aziendale.
A parte la inammissibilità della denuncia diretta di violazione di una norma collettiva, nel regime anteriore al D.Lgs. n. 40 del 2006 e al nuovo testo dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, osserva il Collegio che sul punto la decisione della Corte territoriale, fondata sulla mancata allegazione degli elementi necessari per ritenere la natura retributiva della voce relativa (semplicemente indicata come importo medio mensile di risparmi per acquisti di prodotti aziendali), resiste alla censura del ricorrente principale per le medesime ragioni svolte con riguardo al quarto motivo.
Peraltro il ricorrente principale, sul punto, lamenta altresì la mancata ammissione della prova per testi "dedotta dall'attore sul cap. 11/c del ricorso introduttivo", il mancato accoglimento delle altre istanze ed in specie della CTU sulla contabilità aziendale e sui coupons consegnati all'attore per l'acquisto di prodotti della società, nonchè il mancato ricorso ad una valutazione equitativa ex art. 432 c.p.c..
La prima di tali doglianze è inammissibile, in quanto in sede di ricorso per Cassazione "la parte che addebiti a vizio della sentenza impugnata la mancata ammissione di prove testimoniali richieste nel giudizio di merito, ha l'onere, se non di trascrivere nell'atto di impugnazione i relativi capitoli, almeno di indicare in modo esaustivo le circostanze di fatto che formavano oggetto della disattesa istanza istruttoria, in quanto il detto ricorso deve risultare autosufficiente e, quindi, contenere in sè tutti gli elementi che diano al giudice di legittimità la possibilità di provvedere al diretto controllo della decisività dei punti controversi, e della correttezza e sufficienza della motivazione della pronuncia impugnata, non essendo sufficiente un generico rinvio agli atti difensivi del pregresso giudizio di merito" - come nella fattispecie - (v. Cass. 25/10/2004 n. 20700, Cass. 12/6/2006 n. 13556, Cass. 26/2/2007 n. 4391, Cass. 10/8/2007 n. 17606, Cass. 3/8/2007 n. 17043).
Del pari inammissibile è la seconda doglianza relativa alla mancata ammissione della CTU, in quanto, in base all'indirizzo consolidato dettato da questa Corte, "la consulenza tecnica d'ufficio è un mezzo istruttorio (e non una prova vera e propria) sottratto alla disponibilità delle parti ed affidato al prudente apprezzamento del giudice del merito, rientrando nel suo potere discrezionale la valutazione di disporre la nomina dell'ausiliario giudiziario e la motivazione dell'eventuale diniego può anche essere implicitamente desumibile dal contesto generale delle argomentazioni svolte e dalla valutazione del quadro probatorio unitariamente considerato effettuata dal suddetto giudice" - come nella specie - (v. fra le altre Cass. 2/3/2006 n. 4660, Cass. 5/7/2007 n. 15219, Cass. 6/5/2002 n. 6479).
Nè, infine, può essere accolta la terza doglianza, in quanto la valutazione equitativa della prestazione ex art. 432 c.p.c. presuppone comunque la certezza del diritto (v. Cass. n. 5603/2002 sopra richiamata) e non può essere invocata al fine di determinare lo stesso an del diritto controverso.
Così respinto il ricorso principale, risulta, poi, infondato il ricorso incidentale della società, con il quale quest'ultima, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 2109, 2095 e 2697 c.c. e dell'art. 7 del ccnl citato, censurando il capo della sentenza di appello che ha condannato la società a pagare al G. la indennità per ferie non godute, che era stata negata dal giudice di primo grado, in sostanza deduce che deve presumersi in capo al dirigente, "per il solo fatto di ricoprire all'interno di un'azienda un ruolo di preminenza gerarchica, un'ampia autonomia decisionale anche nello scegliere se e quando godere delle ferie, con conseguente onere a suo carico di fornire la prova contraria (ossia dimostrare la ricorrenza di obiettive ragioni aziendali ostative a quel godimento)".
In particolare, poi, la società afferma che il G. godeva di ampia autonomia e discrezionalità di poteri, nell'esercizio delle sue mansioni di direttore operazioni internazionali ed era libero di gestire anche il periodo di ferie.
Osserva al riguardo il Collegio che (a parte la inammissibilità della denuncia diretta di violazione di una norma collettiva, nel regime anteriore al nuovo testo dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) dal principio affermato da questa Corte - secondo cui "il dirigente che, pur avendo il potere di attribuirsi il periodo di ferie senza alcuna ingerenza del datore di lavoro, non eserciti il potere medesimo e non usufruisca quindi del periodo di riposo annuale, non ha il diritto all'indennità sostitutiva delle ferie non godute, a meno che non provi la ricorrenza di necessità aziendali assolutamente eccezionali ed obiettive ostative alla suddetta fruizione" (v. Cass. 7/6/2005 n. 11786, Cass. 27/8/1996 n. 7883) - non può desumersi affatto - come ritiene la società - una presunzione, per tutti i dirigenti, di piena autonomia decisionale nella scelta del "se e quando godere delle ferie", essendo evidente che tale potere non spetta a tutti i dirigenti in quanto tali.
Nella fattispecie, poi, la sentenza impugnata ha accolto, sul punto, l'appello del G. rilevando che "in effetti la convenuta, salvo un irrilevante accenno alla preferenza del ricorrente di lavorare, per sua comodità, presso la sede spagnola rispetto ad altre sedi estere, non ha mai dedotto una libera determinazione e facoltà del G. di determinare egli stesso il periodo di ferie (circostanza posta a base del rigetto nella sentenza di primo grado)".
A fronte di tale decisione la censura della società si risolve, quindi, in una contestazione del tutto generica e inconsistente, in quanto la ricorrente incidentale neppure indica se, con quale atto e in che termini abbia dedotto, nei giudizi di merito, la circostanza della facoltà di libera autodeterminazione delle ferie in capo al G..
In tal modo respinto anche il ricorso incidentale della società, da ultimo, risulta assorbito il ricorso incidentale condizionato, a sua volta proposto dal G. (legittimato dall'interesse sopravvenuto a seguito del ricorso incidentale della società - v. Cass. 7/5/1992 n. 5423, Cass. 28/1/2004 n. 1616), con il quale si denuncia la "omissione di pronuncia preliminare sull'operatività e sull'applicazione, nella fattispecie, dell'art. 7 del ccnl dirigenti industriali in data 27/4/1995 e dell'art. 2109 c.c., con violazione dell'art. 112 c.p.c. e difetto di motivazione", espressamente soltanto "per la non creduta ipotesi di accoglimento del ricorso incidentale della s.p.a. Pastificio @@@@@@@ ".
Infine, in considerazione della soccombenza reciproca, ricorrono giusti motivi per compensare le spese tra le parti.

P.Q.M.

LA CORTE Riunisce i ricorsi, rigetta il ricorso principale, rigetta il ricorso incidentale della società, assorbito il ricorso incidentale condizionato del G.; compensa le spese.
Così deciso in Roma, il 16 aprile 2009.
Depositato in Cancelleria il 16 giugno 2009

c.c. art. 1453
c.c. art. 2095
c.c. art. 2099
c.c. art. 2109
c.p.c. art. 183
c.p.c. art. 432 

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