Va licenziato l'impiegato comunale che commette falso ideologico nell'esercizio delle sue funzioni |
Ma la sanzione espulsiva non è automatica perché è preceduta da un giudizio disciplinare in cui il giudice deve attenersi ai criteri di gradualità, proporzionalità e adeguatezza, secondo una valutazione autonoma rispetto a quella fatta in sede penale |
(Sezione lavoro, sentenza n. 22116/09; depositata il 19 ottobre) |
LAVORO (RAPPORTO)
Cass. civ. Sez. lavoro, 19-10-2009, n. 22116
Cass. civ. Sez. lavoro, 19-10-2009, n. 22116
Svolgimento del processo
Con
sentenza del 4 maggio 2007 la Corte d'appello di Napoli confermava la
decisione, emessa dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, di rigetto
della domanda proposta da S.E. contro il Comune di Casapulla onde
ottenere la dichiarazione di nullità del licenziamento, intimatogli a
seguito di una sentenza penale di condanna ad un anno di reclusione per
il delitto di falso ideologico commesso nell'esercizio della funzione di
tecnico del medesimo Comune.
La Corte
d'appello interpretava l'art. 41, comma 2, c.c.n.l. del 6 luglio 1995,
statuente, per le infrazioni disciplinari commesse prima della sua
entrata in vigore, l'applicazione della sanzione contrattuale, se più
favorevole di quella comminata dal D.P.R. n. 3 del 1957, art. 78, o della L. n. 19 del 1990,
nel senso che esso potesse applicarsi solo nei casi in cui le due
sanzioni, contrattuale e legale, fossero di gravità diversa, dovendo
così valere favor rei. Nella specie, tuttavia, trattandosi di illecito,
disciplinare e penale, commesso in servizio e contrario al dovere di
fedeltà al datore di lavoro, le sanzioni - della destituzione, prevista
dalla norma legale, e del licenziamento, prevista dalla norma
contrattuale - erano equivalenti onde esattamente il Tribunale aveva
ritenuto legittimo il licenziamento.
Contro
questa sentenza ricorre per cassazione il S. mentre il Comune di
Casapulla resiste con controricorso; ulteriormente illustrato da
memoria.
Motivi della decisione
Col
primo motivo il ricorrente lamenta la violazione dell'art. 41 c.c.n.l. 6
luglio 1995 per il comparto regioni ed autonomie locali, artt. 1362, 1322 cod. civ.
e vizi di motivazione, per avere la Corte d'appello ritenuto legittima
la sanzione del licenziamento, prevista per l'illecito in questione dal
medesimo contratto, pur non essendo essa più favorevole di quella
comminata dal precedente regime legislativo, costituito dal D.P.R. n. 3 del 1957 e dalla L. n. 19 del 1990.
Il motivo è inammissibile per difetto di interesse.
La
Corte d'appello ha ritenuto che l'art. 41 cit. imponesse, per gli
illeciti commessi prima dell'entrata in vigore del c.c.n.l., un giudizio
di comparazione fra la sanzione disciplinare prevista nello stesso
contratto collettivo e la sanzione prevista nel precedente regime
legislativo, e permettesse la sola inflizione della sanzione più
favorevole. Ciò premesso ed effettuata la comparazione, la Corte ha
constatato l'"assoluta e totale" equivalenza tra le due sanzioni
(destituzione e licenziamento) ed ha ritenuto perciò legittima
l'inflizione del licenziamento.
Non dice ora
il ricorrente quale interesse egli avesse ad essere espulso dal lavoro
per destituzione invece che per licenziamento.
Col secondo motivo egli deduce la violazione del D.P.R. 10 gennaio 1957. n. 3, artt. 78 e 85, art. 25 c.c.n.l. cit., art. 1362 cod. civ., artt. 3, 4, 35 e 97 Cost.
e vizi di motivazione, sostenendo che la sanzione della destituzione,
prevista nel D.P.R. cit., presupponeva un concreto giudizio, in sede di
procedimento disciplinare, di gradualità, proporzionalità ed adeguatezza
rispetto al fatto contestato ed ancorchè punito in sede penale, mentre
la sanzione del licenziamento, prevista nel c.c.n.l. cit., era
conseguente automaticamente alla sentenza penale di condanna, con Ila
conseguente diminuzione delle garanzie difensive dell'incolpato.
Il
motivo è inammissibile per difetto del suo stesso presupposto, ossia
perchè la sanzione del licenziamento, prevista nel contratto per il caso
di condanna penale, non è automatica ma dev'essere preceduta da
giudizio disciplinare, nel quale il giudice deve attenersi ai suddetti
criteri di gradualità, ossia proporzionalità, ed adeguatezza, secondo
una valutazione autonoma rispetto a quella del giudice penale.
Nè
il ricorrente dice ora quali difese gli siano state impedite in sede
disciplinare e nel successivo processo civile di merito, durato sei anni
e mezzo.
Col terzo motivo egli prospetta la violazione degli artt. 24 e 111 Cost.
vizi di motivazione, parlando di incidenza negativa sul diritto di
difesa e di principio di separazione tra giurisdizione e
amministrazione, senza fornire le necessarie precisazioni e incorrendo
perciò nell'inammissibilità della censura per genericità ossia per
inosservanza dell'art. 366 c.p.c., n. 4.
Rigettato il ricorso, le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La
Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle
spese processuali in Euro 17,00 oltre ad Euro duemila per onorario, più
spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 7 ottobre 2009.
Depositato in Cancelleria il 19 ottobre 2009
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