Il materiale pedopornografico reperito dalla polizia tramite il mezzo della "condivisione" senza alcuna autorizzazione dell'autorità giudiziaria è utilizzabile |
(Sezione terza, sentenza n. 41743/09; depositata il 30 ottobre) |
Cass. pen. Sez. III, (ud. 06-10-2009) 30-10-2009, n. 41743
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
OSSERVA
1)
Con sentenza del 12.2.2007 il Tribunale di Brescia, in composizione
monocratica, condannava R.F., previo riconoscimento delle circostanze
attenuanti generiche, alla pena di anni due di reclusione ed Euro
4.000,00 di multa per il reato di cui all'art. 600 ter c.p., comma 3
"perchè, utilizzando un programma winmx, distribuiva o comunque
divulgava per via telematica materiale prodotto dallo sfruttamento
sessuale di minori degli anni diciotto ed in particolare n. 4 files
relativi ad immagini a carattere pedopornografico" (capo a) e per il
reato di cui all'art. 600 quater c.p. "perchè consapevolmente si
procurava materiale prodotto mediante lo sfruttamento sessuale di minori
degli anni diciotto ed in particolare deteneva n. 500 files contenenti
immagini e filmati a carattere pedopornografico sull'hard disck del
proprio p.c." (capo b), unificati sotto il vincolo della continuazione.
La
Corte di Appello di Brescia, con sentenza dell'11.11.2008, in parziale
riforma della sentenza del Tribunale, impugnata dall'imputato, assolveva
il R. dal reato di cui al capo b) perchè il fatto non sussiste,
riducendo la pena inflitta in primo grado ad anni uno e mesi sei di
reclusione ed Euro 3.500,00 di multa, con il beneficio della
sospensione.
Ricordava la Corte territoriale
che i Carabinieri di Asti, nell'ambito di indagini volte alla
individuazione e repressione di siti a contenuto pedopornografico,
tramite il programma winmx - liberamente e gratuitamente reperibile in
internet - erano entrati in una banca dati condivisa da tutti gli
utilizzatori di quel programma;
in data
21.2.2003 avevano effettuato due collegamenti scaricando quattro files
sospetti che dalla visione diretta risultavano di contenuto
pedopornografico. Nel corso del secondo collegamento gli inquirenti
avevano potuto bloccare (attraverso un programma denominato firewall)
l'indirizzo IP dell'utente fornitore delle immagini e, attraverso la
società telefonica assegnatario, erano risaliti al nome dell'imputato.
Dall'esame dell'hard disck del computer sequestrato all'imputato
venivano recuperati 500 files, cancellati, che visualizzavano immagini
pedopornografiche. Tanto premesso in fatto, riteneva che le doglianze
difensive in ordine al reato di cui al capo a) fossero destituite di
fondamento. Assumeva innanzitutto che non fosse necessaria
l'autorizzazione L. n. 269 del 1988, ex art. 14 per l'attività posta in
essere dalla p.g. di inserimento (come nel caso di specie) in un
contesto telematico a disposizione di tutti coloro che si avvalevano di
un determinato programma. Quanto alla dedotta mancanza di autorizzazione
in relazione all'ottenimento da parte dell'ente gestore dell'identità
anagrafica del R., riteneva la Corte che i decreti autorizzativi
all'intercettazione dei flussi telematici avevano per oggetto non tanto
la visione dei files, accessibili a tutti, ma proprio l'individuazione
di coloro che li avevano posti in condivisione. Essendo il materiale
pedopornografico inserito in un sito accessibile a tutti non era dubbio
che il R. avesse posto in essere un'attività di volontaria divulgazione,
per cui era configurabile l'ipotesi di reato contestato e non quella
più lieve di cui al medesimo art. 600 ter c.p., comma 4.
In
ordine al reato di cui al capo b), invece, secondo la Corte
territoriale non vi era prova certa che i 500 files fossero stati
volontariamente appresi dalla rete e quindi detenuti (secondo lo stesso
consulente del P.M. era probabile che fossero temporanei, scaricatisi
cioè automaticamente a seguito di navigazione in siti con contenuto
pedopornografico.
2) Propone ricorso per
cassazione R.F., denunciando con il primo motivo la violazione di legge
in relazione alla L. n. 269 del 1988, art. 14, artt. 185, 191, 266-271
c.p.p., art. 526 c.p.p., comma 1, nonchè la contraddittorietà
e/o manifesta illogicità della motivazione. L'attività investigativa
svolta dai Carabinieri di Asti rientra nell'ambito di cui alla L. n. 269 del 1998, art. 14, comma 2,
per cui, in mancanza delle condizioni previste dalla norma, i risultati
della stessa sono inutilizzabili. La p.g. non si è limitata al
monitoraggio di siti internet ed alla mera visione di files
pedopornografici, ma li ha scaricati, detenendo il materiale (condotta
questa rilevante ex art. 600 quater c.p., posta in essere però in
assenza dei presupposti formali e sostanziali che legittimano ex art. 14
cit. l'azione di contrasto della p.g.).
Nè è
condivisibile l'assunto della sentenza di primo grado (ad esso rinvia la
sentenza di appello), secondo cui attraverso l'utilizzo del programma
di condivisione di files c.d. Winmx si verifica una consapevole,
volontaria rinuncia ad ogni forma di riservatezza, in quanto il
programma predetto concede l'anonimato a chi lo usa. Nè l'emissione di
decreti ai sensi dell'art. 266 c.p.p. e ss. è idonea a
sopperire alla mancanza di richiesta ed autorizzazione ex art. 14 cit.,
non essendo assimilabili, come precisato più volte dalla Suprema Corte,
le due discipline (nel primo caso si ha solo un'attività di
intercettazione di comunicazioni telefoniche o telematiche, nel secondo
caso eccezionalmente la p.g. è autorizzata a svolgere un ruolo di agente
provocatore). Contrariamente a quanto sostenuto dal teste T. agli atti
non vi è traccia di un'autorizzazione dell'a.g. all'acquisto simulato di
materiale pedopornografico, ma solo dei decreti ex art. 266 c.p.p. e ss..
Essendo
inutilizzabili le prove acquisite in violazione dell'art. 14 cit. e
mancando altre prove del reato di cui all'art. 600 ter c.p., comma 3
l'imputato andava assolto perchè il fatto non sussiste o per non averlo
commesso.
Con il secondo motivo denuncia la violazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 132, art. 191 c.p.p., art. 266 c.p.p. e ss., art. 526 c.p.p., comma 1, nonchè la contraddittorietà e/o manifesta illogicità della motivazione.
L'art.
266 bis c.p.p. non disciplina l'ipotesi della individuazione anagrafica
del soggetto che utilizza un dato username, per cui erroneamente la
Corte ha ritenuto che i decreti autorizzativi alla intercettazione dei
flussi contenesse implicitamente anche l'autorizzazione a risalire
all'identità.
Anche a seguito degli interventi della Corte Costituzionale è stato introdotto il D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 132,
che richiede un provvedimento motivato dell'autorità giudiziaria per
acquisire i dati esterni al traffico telefoniate quindi anche
telematico). La p.g., invece, di propria iniziativa, ottiene, senza
alcun provvedimento dell'a.g., i dati relativi alla connessione, tra i
quali il numero telefonico della stazione chiamante e le generalità del
soggetto al quale risultava intestato.
Inoltre
le attestazioni della società Wind, inserite erroneamente nel fascicolo
per il dibattimento, a seguito di eccezione della difesa sono state
estromesse dal Tribunale, con restituzione al P.M. Esse però si trovano
ancora allegate al fascicolo e sono state per di più utilizzate ai fini
della decisione sia dal Tribunale che dalla Corte di Appello. Essendo
l'acquisizione dei dati esterni avvenuta senza specifica autorizzazione
dell'a.g., andava dichiarata inutilizzabile ex art. 191 c.p.p. l'attività di p.g. volta alla identificazione dell'imputato e quindi la testimonianza resa sul punto dal carabiniere T..
Con
il terzo motivo denuncia la violazione di legge ed il vizio di
motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza del reato di cui
all'art. 600 ter c.p., comma 3. Non vi è prova della distribuzione o
comunque divulgazione di materiale pedopornografico. L'imputato è stato
assolto dalla imputazione di detenzione di materiale pedopornografico di
cui al capo b) difettando la prova che egli abbia volontariamente
salvato sul proprio personal computer files pedopornografici, ma è stato
condannato per la divulgazione e diffusione dello stesso materiale (per
averlo messo intenzionalmente in condivisione con altri utenti internet
attraverso il programma winmx). E' inspiegabile come possa esservi
stata condanna per il reato di cui all'art. 600 ter c.p., comma 3 in
mancanza della prova che egli abbia volontariamente stivato in un
apposita cartella i files in modo da metterli a disposizione di altri
soggetti.
Peraltro la sentenza impugnata non
ha minimamente motivato in ordine ad uno specifico rilievo contenuto nei
motivi di appello e cioè in ordine alla prova che i files a contenuto
pedopornografico siano stati effettivamente prelevati dal computer
dell'imputato. Non vi è prova quindi che tra i files recuperati vi
fossero proprio quelli che la p.g. afferma di aver prelevato durante
l'attività di contrasto.
Nè è stato provato
che le immagini pedopornografiche siano state prodotte mediante
sfruttamento dei minori secondo la previsione dell'art. 600 ter c.p.
nella formulazione precedente alle modifiche introdotte dalla L. n. 38 del 2006.
Non era sufficiente infatti provare che la persona ritratta fosse
minorenne , ma che fosse stata vittima di uno sfruttamento sessuale a
fini commerciali e/o di lucro.
Tale
accertamento non è stato mai effettuato e quindi non vi è prova sul
punto. Ma anche se si volesse ritenere non necessaria tale finalità,
comunque andava accertata l'imprenditorialità dell'attività di
sfruttamento. I giudici di merito hanno sostanzialmente applicato l'art.
600 ter c.p. nella formulazione successiva all'epoca del commesso
reato, violando così l'art. 2 c.p., comma 1 e l'art. 25 Cost.,
comma 2. Nè infine risulta provata la consapevolezza da parte
dell'imputato che il materiale fosse stato prodotto mediante
sfruttamento sessuale a fini commerciali e/o di lucro.
Chiede,
pertanto, previa eventuale rimessione del ricorso alle sezioni unite al
fine di dirimere il contrasto insorto tra le decisioni delle singole
sezioni in relazione all'interpretazione della L. n. 269 del 1998, art. 14, comma 2,
l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata ovvero
l'annullamento con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di
Brescia. Chiede inoltre, in ragione della gravità del reato contestato,
che, ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, vengano omesse le indicazioni delle generalità dell'imputato in caso di riproduzione in qualsiasi forma della sentenza.
3) Il ricorso è infondato e va, pertanto, rigettato.
3.1) Per le due distinte fattispecie di cui alla L. n. 269 del 1998, art. 14, commi 1 e 2,
è prevista un'apposita autorizzazione dell'autorità giudiziaria. La
prima riguarda le operazioni di p.g. disposte motu proprio dal questore o
dal responsabile di livello almeno provinciale dell'organismo di
appartenenza: in tal caso è stabilito che, al solo fine di acquisire
elementi di prova in ordine ai reati a sfondo sessuale, specificamente
indicati, gli ufficiali di polizia giudiziaria possono - previa
autorizzazione dell'autorità giudiziaria - procedere all'acquisto
simulato di materiale pornografico e alle relative attività di
intermediazione nonchè partecipare alle iniziative turistiche di cui
all'art. 5 della stessa legge. La seconda fattispecie, contenuta nel
comma 2, riguarda, invece, l'attività di indagine affidata ad uno
speciale servizio istituito, per la lotta a quelle forme di criminalità,
presso il Ministero dell'interno per la sicurezza e la regolarità dei
servizi di telecomunicazione. La norma prevede che, nell'ambito dei
compiti di polizia delle telecomunicazioni, definiti con il decreto di
cui alla L. 31 luglio 1997, n. 249, art. 1, comma 15, l'organo
del Ministero anzidetto svolge, su richiesta dell'autorità giudiziaria,
motivata a pena di nullità, le attività occorrenti per il contrasto
degli stessi reati commessi mediante l'impiego di sistemi informatici o
mezzi di comunicazione telematica ovvero utilizzando reti di
telecomunicazione disponibili al pubblico. A tal fine, il personale
addetto può utilizzare indicazioni di copertura, anche per attivare siti
nelle reti, realizzare o gestire aree di comunicazione o scambio su
reti o sistemi telematici, ovvero per partecipare ad esse. Il predetto
personale specializzato effettua con le medesime finalità le attività di
cui al comma 1 anche per via telematica.
Secondo
la giurisprudenza di questa Corte ".....il comma 1, si riferisce
all'acquisto simulato, scambio di materiale pedopornografico, attività
di intermediazione, in una parola a quella particolare attività di
provocazione prevista dal legislatore per meglio contrastare quella
fenomenologia delinquenziale; mentre, il comma 2, si riferisce
all'eccezionale attività di p.g. demandata ad uno speciale organismo
istituito presso il Ministero dell'interno, al fine di contrastare,
anche con iniziative strumentali, la stessa tipologia criminosa".
La
sentenza n. 21778 del 19.1.2004 della sezione 5^, richiamata anche
dalla Corte di Appello, così motiva: "Ed infatti, nel caso di specie,
l'attività di indagine era consistita nell'accesso a files condivisi da
fruitori di un determinato programma, e non già in una di quelle
specifiche attività strumentali di provocazione e di intromissione nella
sfera del traffico illecito previste dal legislatore, di guisa che era
da ritenere ultroneo ed inconferente ogni richiamo alla disciplina
anzidetto. Non si trattava, neppure, di quella specifica attività
prevista dal comma 2 per la quale occorre la richiesta motivata
dell'autorità giudiziaria, prescritta a pena di nullità, e dunque ad un
effetto sanzionatorio che non è dubbio sia capace di estendersi anche
alle indagini ed ai relativi accertamenti, comportando, altresì,
l'inutilizzabilità, rilevabile in ogni stato e grado del procedimento,
delle prove illegittimamente acquisite a norma dell'art. 191 del codice
di rito (cfr., pacificamente, in questi termini Cass. sez. 3, 11.2.2002,
n. 5397).
Si trattava, invece, di una
particolare metodologia di approccio, che, attraverso un determinato
programma, da chiunque utilizzabile mediante una data parola chiave, ha
accesso a particolari files di condivisione, e cioè files nei quali
ciascun utente mette liberamente a disposizione della rete particolari
prodotti (in questo caso materiale pedopornografico, ma può anche
trattarsi di musica, films e quant'altro), nel quale ognuno può
attingere e, a sua volta, immettere, anche se non necessariamente,
identico prodotto a sua disposizione. Non vi è, quindi, alcuna
particolare attività stimolatrice o provocatoria, che si sostanzia nella
strumentale intrusione nel mondo dell'illecito al fine di agevolare la
scoperta dei suoi protagonisti, ma, semplicemente, dell'accesso ad un
contesto telematico a disposizione di tutti, o meglio di tutti coloro
che si avvalgono di un determinato programma. D'altronde, immettendo nei
files immagini che chiunque può liberamente scaricare nel suo computer,
nella prospettiva, è ovvio, di poter anch'egli disporre, alla bisogna,
di materiale siffatto, l'utente pone in essere una sorta di gratuita
offerta al pubblico, per la quale sarebbe assai singolare - se non
addirittura paradossale - che l'adesione liberamente consentita a
chicchessia debba intendersi inibita o subordinata ad apposita
autorizzazione proprio ad un agente di polizia giudiziaria, e cioè a chi
non agisce sotto l'impulso di insane pruderie, ma al solo fine di
arginare, nell'interesse pubblico, la diffusione illecita di turpi
traffici. Ed allora, la stessa, peculiare, metodologia di utilizzo della
rete sembrerebbe escludere che siano prospettabili ragioni ostative di
segretezza o riservatezza alla cui tutela è predisposto l'art. 15 Cost.,
proprio perchè l'opzione in favore di un sistema di diffusione a tutti
accessibile pare inconciliabile, in nuce, con qualsivoglia esigenza di
tutela della riservatezza. Nè risulta, come si è detto, che la polizia
giudiziaria operasse sotto copertura o con i metodi strumentali previsti
dall'art. 14, comma 2 della menzionata disciplina".
Anche
di recente questa Corte ha ribadito che "l'attività di accesso a fini
investigativi, da parte della polizia giudiziaria, mediante uso di una
determinata parola chiave, a files condivisi, senza che tale attività
sia accompagnata da acquisto simulato o di intermediazione nell'acquisto
dei prodotti esistenti in detti files, non costituisce attività di
contrasto soggetta ad autorizzazione dell'autorità giudiziaria" (cfr.
Cass. pen. sez. 3 n. 13729 del 5.2.2009).
E,
nel caso di specie, come hanno già sottolineato i giudici di merito non
vi fu alcuna attività di contrasto riconducibile alla previsione di cui
all'art. 14. I Carabinieri di Asti, invero, non agirono come agenti
provocatori, ma si limitarono ad accedere a files condivisi ed "offerti
al pubblico". Il fatto che i files siano stati non solo visionati ma
scaricati non muta i termini del problema, non potendosi equiparare tale
attività a quella di un agente provocatore richiamata nell'art. 14
(acquisto simulato, scambio di materiale pedopornografico, attività di
intermediazione).
Non vi è alcuna necessità, quindi, di rimettere il ricorso alla decisione delle sezioni unite.
3.1.1)
In ogni caso, come rilevato anche dal P.G. nella sua requisitoria, se
anche si volesse ritenere illegittima l'acquisizione dei files, il
materiale pedopornografico acquisito costituirebbe "corpo di reato".
Ed
è giurisprudenza, ormai consolidata di questa Corte che "Allorquando la
perquisizione sia stata effettuata senza l'autorizzazione del
magistrato e non nei "casi" e nei "modi" stabiliti dalla legge, come
prescritto dall'art. 13 Cost. si è in presenza di un mezzo di
ricerca della prova che non è compatibile con la tutela del diritto di
libertà del cittadino, estrinsecabile attraverso il riconoscimento
dell'inviolabilità del domicilio. Ne consegue che non potendo essere
qualificato come inutilizzabile un mezzo di ricerca della prova, ma solo
la prova stessa, la perquisizione è nulla e il sequestro eseguito
all'esito di essa non è utilizzabile come prova nel processo, salvo che
ricorra l'ipotesi prevista dall'art. 253 c.p.p., comma 1, nella
quale il sequestro del corpo del reato o delle cose pertinenti al
reato, costituendo un atto dovuto, rende del tutto irrilevante il modo
con cui ad esso si sia pervenuti" (Cass. sez. un. n. 5021/1996 - Sala).
3.2)
Anche il secondo motivo è infondato. A prescindere dalla normativa
richiamata i decreti di intercettazione dei flussi telematici degli
accessi, emessi dal GIP (e quindi nel pieno rispetto delle garanzie
difensive), erano motivati proprio in relazione alla necessità di
identificare gli autori del delitto. Essi quindi contenevano
indubitabilmente, come rileva la Corte territoriale, l'autorizzazione
anche a svolgere l'attività necessaria per la identificazione.
L'attività svolta dalla p.g. presso il gestore deve ritenersi pienamente
legittima e conseguentemente utilizzabile è la testimonianza del
carabiniere T. che ha deposto sui risultati di tali accertamenti che
portarono alla identificazione dell'imputato.
Certamente
inutilizzabile, anche perchè estromesso dal fascicolo per il
dibattimento, è l'attestato della Wind, ma, da esso si può prescindere
stante la richiamata testimonianza del T..
3.3)
Le questioni sollevate in ordine all'accertata divulgazione per via
telematica da parte dell'imputato di materiale a contenuto
pedopornografico sono inammissibili.
Tali
censure non tengono conto, invero, che il controllo demandato alla Corte
di legittimità va esercitato sulla coordinazione delle proposizioni e
dei passaggi attraverso i quali si sviluppa il tessuto argomentativo del
provvedimento impugnato, senza la possibilità di verificare se i
risultati dell'interpretazione delle prove siano effettivamente
corrispondenti alle acquisizioni probatorie risultanti dagli atti del
processo. I giudici di merito (le motivazioni della sentenza di primo e
di secondo grado si saldano formando un unico corpo argomentativo), con
motivazione congrua, adeguata e priva di erronea applicazione della
legge penale e processuale, hanno valutato compiutamente il materiale
probatorio (in particolare testimonianza C.re T. e relazione del
consulente), fornendo giustificazioni logiche della decisione adottata.
Già il Tribunale aveva evidenziato che "i quattro files di chiaro
contenuto pedopornografico, come dimostrato dalla successiva visione,
erano liberamente scaricabili dal computer riconducibile all'imputato e
quindi pienamente disponibili al pubblico senza ulteriori e
supplementari formalità";
tale circostanza "è
di per sè esaurientemente indicativa della volontà di quest'ultimo di
condividere il materiale negli stessi contenuto con una platea per
definizione indeterminata ed indeterminabile di utenti..". La Corte
territoriale, nel rinviare per relationem alla sentenza di primo grado,
sottolinea ulteriormente, disattendendo i rilievi difensivi, che "nessun
file può essere visionato da altri utenti se il suo detentore non lo ha
messo intenzionalmente in condivisione, mediante programmi quali
appunto Winmx" e che "la divulgazione del materiale pedopornografico si è
effettivamente consumata mediante la messa a disposizione dello stesso,
tanto che i CC. collegatisi telematicamente hanno potuto scaricare i
files in questione". La Corte ha motivato congruamente ed adeguatamente
(facendo riferimento alla chiara testimonianza del C.re T.) anche in
relazione alla circostanza che i files a contenuto pedopornografico
erano stati scaricati proprio dal computer dell'imputato. Nè infine vi è
contraddizione con l'assoluzione dal reato di cui al capo b). Tale
imputazione faceva riferimento a 500 files (ritrovati tra quelli
cancellati sul computer del R.), in ordine ai quali non era stato
possibile ricostruire il percorso originale. Era quindi possibile che
essi, secondo la Corte (che richiamava la consulenza tecnica del P.M.),
fossero temporanei, ossia scaricatisi automaticamente a seguito di
navigazione in siti aventi quel contenuto.
I 4
files di cui al capo b) dell'imputazione, invece, erano stati
volontariamente immessi in rete ed "offerti al pubblico". 3.4)
Infondato, infine, è l'assunto del ricorrente secondo cui i giudici di
merito non abbiano motivato in ordine alla sussistenza degli elementi
costituitivi del reato di cui all'art. 600 ter c.p., comma 3 nella
formulazione precedente all'entrata in vigore della L. n. 38 del 2006,
applicando così sostanzialmente il nuovo dettato normativo. La Corte
territoriale, dopo aver richiamato le due diverse formulazioni del
dettato normativo, ha infatti ritenuto che lo sfruttamento richiesto
dalla norma vigente all'epoca del commesso reato non presuppone
necessariamente una finalità commerciale e di lucro "ma esprime più
semplicemente il sacrificio di un apprezzabile interesse altrui ad un
proprio meno apprezzabile scopo". 3.4.1) Come affermato dalla
giurisprudenza di questa Corte, la nozione di sfruttamento utilizzata
dalla norma non va intesa in senso necessariamente economico, ma
comprendendo qualsiasi conseguimento di frutto o utile. Nella sentenza
n. 13/2000 le sezioni unite, pur con riferimento alla normativa vigente
all'epoca dei fatti (e quindi prima delle modifiche introdotte dalla L. n. 38 del 2006),
hanno precisato, invero, che "sfruttare i minori per le finalità
indicate nell'art. 600 ter c.p., significa impiegarli come mezzo anzichè
rispettarli come fine e come valore in sè: significa insomma offendere
la loro personalità, soprattutto nell'aspetto sessuale, che è tanto più
fragile e bisognosa di tutela quanto più è ancora in formazione e non
ancora strutturata". E' estranea, pertanto, alla condotta descritta
nella fattispecie la non episodicità della condotta o l'esistenza di una
struttura organizzativa.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 6 ottobre 2009.
Depositato in Cancelleria il 30 ottobre 2009
Nessun commento:
Posta un commento