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lunedì 13 luglio 2015

Cassazione: Il materiale pedopornografico reperito dalla polizia tramite il mezzo della "condivisione" senza alcuna autorizzazione dell'autorità giudiziaria è utilizzabile



Il materiale pedopornografico reperito dalla polizia tramite il mezzo della "condivisione" senza alcuna autorizzazione dell'autorità giudiziaria è utilizzabile
 
(Sezione terza, sentenza n. 41743/09; depositata il 30 ottobre)
Cass. pen. Sez. III, (ud. 06-10-2009) 30-10-2009, n. 41743
Fatto - Diritto P.Q.M.

Svolgimento del processo - Motivi della decisione

OSSERVA
1) Con sentenza del 12.2.2007 il Tribunale di Brescia, in composizione monocratica, condannava R.F., previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, alla pena di anni due di reclusione ed Euro 4.000,00 di multa per il reato di cui all'art. 600 ter c.p., comma 3 "perchè, utilizzando un programma winmx, distribuiva o comunque divulgava per via telematica materiale prodotto dallo sfruttamento sessuale di minori degli anni diciotto ed in particolare n. 4 files relativi ad immagini a carattere pedopornografico" (capo a) e per il reato di cui all'art. 600 quater c.p. "perchè consapevolmente si procurava materiale prodotto mediante lo sfruttamento sessuale di minori degli anni diciotto ed in particolare deteneva n. 500 files contenenti immagini e filmati a carattere pedopornografico sull'hard disck del proprio p.c." (capo b), unificati sotto il vincolo della continuazione.
La Corte di Appello di Brescia, con sentenza dell'11.11.2008, in parziale riforma della sentenza del Tribunale, impugnata dall'imputato, assolveva il R. dal reato di cui al capo b) perchè il fatto non sussiste, riducendo la pena inflitta in primo grado ad anni uno e mesi sei di reclusione ed Euro 3.500,00 di multa, con il beneficio della sospensione.
Ricordava la Corte territoriale che i Carabinieri di Asti, nell'ambito di indagini volte alla individuazione e repressione di siti a contenuto pedopornografico, tramite il programma winmx - liberamente e gratuitamente reperibile in internet - erano entrati in una banca dati condivisa da tutti gli utilizzatori di quel programma;
in data 21.2.2003 avevano effettuato due collegamenti scaricando quattro files sospetti che dalla visione diretta risultavano di contenuto pedopornografico. Nel corso del secondo collegamento gli inquirenti avevano potuto bloccare (attraverso un programma denominato firewall) l'indirizzo IP dell'utente fornitore delle immagini e, attraverso la società telefonica assegnatario, erano risaliti al nome dell'imputato. Dall'esame dell'hard disck del computer sequestrato all'imputato venivano recuperati 500 files, cancellati, che visualizzavano immagini pedopornografiche. Tanto premesso in fatto, riteneva che le doglianze difensive in ordine al reato di cui al capo a) fossero destituite di fondamento. Assumeva innanzitutto che non fosse necessaria l'autorizzazione L. n. 269 del 1988, ex art. 14 per l'attività posta in essere dalla p.g. di inserimento (come nel caso di specie) in un contesto telematico a disposizione di tutti coloro che si avvalevano di un determinato programma. Quanto alla dedotta mancanza di autorizzazione in relazione all'ottenimento da parte dell'ente gestore dell'identità anagrafica del R., riteneva la Corte che i decreti autorizzativi all'intercettazione dei flussi telematici avevano per oggetto non tanto la visione dei files, accessibili a tutti, ma proprio l'individuazione di coloro che li avevano posti in condivisione. Essendo il materiale pedopornografico inserito in un sito accessibile a tutti non era dubbio che il R. avesse posto in essere un'attività di volontaria divulgazione, per cui era configurabile l'ipotesi di reato contestato e non quella più lieve di cui al medesimo art. 600 ter c.p., comma 4.
In ordine al reato di cui al capo b), invece, secondo la Corte territoriale non vi era prova certa che i 500 files fossero stati volontariamente appresi dalla rete e quindi detenuti (secondo lo stesso consulente del P.M. era probabile che fossero temporanei, scaricatisi cioè automaticamente a seguito di navigazione in siti con contenuto pedopornografico.
2) Propone ricorso per cassazione R.F., denunciando con il primo motivo la violazione di legge in relazione alla L. n. 269 del 1988, art. 14, artt. 185, 191, 266-271 c.p.p., art. 526 c.p.p., comma 1, nonchè la contraddittorietà e/o manifesta illogicità della motivazione. L'attività investigativa svolta dai Carabinieri di Asti rientra nell'ambito di cui alla L. n. 269 del 1998, art. 14, comma 2, per cui, in mancanza delle condizioni previste dalla norma, i risultati della stessa sono inutilizzabili. La p.g. non si è limitata al monitoraggio di siti internet ed alla mera visione di files pedopornografici, ma li ha scaricati, detenendo il materiale (condotta questa rilevante ex art. 600 quater c.p., posta in essere però in assenza dei presupposti formali e sostanziali che legittimano ex art. 14 cit. l'azione di contrasto della p.g.).
Nè è condivisibile l'assunto della sentenza di primo grado (ad esso rinvia la sentenza di appello), secondo cui attraverso l'utilizzo del programma di condivisione di files c.d. Winmx si verifica una consapevole, volontaria rinuncia ad ogni forma di riservatezza, in quanto il programma predetto concede l'anonimato a chi lo usa. Nè l'emissione di decreti ai sensi dell'art. 266 c.p.p. e ss. è idonea a sopperire alla mancanza di richiesta ed autorizzazione ex art. 14 cit., non essendo assimilabili, come precisato più volte dalla Suprema Corte, le due discipline (nel primo caso si ha solo un'attività di intercettazione di comunicazioni telefoniche o telematiche, nel secondo caso eccezionalmente la p.g. è autorizzata a svolgere un ruolo di agente provocatore). Contrariamente a quanto sostenuto dal teste T. agli atti non vi è traccia di un'autorizzazione dell'a.g. all'acquisto simulato di materiale pedopornografico, ma solo dei decreti ex art. 266 c.p.p. e ss..
Essendo inutilizzabili le prove acquisite in violazione dell'art. 14 cit. e mancando altre prove del reato di cui all'art. 600 ter c.p., comma 3 l'imputato andava assolto perchè il fatto non sussiste o per non averlo commesso.
Con il secondo motivo denuncia la violazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 132, art. 191 c.p.p., art. 266 c.p.p. e ss., art. 526 c.p.p., comma 1, nonchè la contraddittorietà e/o manifesta illogicità della motivazione.
L'art. 266 bis c.p.p. non disciplina l'ipotesi della individuazione anagrafica del soggetto che utilizza un dato username, per cui erroneamente la Corte ha ritenuto che i decreti autorizzativi alla intercettazione dei flussi contenesse implicitamente anche l'autorizzazione a risalire all'identità.
Anche a seguito degli interventi della Corte Costituzionale è stato introdotto il D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 132, che richiede un provvedimento motivato dell'autorità giudiziaria per acquisire i dati esterni al traffico telefoniate quindi anche telematico). La p.g., invece, di propria iniziativa, ottiene, senza alcun provvedimento dell'a.g., i dati relativi alla connessione, tra i quali il numero telefonico della stazione chiamante e le generalità del soggetto al quale risultava intestato.
Inoltre le attestazioni della società Wind, inserite erroneamente nel fascicolo per il dibattimento, a seguito di eccezione della difesa sono state estromesse dal Tribunale, con restituzione al P.M. Esse però si trovano ancora allegate al fascicolo e sono state per di più utilizzate ai fini della decisione sia dal Tribunale che dalla Corte di Appello. Essendo l'acquisizione dei dati esterni avvenuta senza specifica autorizzazione dell'a.g., andava dichiarata inutilizzabile ex art. 191 c.p.p. l'attività di p.g. volta alla identificazione dell'imputato e quindi la testimonianza resa sul punto dal carabiniere T..
Con il terzo motivo denuncia la violazione di legge ed il vizio di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza del reato di cui all'art. 600 ter c.p., comma 3. Non vi è prova della distribuzione o comunque divulgazione di materiale pedopornografico. L'imputato è stato assolto dalla imputazione di detenzione di materiale pedopornografico di cui al capo b) difettando la prova che egli abbia volontariamente salvato sul proprio personal computer files pedopornografici, ma è stato condannato per la divulgazione e diffusione dello stesso materiale (per averlo messo intenzionalmente in condivisione con altri utenti internet attraverso il programma winmx). E' inspiegabile come possa esservi stata condanna per il reato di cui all'art. 600 ter c.p., comma 3 in mancanza della prova che egli abbia volontariamente stivato in un apposita cartella i files in modo da metterli a disposizione di altri soggetti.
Peraltro la sentenza impugnata non ha minimamente motivato in ordine ad uno specifico rilievo contenuto nei motivi di appello e cioè in ordine alla prova che i files a contenuto pedopornografico siano stati effettivamente prelevati dal computer dell'imputato. Non vi è prova quindi che tra i files recuperati vi fossero proprio quelli che la p.g. afferma di aver prelevato durante l'attività di contrasto.
Nè è stato provato che le immagini pedopornografiche siano state prodotte mediante sfruttamento dei minori secondo la previsione dell'art. 600 ter c.p. nella formulazione precedente alle modifiche introdotte dalla L. n. 38 del 2006. Non era sufficiente infatti provare che la persona ritratta fosse minorenne , ma che fosse stata vittima di uno sfruttamento sessuale a fini commerciali e/o di lucro.
Tale accertamento non è stato mai effettuato e quindi non vi è prova sul punto. Ma anche se si volesse ritenere non necessaria tale finalità, comunque andava accertata l'imprenditorialità dell'attività di sfruttamento. I giudici di merito hanno sostanzialmente applicato l'art. 600 ter c.p. nella formulazione successiva all'epoca del commesso reato, violando così l'art. 2 c.p., comma 1 e l'art. 25 Cost., comma 2. Nè infine risulta provata la consapevolezza da parte dell'imputato che il materiale fosse stato prodotto mediante sfruttamento sessuale a fini commerciali e/o di lucro.
Chiede, pertanto, previa eventuale rimessione del ricorso alle sezioni unite al fine di dirimere il contrasto insorto tra le decisioni delle singole sezioni in relazione all'interpretazione della L. n. 269 del 1998, art. 14, comma 2, l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata ovvero l'annullamento con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Brescia. Chiede inoltre, in ragione della gravità del reato contestato, che, ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, vengano omesse le indicazioni delle generalità dell'imputato in caso di riproduzione in qualsiasi forma della sentenza.
3) Il ricorso è infondato e va, pertanto, rigettato.
3.1) Per le due distinte fattispecie di cui alla L. n. 269 del 1998, art. 14, commi 1 e 2, è prevista un'apposita autorizzazione dell'autorità giudiziaria. La prima riguarda le operazioni di p.g. disposte motu proprio dal questore o dal responsabile di livello almeno provinciale dell'organismo di appartenenza: in tal caso è stabilito che, al solo fine di acquisire elementi di prova in ordine ai reati a sfondo sessuale, specificamente indicati, gli ufficiali di polizia giudiziaria possono - previa autorizzazione dell'autorità giudiziaria - procedere all'acquisto simulato di materiale pornografico e alle relative attività di intermediazione nonchè partecipare alle iniziative turistiche di cui all'art. 5 della stessa legge. La seconda fattispecie, contenuta nel comma 2, riguarda, invece, l'attività di indagine affidata ad uno speciale servizio istituito, per la lotta a quelle forme di criminalità, presso il Ministero dell'interno per la sicurezza e la regolarità dei servizi di telecomunicazione. La norma prevede che, nell'ambito dei compiti di polizia delle telecomunicazioni, definiti con il decreto di cui alla L. 31 luglio 1997, n. 249, art. 1, comma 15, l'organo del Ministero anzidetto svolge, su richiesta dell'autorità giudiziaria, motivata a pena di nullità, le attività occorrenti per il contrasto degli stessi reati commessi mediante l'impiego di sistemi informatici o mezzi di comunicazione telematica ovvero utilizzando reti di telecomunicazione disponibili al pubblico. A tal fine, il personale addetto può utilizzare indicazioni di copertura, anche per attivare siti nelle reti, realizzare o gestire aree di comunicazione o scambio su reti o sistemi telematici, ovvero per partecipare ad esse. Il predetto personale specializzato effettua con le medesime finalità le attività di cui al comma 1 anche per via telematica.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte ".....il comma 1, si riferisce all'acquisto simulato, scambio di materiale pedopornografico, attività di intermediazione, in una parola a quella particolare attività di provocazione prevista dal legislatore per meglio contrastare quella fenomenologia delinquenziale; mentre, il comma 2, si riferisce all'eccezionale attività di p.g. demandata ad uno speciale organismo istituito presso il Ministero dell'interno, al fine di contrastare, anche con iniziative strumentali, la stessa tipologia criminosa".
La sentenza n. 21778 del 19.1.2004 della sezione 5^, richiamata anche dalla Corte di Appello, così motiva: "Ed infatti, nel caso di specie, l'attività di indagine era consistita nell'accesso a files condivisi da fruitori di un determinato programma, e non già in una di quelle specifiche attività strumentali di provocazione e di intromissione nella sfera del traffico illecito previste dal legislatore, di guisa che era da ritenere ultroneo ed inconferente ogni richiamo alla disciplina anzidetto. Non si trattava, neppure, di quella specifica attività prevista dal comma 2 per la quale occorre la richiesta motivata dell'autorità giudiziaria, prescritta a pena di nullità, e dunque ad un effetto sanzionatorio che non è dubbio sia capace di estendersi anche alle indagini ed ai relativi accertamenti, comportando, altresì, l'inutilizzabilità, rilevabile in ogni stato e grado del procedimento, delle prove illegittimamente acquisite a norma dell'art. 191 del codice di rito (cfr., pacificamente, in questi termini Cass. sez. 3, 11.2.2002, n. 5397).
Si trattava, invece, di una particolare metodologia di approccio, che, attraverso un determinato programma, da chiunque utilizzabile mediante una data parola chiave, ha accesso a particolari files di condivisione, e cioè files nei quali ciascun utente mette liberamente a disposizione della rete particolari prodotti (in questo caso materiale pedopornografico, ma può anche trattarsi di musica, films e quant'altro), nel quale ognuno può attingere e, a sua volta, immettere, anche se non necessariamente, identico prodotto a sua disposizione. Non vi è, quindi, alcuna particolare attività stimolatrice o provocatoria, che si sostanzia nella strumentale intrusione nel mondo dell'illecito al fine di agevolare la scoperta dei suoi protagonisti, ma, semplicemente, dell'accesso ad un contesto telematico a disposizione di tutti, o meglio di tutti coloro che si avvalgono di un determinato programma. D'altronde, immettendo nei files immagini che chiunque può liberamente scaricare nel suo computer, nella prospettiva, è ovvio, di poter anch'egli disporre, alla bisogna, di materiale siffatto, l'utente pone in essere una sorta di gratuita offerta al pubblico, per la quale sarebbe assai singolare - se non addirittura paradossale - che l'adesione liberamente consentita a chicchessia debba intendersi inibita o subordinata ad apposita autorizzazione proprio ad un agente di polizia giudiziaria, e cioè a chi non agisce sotto l'impulso di insane pruderie, ma al solo fine di arginare, nell'interesse pubblico, la diffusione illecita di turpi traffici. Ed allora, la stessa, peculiare, metodologia di utilizzo della rete sembrerebbe escludere che siano prospettabili ragioni ostative di segretezza o riservatezza alla cui tutela è predisposto l'art. 15 Cost., proprio perchè l'opzione in favore di un sistema di diffusione a tutti accessibile pare inconciliabile, in nuce, con qualsivoglia esigenza di tutela della riservatezza. Nè risulta, come si è detto, che la polizia giudiziaria operasse sotto copertura o con i metodi strumentali previsti dall'art. 14, comma 2 della menzionata disciplina".
Anche di recente questa Corte ha ribadito che "l'attività di accesso a fini investigativi, da parte della polizia giudiziaria, mediante uso di una determinata parola chiave, a files condivisi, senza che tale attività sia accompagnata da acquisto simulato o di intermediazione nell'acquisto dei prodotti esistenti in detti files, non costituisce attività di contrasto soggetta ad autorizzazione dell'autorità giudiziaria" (cfr. Cass. pen. sez. 3 n. 13729 del 5.2.2009).
E, nel caso di specie, come hanno già sottolineato i giudici di merito non vi fu alcuna attività di contrasto riconducibile alla previsione di cui all'art. 14. I Carabinieri di Asti, invero, non agirono come agenti provocatori, ma si limitarono ad accedere a files condivisi ed "offerti al pubblico". Il fatto che i files siano stati non solo visionati ma scaricati non muta i termini del problema, non potendosi equiparare tale attività a quella di un agente provocatore richiamata nell'art. 14 (acquisto simulato, scambio di materiale pedopornografico, attività di intermediazione).
Non vi è alcuna necessità, quindi, di rimettere il ricorso alla decisione delle sezioni unite.
3.1.1) In ogni caso, come rilevato anche dal P.G. nella sua requisitoria, se anche si volesse ritenere illegittima l'acquisizione dei files, il materiale pedopornografico acquisito costituirebbe "corpo di reato".
Ed è giurisprudenza, ormai consolidata di questa Corte che "Allorquando la perquisizione sia stata effettuata senza l'autorizzazione del magistrato e non nei "casi" e nei "modi" stabiliti dalla legge, come prescritto dall'art. 13 Cost. si è in presenza di un mezzo di ricerca della prova che non è compatibile con la tutela del diritto di libertà del cittadino, estrinsecabile attraverso il riconoscimento dell'inviolabilità del domicilio. Ne consegue che non potendo essere qualificato come inutilizzabile un mezzo di ricerca della prova, ma solo la prova stessa, la perquisizione è nulla e il sequestro eseguito all'esito di essa non è utilizzabile come prova nel processo, salvo che ricorra l'ipotesi prevista dall'art. 253 c.p.p., comma 1, nella quale il sequestro del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato, costituendo un atto dovuto, rende del tutto irrilevante il modo con cui ad esso si sia pervenuti" (Cass. sez. un. n. 5021/1996 - Sala).
3.2) Anche il secondo motivo è infondato. A prescindere dalla normativa richiamata i decreti di intercettazione dei flussi telematici degli accessi, emessi dal GIP (e quindi nel pieno rispetto delle garanzie difensive), erano motivati proprio in relazione alla necessità di identificare gli autori del delitto. Essi quindi contenevano indubitabilmente, come rileva la Corte territoriale, l'autorizzazione anche a svolgere l'attività necessaria per la identificazione. L'attività svolta dalla p.g. presso il gestore deve ritenersi pienamente legittima e conseguentemente utilizzabile è la testimonianza del carabiniere T. che ha deposto sui risultati di tali accertamenti che portarono alla identificazione dell'imputato.
Certamente inutilizzabile, anche perchè estromesso dal fascicolo per il dibattimento, è l'attestato della Wind, ma, da esso si può prescindere stante la richiamata testimonianza del T..
3.3) Le questioni sollevate in ordine all'accertata divulgazione per via telematica da parte dell'imputato di materiale a contenuto pedopornografico sono inammissibili.
Tali censure non tengono conto, invero, che il controllo demandato alla Corte di legittimità va esercitato sulla coordinazione delle proposizioni e dei passaggi attraverso i quali si sviluppa il tessuto argomentativo del provvedimento impugnato, senza la possibilità di verificare se i risultati dell'interpretazione delle prove siano effettivamente corrispondenti alle acquisizioni probatorie risultanti dagli atti del processo. I giudici di merito (le motivazioni della sentenza di primo e di secondo grado si saldano formando un unico corpo argomentativo), con motivazione congrua, adeguata e priva di erronea applicazione della legge penale e processuale, hanno valutato compiutamente il materiale probatorio (in particolare testimonianza C.re T. e relazione del consulente), fornendo giustificazioni logiche della decisione adottata. Già il Tribunale aveva evidenziato che "i quattro files di chiaro contenuto pedopornografico, come dimostrato dalla successiva visione, erano liberamente scaricabili dal computer riconducibile all'imputato e quindi pienamente disponibili al pubblico senza ulteriori e supplementari formalità";
tale circostanza "è di per sè esaurientemente indicativa della volontà di quest'ultimo di condividere il materiale negli stessi contenuto con una platea per definizione indeterminata ed indeterminabile di utenti..". La Corte territoriale, nel rinviare per relationem alla sentenza di primo grado, sottolinea ulteriormente, disattendendo i rilievi difensivi, che "nessun file può essere visionato da altri utenti se il suo detentore non lo ha messo intenzionalmente in condivisione, mediante programmi quali appunto Winmx" e che "la divulgazione del materiale pedopornografico si è effettivamente consumata mediante la messa a disposizione dello stesso, tanto che i CC. collegatisi telematicamente hanno potuto scaricare i files in questione". La Corte ha motivato congruamente ed adeguatamente (facendo riferimento alla chiara testimonianza del C.re T.) anche in relazione alla circostanza che i files a contenuto pedopornografico erano stati scaricati proprio dal computer dell'imputato. Nè infine vi è contraddizione con l'assoluzione dal reato di cui al capo b). Tale imputazione faceva riferimento a 500 files (ritrovati tra quelli cancellati sul computer del R.), in ordine ai quali non era stato possibile ricostruire il percorso originale. Era quindi possibile che essi, secondo la Corte (che richiamava la consulenza tecnica del P.M.), fossero temporanei, ossia scaricatisi automaticamente a seguito di navigazione in siti aventi quel contenuto.
I 4 files di cui al capo b) dell'imputazione, invece, erano stati volontariamente immessi in rete ed "offerti al pubblico". 3.4) Infondato, infine, è l'assunto del ricorrente secondo cui i giudici di merito non abbiano motivato in ordine alla sussistenza degli elementi costituitivi del reato di cui all'art. 600 ter c.p., comma 3 nella formulazione precedente all'entrata in vigore della L. n. 38 del 2006, applicando così sostanzialmente il nuovo dettato normativo. La Corte territoriale, dopo aver richiamato le due diverse formulazioni del dettato normativo, ha infatti ritenuto che lo sfruttamento richiesto dalla norma vigente all'epoca del commesso reato non presuppone necessariamente una finalità commerciale e di lucro "ma esprime più semplicemente il sacrificio di un apprezzabile interesse altrui ad un proprio meno apprezzabile scopo". 3.4.1) Come affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, la nozione di sfruttamento utilizzata dalla norma non va intesa in senso necessariamente economico, ma comprendendo qualsiasi conseguimento di frutto o utile. Nella sentenza n. 13/2000 le sezioni unite, pur con riferimento alla normativa vigente all'epoca dei fatti (e quindi prima delle modifiche introdotte dalla L. n. 38 del 2006), hanno precisato, invero, che "sfruttare i minori per le finalità indicate nell'art. 600 ter c.p., significa impiegarli come mezzo anzichè rispettarli come fine e come valore in sè: significa insomma offendere la loro personalità, soprattutto nell'aspetto sessuale, che è tanto più fragile e bisognosa di tutela quanto più è ancora in formazione e non ancora strutturata". E' estranea, pertanto, alla condotta descritta nella fattispecie la non episodicità della condotta o l'esistenza di una struttura organizzativa.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 6 ottobre 2009.
Depositato in Cancelleria il 30 ottobre 2009

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