Nuova pagina 1
ADOZIONE - CASSAZIONE CIVILE
Cass. civ. Sez. I, 28-06-2006, n. 15011 |
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LUCCIOLI Maria Gabriella - Presidente
Dott. SALVAGO Salvatore - Consigliere
Dott. PANZANI Luciano - Consigliere
Dott. SCHIRO' Stefano - Consigliere
Dott. GIUSTI Alberto - rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente:
sul ricorso proposto da:
S.P.
e S.M., rappresentati e difesi, in forza di procura speciale in calce
al ricorso, dall'Avv. Cosimo Luperto e dall'Avv. Remigi Laura,
elettivamente domiciliati in Roma, Via Oderisi da Gubbio, n. 214, presso
lo studio dell'Avv. Remo Colaci;
- ricorrenti -
contro
G.A.,
nella qualità di curatore speciale del minore S.L., rappresentata e
difesa, in forza di procura speciale in calce al controricorso,
dall'Avv. CAPRIOLI Lucio, elettivamente domiciliata in Roma, Corso
Vittorio Emanuele, nello studio dell'avv. LAZZARETTI Andrea;
- controricorrente -
e contro
UFFICIO DISTRETTUALE DEL SERVIZIO SOCIALE PER I MINORENNI DI LECCE, in persona del Dirigente pro tempore;
- intimato -
e contro
PROCURATORE GENERALE DELLA REPUBBLICA PRESSO LA CORTE D'APPELLO -
SEZ. MINORENNI DI LECCE;
- intimato -
avverso la sentenza della Corte d'appello di Lecce - Sezione per i minorenni - n. 33/2005 depositata il 13 ottobre 2005.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 19 giugno 2006 dal Consigliere relatore Dott. Alberto Giusti;
udito
il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale
Dott. Golia Aurelio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
1.
- In esito agli sviluppi della procedura di protezione ex artt. 333 e
336 cod. civ. avviata con provvedimento di ricovero in istituto del 4
marzo 1999 (già peraltro eseguito in via d'urgenza a pochi giorni dalla
nascita), il Tribunale per i minorenni di Lecce, con decreto del 10
febbraio 2000, dichiarò lo stato di adottabilità del minore S.L., nato
il 28 gennaio 1999, figlio naturale riconosciuto di S.P. e S.M., già
affidato fin dal 9 luglio 1999, quando aveva da poco compiuto sei mesi
di vita, ai sensi della L. 4 maggio 1983, n. 184, art. 10, ad una coppia di coniugi.
Proposta
opposizione da parte dei genitori naturali, lo stesso Tribunale per i
minorenni - assunte ulteriori informazioni dai Carabinieri e dai Servizi
sociali e consultoriali territorialmente competenti, esperite due
consulenze tecniche d'ufficio e disposto l'aggiornamento dell'inchiesta
psico-sociale - rigettò l'opposizione con sentenza del 18 maggio 2005.
2. - La Corte d'appello di Lecce - Sezione per i minorenni - con
sentenza in data 13 ottobre 2005 respinse il gravame interposto dai
genitori naturali del piccolo L..
2.1.
- La Corte territoriale ritenne irrilevanti le supposte violazioni di
legge in cui sarebbe incorso il Tribunale per i minorenni
nell'apprestamento delle misure di protezione ai sensi degli artt. 333 e 336 cod. civ.,
giacchè nel procedimento di opposizione alla dichiarazione dello stato
di adottabilità la materia del contendere riguarda soltanto
l'accertamento della situazione di abbandono del minore. E non mancò di
sottolineare che l'apparentemente precoce intervento del giudice
minorile, al quale era ben nota la situazione dello S. e della Se.
(tanto
che in passato si era già interessato della sorte degli altri quattro
figli della coppia), era dipeso anche dal fatto che nell'Ospedale di
(OMISSIS), quando la Se. vi aveva appena dato alla luce il piccolo L.,
si aggirava un individuo estraneo al nucleo familiare, "disposto a
tenere presso di sè - illegalmente - il neonato, nel caso in cui si
fosse paventato un suo allontanamento dalla famiglia". 2.2. - Nel
merito, la Corte d'appello dette bensì atto che gli appellanti (ed in
particolare la madre) nel corso dei loro numerosi ascolti presso il
giudice minorile avevano più volte richiesto con sincerità il rientro in
famiglia del piccolo L.; e riconobbe che il rifiuto della Se. di
ricoverarsi col figlio presso il designato istituto di (OMISSIS) poteva
essere, contrariamente a quanto affermato dal giudice di primo grado,
giustificato dal fatto che la donna aveva il dovere di assistere in
Specchia (e, cioè, a circa centocinquanta chilometri di distanza
dall'istituto) il fratello oligo-frenico, nella cui casa la coppia
dimorava, sopperendo con i proventi della di lui pensione alla mancanza
di mezzi economici.
Tuttavia,
ritenne sussistente lo stato di abbandono del minore, escludendo - con
il conforto delle convergenti relazioni degli assistenti sociali, delle
informative dei Carabinieri e delle perizie dei consulenti d'ufficio -
che i genitori fossero in grado di prestargli il minimo di cure
materiali e morali necessario per non compromettere il di lui sviluppo
psico-fisico.
Sottolineò in
particolare la Corte di Lecce che, secondo quanto riferito dai
Carabinieri di Specchia, i genitori del piccolo L. "sono amanti
dell'ozio, ragione per la quale non trovano mai stabile lavoro", "in
pubblico godono di pessima stima e reputazione", e "l'abitazione in cui
vivono si presenta in condizioni igieniche disastrose"; che, in base
alla relazione dei servizi sociali, gli stessi vivono in una casa
senz'acqua (essendo morosi con l'ente acquedotto, tanto che la Se.
attinge l'acqua dalle fontane pubbliche esistenti nel paese con dei
contenitori), in condizioni igieniche gravissime (sul pavimento della
cucina erano stati notati nel corso di un sopralluogo gli escrementi dei
cani). E ritenne che la così degradata situazione abitativa ed
ambientale, ancora esistente nonostante la sopravvenuta occupazione
lavorativa della Se. (come bidella in una scuola materna), non potesse
essere ascritta soltanto allo stato di indigenza, ma fosse indice
inequivocabile di colpevole neghittosità.
L'intento
di riavere il bambino fu considerato dalla Corte di merito soltanto
velleitario: "ove il bambino facesse ritorno a casa, nonostante
circondato da tutto l'affetto possibile, troverebbe un ambiente che non
gli assicurerebbe neppure quella soglia minima indispensabile per non
rimanere compromesso in modo grave e permanente nel suo normale sviluppo
psicofisico". Del resto - proseguì la Corte d'appello - i consulenti
tecnici d'ufficio avevano giudicato i genitori del piccolo L. persone
"immature", assolutamente incapaci, ancorchè coadiuvate dai Servizi
sociali, di allevare il minore e di offrirgli il minimo di cure di cui
ha bisogno.
Nè - infine - gli
appellanti avevano mai indicato parenti entro il quarto grado disposti
ad accogliere il minore. Neppure la figlia Valentina - la quale, già
dichiarata in stato di adottabilità, aveva fatto spontaneamente ritorno
presso i suoi genitori naturali, una volta compiuta la maggiore età, e
svolgeva attività lavorativa - si era offerta di accudire il fratellino.
3.
- Per la cassazione della sentenza della Corte d'appello di Lecce -
Sezione per i minorenni - hanno interposto ricorso S. P. e S.M., con
atto notificato il 15 novembre 2005, affidato a due, complessi motivi di
ricorso.
Ha resistito, con controricorso, G.A., nella qualità di curatore del minore.
Motivi della decisione
1. - Il primo motivo di ricorso e rubricato "nullità degli atti processuali".
I ricorrenti deducono la violazione della L. 4 maggio 1983, n. 184, art. 10 e degli artt. 330, 333 e 336 cod. civ., in relazione all'art. 111 Cost.,
comma 5, il Tribunale per i minorenni, dopo avere adottato il
provvedimento urgente di allontanamento del minore, non avrebbe
rispettato il precetto che imponeva di confermare, revocare o modificare
il provvedimento urgente previo ascolto dei genitori e degli altri
soggetti indicati nell'art. 10. Sarebbe stata inoltre disattesa la
regola che consente di adottare il provvedimento di allontanamento
soltanto per gravi motivi: analizzando il provvedimento del 4 marzo 1999
non sarebbe dato conoscere quali fossero questi motivi, nè tanto meno
la gravità degli stessi. Ad avviso dei ricorrenti, dovrebbero essere
considerati nulli tutti gli atti successivi costituenti la diretta
derivazione di quello principale di allontanamento, compreso quello
recante la declaratoria dello stato di abbandono.
Inoltre si deduce violazione dell'art. 111 Cost., commi 1, 2 e 5, e art. 24 Cost., anche in relazione agli artt. 30 e 31 Cost..
Gli atti del procedimento che ha portato alla declaratoria dello stato
di adottabilità sarebbero privi o carenti di motivazione. Il decreto di
adottabilità del 10 febbraio 2000 riporterebbe motivi completamente
contraddittori ed irreali: vi si parla impropriamente di precedenti del
minore con i genitori naturali, quando il bambino è stato tolto alla
madre prima che rientrasse nella sua casa dopo la nascita in ospedale;
non sarebbero indicate le prescrizioni impartite dal Tribunale per i
minorenni ai genitori e dai medesimi non osservate;
vi si fa riferimento ad audizioni di parenti, senza indicare che cosa essi abbiano riferito.
Ancora, viene prospettata la violazione del principio del giusto processo ( art. 111 Cost.,
commi 1 e 2, e art. 76 disp. att. cod. proc. civ.), essendo stato
impedito alla difesa dei ricorrenti di accedere a tutto il fascicolo
inerente al procedimento; nonchè dell'art. 24 Cost., giacchè
gli stessi colloqui sarebbero avvenuti, su iniziativa dei genitori
naturali che chiedevano di essere ascoltati, senza l'ausilio di un
difensore.
Inoltre, viene denunciata la violazione degli artt. 3 e 31 Cost. e della L. n. 184 del 1983,
art. 4, giacchè gli Enti preposti, ed in particolare i Servizi sociali,
non avrebbero mai avviato alcuna seria procedura amministrativa al Cine
di consentire il superamento delle difficoltà della famiglia di origine
del piccolo L..
In subordine, i
ricorrenti chiedono che, ove siano escluse le denunciate nullità, la
Corte sollevi questioni di legittimità costituzionale dell'art. 336 cod. civ. e della L. n. 184 del 1983,
art. 17 per mancata garanzia del giusto processo, sotto il profilo
dell'accesso agli atti del processo (esclusi quelli coperti dal segreto
istruttorio) e delle modalità di acquisizione delle prove in
contraddittorio.
2. - Con il secondo motivo si deduce violazione e falsa applicazione di legge, in relazione alla L. n. 184 del 1983, artt. 1, 8 e 17.
Premesso
che il minore ha diritto di essere educato nell'ambito della propria
famiglia, nella specie non vi sarebbe alcun elemento di valutazione che
possa giustificare l'affievolimento del diritto del minore a vivere con i
propri genitori naturali. In particolare, la dichiarazione dello stato
di adottabilità non è consentita quando sia possibile ovviare alla
situazione di abbandono con misure di sostegno offerte dai Servizi
sociali. Nel caso, i limiti dei genitori naturali avevano natura
transeunte e potevano essere facilmente superati con un minimo di
impegno da parte degli enti assistenziali preposti.
Nè
può valere il fatto che in passato i ricorrenti si sono visti sottrarre
ben quattro figli (ciò che ha indotto nei genitori un senso di
rassegnazione), perchè lo stato di abbandono deve essere valutato
concretamente, nell'attualità e nella contingenza della decisione.
Doveva
essere valutato il miglioramento della situazione della coppia
genitoriale nelle more del giudizio di impugnazione: il lavoro della
Se., il ritorno in famiglia della prima figlia, V., al compimento della
maggiore età, e il viscerale trasporto affettivo dimostrato dai genitori
(in particolare dalla madre) nei confronti del piccolo L..
Nè,
in difetto di ulteriori approfondimenti istruttori, poteva darsi
rilievo, ai fini del raggiungimento della prova dell'abbandono, alla
presenza in ospedale, nei giorni immediatamente successivi alla nascita,
di un "individuo estraneo al nucleo familiare", la cui dichiarata
pericolosità non troverebbe alcun fondamento negli atti istruttori e che
ha potuto fare, forse, anche delle dichiarazioni rivolte a volersi
prendere cura del bambino nel caso fosse allontanato dal Tribunale.
I
ricorrenti deducono, inoltre, che lo stato di indigenza dei genitori
non può costituire ostacolo all'esercizio del diritto del minore alla
propria famiglia. La situazione di abbandono deve essere caratterizzata
da fatti idonei a compromettere in modo irreversibile la personalità del
minore. Questa analisi sarebbe mancata del tutto:
non
sarebbe dato evincere dalla sentenza impugnata quali effetti negativi
avrebbe avuto il minore vivendo nella casa (misera, disordinata e senza
acqua corrente) dei propri genitori. Il fatto che la Se. lavori
attualmente come bidella in una scuola dimostra come la situazione di
precarietà fosse meramente transitoria; nè può definirsi immatura una
persona, come appunto la Se., che, occupandosi del fratello oligofrenico
con lei convivente, ha dato dimostrazione di sapersi prendere cura di
persone fragili che dipendono da lei.
Infine,
i ricorrenti fanno presente che, in contrasto con la previsione
legislativa, la quale detta per il procedimento sullo stato di
adottabilità ritmi serrati, in concreto tutto il procedimento è stato
caratterizzato da tempi lunghissimi, ben cinque anni in primo grado.
Questa
immotivate lungaggini - si sostiene - integrano esse stesse l'abbandono
del minore: non da parte dei genitori naturali, che fin dall'inizio
avrebbero lottato per avere il loro figlio, ma da parte degli organi
giuridici e pubblici che sarebbero dovuti pervenire ad una decisione
celere. Peraltro, la violazione della ragionevole durata, verificatasi
nel corso del procedimento dinanzi al Tribunale per i minorenni, non
potrebbe ripercuotersi negativamente nè sul diritto del bambino a
crescere nella sua famiglia naturale, nè sul diritto dei genitori a
riavere il loro figlio e a farlo crescere con loro, sia pure attraverso
interventi di gradualità. In ogni caso - si precisa conclusivamente -
"le lungaggini processuali hanno favorito decisioni a favore della
adozione di L., visto che oramai da tempo vive con una famiglia
affidataria, benestante, che probabilmente, quando i ricorrenti
finiranno di opporsi, diventerà definitivamente la sua famiglia
adottiva, e tornare indietro sarebbe inopportuno per il minore". 3. -
Vanno preliminarmente esaminate le eccezioni di inammissibilità del
ricorso - (a) per difetto di ius postulandi da parte di uno dei due
avvocati che hanno sottoscritto il ricorso per cassazione; (b) per
difetto di esposizione sommaria dei fatti; (c) per mancata indicazione
delle norme di diritto su cui si fondano i motivi della impugnazione -
sollevate dalla difesa della parte controricorrente.
Esse sono infondate.
3.1.
- Quanto all'eccezione sub (a), va ribadito il principio per cui è
valido il ricorso per Cassazione sottoscritto da due avvocati, di cui
uno solo iscritto nell'albo degli avvocati abilitati alla difesa innanzi
alle giurisdizioni superiori, atteso che l'avvocato abilitato,
apponendo la firma sul ricorso, fa proprio il contenuto dell'atto e ne
assume in pieno la paternità e la responsabilità nei riguardi della
parte assistita, di controparte e del giudice, mentre rimane irrilevante
l'altra sottoscrizione (Cass., Sez. 1^, 28 febbraio 1996, n. 1586). Del
resto, dai principi generali in tema di procura alle liti ( artt. 83 e 365 cod. proc. civ.)
e di mandato (art. 1716 cod. civ., disciplinante l'ipotesi di pluralità
di mandatari) discende che, ove il mandato alle liti venga conferito a
più difensori, ciascuno di essi è autonomamente legittimato alla
sottoscrizione dell'eventuale ricorso per cassazione in assenza, come
nella specie, di una espressa volontà delle parti circa il carattere
congiuntivo del mandato stesso, con conseguente esclusione di ogni
profilo di nullità dell'atto dovuto alla mancata iscrizione di uno dei
due avvocati nell'albo speciale degli abilitati al patrocinio innanzi
alla Corte di Cassazione e alle altre giurisdizioni superiori (cfr.
Cass., Sez. 3^, 24 gennaio 2002, n. 846; Cass., Sez. 2^, 8 marzo 2006,
n. 4921).
3.2. - Del pari infondata è l'eccezione di inammissibilità concernente il preteso difetto del requisito imposto dall'art. 366 c.p.c.,
comma 1, numero 3), atteso che dal contesto del ricorso e possibile
desumere una conoscenza del "fatto", sostanziale e processuale,
sufficiente per ben intendere il significato e la portate delle critiche
rivolte alla pronuncia del Giudice a quo.
3.3. - Infine, deve ritenersi nella specie rispettato il requisito previsto a pena di inammissibilità dall'art. 366 c.p.c.,
comma 1, numero 4), giacchè entrambi i motivi di cui si compone il
ricorso non si limitano a denunciare genericamente l'ingiustizia della
decisione e, prima ancora, i vizi processuali che la inficerebbero, ma
identificano, con puntuale richiamo agli articoli di legge e della Costituzione
che si assumono violati, il contenuto delle censure e delle ragioni
addotte a loro sostegno, così dando a questa Corte il modo di esercitare
la sua funzione istituzionale sulle questioni che formano oggetto di
doglianza.
4. - Passando all'esame dei motivi di ricorso, il primo è inammissibile.
4.1.
- Con riguardo alle censure riguardanti il provvedimento urgente di
allontanamento del minore - sollevate sul rilievo che esso sarebbe stato
emesso senza che sussistessero i gravi motivi e confermato senza il
previo ascolto dei genitori naturali e degli altri soggetti indicati
nella L. n. 184 del 1903, art. 10 e, più in generale, senza il rispetto
delle garanzie del contraddittorio, stante la secretazione degli atti di
indagine, ed in violazione del diritto di difesa, essendo i colloqui
con i genitori naturali avvenuti senza l'ausilio di un difensore -, la
ragione dell'inammissibilità dipende dal fatto che i provvedimenti
temporanei nell'interesse del minore, contemplati dal citato art. 10 nel
corso del processo di adozione e fino all'affidamento preadottivo,
anche quando dispongano l'allontanamento del minore dalla famiglia e la
sospensione dei genitori dalla potestà, sono privi di carattere
decisorio, ed integrano atti di volontaria giurisdizione, in quanto non
risolvono controversie su diritti soggettivi, con statuizioni idonee ad
acquistare autorità di giudicato, ma assolvono ad una funzione meramente
cautelare e provvisoria, essendo destinati a perdere efficacia con la
conclusione di detto processo, e restando comunque modificabili e
revocabili nel corso del processo stesso, con la conseguenza che contro
tali provvedimenti deve escludersi l'esperibilità del ricorso per
cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost (così Cass., Sez. 1^, 29
novembre 1999, n. 13311, e Cass., Sez. 1^, 24 aprile 2003, n. 6524,
sulla scia di Cass., Sez. Un., 21 gennaio 1988, n. 424). A ciò consegue
che detti provvedimenti rimangono assorbiti nella (e superati dalla)
decisione dichiarativa dello stato di adottabilità e, pertanto, una
volta che questa sia sopravvenuta, non v'e più un interesse attuale,
giuridicamente apprezzabile, a farne valere gli eventuali vizi, salvo il
caso in cui essi abbiano compromesso anche la legittimità della stessa
dichiarazione finalità di adottabilità: caso che qui certamente non
ricorre, non essendo la decisione suddetta minimamente fondata sulla
sospensione dei rapporti tra il bambino ed i suoi genitori naturali
conseguente all'allontanamento disposto in via d'urgenza (Cass., Sez.
1^, 1 febbraio 1992, n. 1081).
4.2.
- Del pari inammissibile è la censura contro il decreto dichiarativo
dello stato di adottabilità del minore, avanzata sul rilievo che esso
sarebbe privo di motivazione o, comunque, basato su motivi
contraddittori e irreali, anche per non avere gli Enti preposti, ed in
particolare i Servizi sociali, avviato in favore della famiglia naturale
del piccolo L. interventi di sostegno e di aiuto. Difatti, le nullità
del decreto sullo stato di adottabilità del minore pronunciato dal
Tribunale per i minorenni non possono essere dedotte direttamente con il
ricorso per Cassazione, con il quale possono denunciarsi esclusivamente
i vizi che inficiano la sentenza resa, in sede di impugnazione nel
giudizio di opposizione avverso quel decreto, dalla Corte d'appello.
Sezione per i minorenni.
4.3. -
Generico è, infine, il motivo, la dove censura la nullità degli atti
del giudizio di opposizione, che sarebbero stati compiuti senza offrire
agli opponenti genitori naturali la garanzia del giusto processo e del
diritto di difesa. Difetta, infatti, nel ricorso la precisa e puntuale
indicazione degli atti processuali che sarebbero stati compiuti in
violazione di quei principi e che la Corte d'appello avrebbe poi
utilizzato per pervenire al rigetto, nel merito, della proposta
impugnazione.
4.4. -
L'inammissibilità del primo motivo rende manifestamente inammissibile
per irrilevanza, stante il difetto della necessaria pregiudizialità (L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 23), la questione di legittimità costituzionale dell'art. 336 cod. civ. e della L. n. 184 del 1983, art. 17. 5. - Il secondo motivo è infondato.
5.1.
- Alla esposizione delle ragioni di siffatta conclusione deve
premettersi il rilievo, ripetutamele operato da questa Corte (da ultimo,
Sez. 1^, 14 aprile 2006, n. 8877), secondo il quale il ricorso per
cassazione avverso le decisioni della Corte d'appello in tema di
adottabilità di minorenni, pronunciate ai sensi della L. n. 184 del 1983,
art. 17, è ammissibile soltanto per violazione di legge, come stabilito
dall'ultimo comma dello stesso articolo, tuttora in vigore, benchè
novellato dalla L. 28 marzo 2001, n. 149, art. 16 - in virtù del quale il ricorso è ammesso anche per altri motivi, segnatamente per il motivo di cui all'art. 360 cod. proc. civ.,
comma 1, numero 5) -, essendo l'efficacia della legge modificatrice
tuttora sospesa, limitatamente alle regole di carattere processuale,
dalla disposizione transitoria contenuta nel D.L. 24 aprile 2001, n. 150, art. 1, convertito, con modificazioni, dalla L. 23 giugno 2001, n. 240,
fino all'emanazione di una specifica disciplina sulla difesa d'ufficio,
e comunque non oltre il 30 giugno 2002, termine peraltro più volte
prorogato, e da ultimo, fino al 30 giugno 2006, per effetto del D.L. 30 giugno 2005, n. 115, art. 8, convertito, con modificazioni, dalla L. 17 agosto 2005, n. 168.
Di conseguenza, del vizio di motivazione questa Corte può conoscere
soltanto nei limiti in cui esso si traduca in una violazione di legge:
quando la motivazione è totalmente pretermessa o mancante, ovvero ai
estrinseca in argomentazioni del tutto inidonee a rivelare la ratio
decidendi del provvedimento impugnato (motivazione apparente) o fra loro
logicamente inconciliabili o, comunque, obiettivamente incomprensibili
(motivazione perplessa) (Cass., Sez. 1^, 12 dicembre 2005, n. 27384;
Cass., Sez. 1^, 24 aprile 2006, n. 8526).
Nè nella presente fattispecie occorre porsi il problema dell'applicabilità del D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40,
art. 2 (Modifiche al codice di procedura civile in materia di processo
di cassazione in funzione nomofilattica e di arbitrato, a norma della L. 14 maggio 2005, n. 80,
art. 1, comma 2), il quale ha esteso la possibilità di dedurre il vizio
di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto
controverso e decisivo per il giudizio anche avverso le sentenze contro
le quali finora il ricorso per Cassazione era ammesso esclusivamente per
violazione di legge.
Infatti,
la sentenza della Corte d'appello di Lecce è stata pubblicata
anteriormente alla data di entrata in vigore del predetto art. 2 (v.
citato D.Lgs., art. 27, comma 2).
5.2. - E' indubitabile che la L. n. 184 del 1983,
art. 1 attribuisce al diritto del minore di crescere nell'ambito della
famiglia di origine un carattere prioritario: un diritto del quale è
consentito il sacrificio solo in presenza di una situazione di carenza
di cure materiali e morali, da parte dei genitori e degli stretti
congiunti - ed a prescindere dalla imputabilità a costoro di detta
situazione -, tale da pregiudicare in nodo grave e non transeunte lo
sviluppo e l'equilibrio psicofisico del minore stesso.
Nelle
situazioni di difficoltà e di emarginazione della famiglia di origine,
il recupero di questa, considerata come ambiente naturale, è il mezzo
preferenziale per garantire la crescita equilibrata del bambino, ed
impegna le strutture sociali in misure di sostegno, talora anche di
particolare intensità, a favore del minore stesso e dei genitori,
affinchè, attraverso gli opportuni strumenti di aiuto, nel contesto
d'origine possano realizzarsi i compiti di allevamento, di educazione e
di cura del minore.
L'esigenza
che alla famiglia di origine in difficoltà non manchi, ad evitare la
necessità di un allontanamento del minore dalla sua comunità naturale,
la fattiva collaborazione solidale degli Organi e dei Servizi a ciò
preposti, è non solo un principio da tempo ribadito dalla giurisprudenza
di questa Corte (Sez. 1^, 29 novembre 1988, n. 6542; Sez. 1^, 14 luglio
1992, n. 8556), ma risponde anche ad una espressa previsione
legislativa: la nuova L. n. 149 del 200 (che ha novellato il testo originario della L. n. 184 del 1983)
- nello stabilire (art. 1), in diretta attuazione dei principi che
permeano la nostra Costituzione (art. 30, in relazione all'art. 3, comma
2), che "le condizioni di indigenza dei genitori" "non possono essere
di ostacolo all'esercizio del diritto del minore alla propria famiglia",
e che a favore della famiglia siano disposti "interventi di sostegno e
di aiuto" al fine "di consentire al minore di essere educato nell'ambito
della propria famiglia" - sollecita in primo luogo i Servizi sociali a
non limitarsi a registrare passivamente le insufficienze della realtà
esistente, ma a "farsi costruttori", fin dove è possibile, di relazioni
umane significative ed idonee al benessere del minore anzitutto nella
famiglia di origine.
La
richiamata valorizzazione del legame naturale - e, insieme, la logica di
gradualità e di sussidiarietà degli interventi che ispira la novellata L. n. 184 del 1983,
in una prospettiva, comune alle Carte e alle Convenzioni
internazionali, che assegna all'istituto dell'adozione il carattere di
estremo rimedio - rende necessario un particolare rigore nella
valutazione della situazione di abbandono del minore quale presupposto
per la dichiarazione dello stato di adottabilità dello stesso,
finalizzata esclusivamente all'obiettivo della tutela dei suoi
interessi. In particolare, siffatta valuta- zione non può discendere da
un mero apprezzamento circa la inidoneità dei genitori (o congiunti) del
minore cui non si accompagni l'ulteriore, positivo accertamento che
tale inidoneità abbia provocato, o possa provocare, danni gravi ed
irreversibili alla equilibrata crescita dell'interessato, dovendo,
invece, la valutazione di cui si tratta necessariamente basarsi su di
una reale, obiettiva situazione esistente in atto, nella quale soltanto
vanno individuate, e rigorosamente accertate e provate, le gravi ragioni
che, impedendo al nucleo familiare di origine di garantire una normale
crescita, ed adeguati riferimenti educativi, al minore, ne giustifichino
la sottrazione al nucleo stesso (Cass., Sez. 1^, 14 maggio 2005, n.
10126).
5.3. - Di tali principi la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione.
La
Corte salentina - nel confermare il rigetto dell'opposizione, cui era
pervenuto, in primo grado, il Tribunale per i minorenni di Lecce - non
ha affatto fondato, contrariamente a quanto sostengono i ricorrenti, il
giudizio sulla ricorrenza della situazione di abbandono del piccolo L.
sulla mera indigenza della famiglia dei suoi genitori naturali e sulla
insalubrità ambientale della loro casa di abitazione (da anni priva di
acqua, in stato di totale abbandono ed in condizioni igieniche
estremamente precarie, come testimoniato dalla presenza, in una visita
domiciliare compiuta nel corso del giudizio di opposizione, degli
escrementi dei cani sul pavimento della cucina); nè si è limitata a
prendere atto del fatto che già i primi quattro figli della coppia erano
stati allontanati da quella famiglia ed alcuni di essi dichiarati in
stato di abbandono.
Piuttosto
la Corte di merito ha fondato il proprio convincimento sul fatto che i
genitori naturali del bambino versano, per trascuratezza e neghittosità,
in una situazione di totale degrado, e sono assolutamente carenti sul
piano psicologico e pedagogico e quindi incapaci, pur con il sostegno
dei Servizi, di offrire quel minimo di cure e di attenzioni
indispensabile per non compromettere in modo grave e permanente lo
sviluppo psicofisico del minore.
Questo
giudizio della Corte d'appello è improntato al necessario rigore nella
analisi e nella valutazione, essendo confortato dalle convergenti e
motivate indicazioni provenienti dalle relazioni dei Servizi sociali e
consultoriali, dei consulenti tecnici d'ufficio e dei Carabinieri.
Il
Giudice d'appello ha altresì evidenziato l'assenza di punti di
riferimento parentali per la famiglia dei genitori naturali del piccolo
L., stante la mancata indicazione di familiari entro il quarto grado
disposti ad accogliere il minore; e, in questa prospettiva, ha ritenuto
non significativo il ritorno in famiglia della figlia V., già dichiarata
in stato di adottabilità quando era minorenne, dato che la stessa non
si era offerta di accudire il fratellino.
La
Corte di merito non ha mancato di sottolineare il più volte proclamato
desiderio dei genitori naturali, soprattutto della madre, di riavere il
piccolo L. a casa: solo che - in un quadro oggettivo di assoluta carenza
sul piano psicologico e pedagogico, e quindi di inadeguatezza
all'esercizio del ruolo parentale - l'ha definito soltanto
"velleitario", verosimilmente dettato più da ragioni di orgoglio sociale
che da una seria ed effettiva disponibilità ad allevare ed accudire il
minore.
Nè, ancora, la Corte di
Lecce ha trascurato di considerare il fatto che la madre, nelle more
del giudizio di impugnazione, avesse trovato un'occupazione come bidella
in una scuola, ma - nella sua insindacabile valutazione - ha ritenuto
la circostanza di per sè non significativa, in quanto inidonea a
evidenziare una seria capacità del genitore a prendersi cura del figlio.
La
sentenza impugnata, pertanto, sfugge alla censura di violazione di
legge prospettata dai ricorrenti, essendo in essa presente
l'apprezzamento - frutto di un accertamento approfondito, compiuto con
penetranti indagini anche di carattere medico e psico-sociale - che la
famiglia biologica è assolutamente incapace di assolvere, ancorchè
adeguatamente coadiuvata ed affiancata, le sue funzioni, e che da queste
carenze, non transeunti, potrebbero derivare danni molto gravi ed
irreversibili all'equilibrata e sana crescita psicofisica del minore
medesimo.
Appaiono
inammissibili in questa sede le ulteriori doglianze dei ricorrenti sia
quella rivolta a denunciare le insufficienze dell'aiuto offerto dai
Servizi sociali, posto che tale doglianza involge e sollecita
apprezzamenti in punto di fatto, inibiti a questi Corte di legittimità,
anche per i limiti dell'attuale sindacato ai sensi della L. n. 184 del 1983,
art. 17, e tenuto conto, comunque, che tali doverosi interventi sono
rivolti ad affiancare, integrare e sostenere la famiglia di origine
nelle situazioni di difficoltà, ma non a sostituirsi completamente alla
famiglia nei casi in cui questa è assolutamente incapace di offrire
assistenza morale e materiale;
sia
quella tesa a censurare l'eccessiva protrazione del giudizio di
opposizione allo stato di adottabilità, durato in primo grado cinque
anni circa, trattandosi di rilievo che non ha alcuna attinenza con
l'attuale materia del contendere e che, in ogni caso, non tiene conto
della complessità delle indagini che sono state esperite nel corso di
esso; sia, infine, quella rivolta a sollecitare un diverso apprezzamento
di risultanze processuali, trattandosi di doglianza con cui si tende a
introdurre un non consentito controllo - dati gli attuali limiti alla
cognizione di questa Corte - sull'adeguatezza e sulla sufficienza della
motivazione, anche con riferimento alla valutazione delle risultanze
probatorie acquisite.
6. - Il ricorso è rigettato.
La natura e la complessità delle questioni trattate impone senz'altro l'integrale compensazione delle spese del giudizio.
7.
- Avuto riguardo all'esigenza di garantire la riservatezza dei soggetti
coinvolti nella vicenda giudiziaria di cui si tratta, che concerne
aspetti particolarmente delicati della dignità della persona, questo
Collegio ritiene, ai sensi del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196,
art. 52, comma 2, (Codice in materia di protezione dei dati personali),
di disporre che, a cura della cancelleria, sull'originale della sentenza
sia apposta, a norma dei commi 1 e 3 del citato art. 52, la seguente
annotazione: "In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri
dati Identificativi di tutti i soggetti coinvolti nel giudizio: S.P.,
Se.Lu., Sc.Lu., S.V. e G.A.".
P.Q.M.
La
Corte rigetta il ricorso e dichiara compensate le spese del giudizio di
Cassazione; dispone che, a aura della cancelleria, sull'originale della
sentenza, a norma del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52,
sia apposta la seguente annotazione: "In caso di diffusione omettere le
generalità e gli altri dati identificativi di tutti i soggetti
coinvolti nel giudizio: S.P., Se.Lu., S.L., S.V. e G.A.".
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 19 giugno 2006.
Depositato in Cancelleria il 28 giugno 2006
cost. art. 3
c.c. art. 1716
c.p.c. art. 83
c.p.c. art. 365
R.D.L. 27/11/1933 n. 1578, art. 33
L. 22/01/1934 n. 36, epigrafe
L. 04/05/1983 n. 184, art. 1
L. 04/05/1983 n. 184, art. 8
L. 28/03/2001 n. 149, epigrafe
Nessun commento:
Posta un commento