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CORTE DI CASSAZIONE – IV Sezione Penale – Sentenza n. 38840 del 21
ottobre 2005 – Pres. Battisti – Cons. Brusco – P.M. Ferri –
Pubblica amministrazione:
mancata individuazione del datore di lavoro, omessa emissione del documento di valutazione dei rischi,
omessa designazione
del RSPP e del medico competente, mancata
ottemperanza alla
prescrizione dell’organo di vigilanza.
INFORTUNI SUL LAVORO -
LAVORO (RAPPORTO)
Cass. pen. Sez. IV, (ud. 22-06-2005) 21-10-2005, n.
38840
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE
SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE
Composta dagli Ill.mi
Sigg.ri Magistrati:
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso
proposto da:
avverso SENTENZA del
07/05/2004 CORTE APPELLO di TRENTO;
visti gli atti, la sentenza ed il
procedimento;
udita in PUBBLICA UDIENZA la relazione fatta dal
Consigliere Dr.
Udito il Procuratore Generale
in persona del che ha concluso per l'annullamento con
rinvio della sentenza impugnata;
udito il difensore avv.
Francesco, in sostituzione dell'avv. che ha concluso
per l'accoglimento del ricorso;
La Corte:
Fatto - Diritto P.Q.M.
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
OSSERVA
1) Con
sentenza 7 maggio 2004 la Corte d'Appello di Trento ha confermato la
sentenza 7 ottobre 2002 del Tribunale di Trento che aveva condannato
alle pene ritenute di giustizia I
(nato nel 1954) e (nato nel 1955) per il reato di
lesioni colpose gravi in danno di commesso in Comune
di 16 settembre 1998.
I giudici di merito hanno
ritenuto che i tre imputati -nelle rispettive qualità di
sindaco del Comune di ; classe 1954 di
dirigente dell'ufficio tecnico del medesimo Comune; classe
1955 di preposto con qualifica di coordinatore del medesimo Comune -
avessero per colpa cagionato le lesioni a operaio
dipendente del medesimo Comune, perchè non avevano (i primi due)
predisposto un'adeguata formazione del dipendente infortunato sulle
condizioni di impiego di una scala aerea in modo che venisse utilizzata
in condizioni di sicurezza; quanto al terzo imputato gli era contestato
di non aver vigilato sul corretto impiego della scala che veniva
utilizzata in modo inidoneo (inclinazione inferiore a 72 gradi;
appoggio a strutture fisse dell'estremità superiore; sforzo di trazione
mentre l'operaio si trovava sulla scala) tanto da provocarne il
ribaltamento; da queste violazioni di regole di cautela era derivata la
caduta di al suolo con le conseguenze già indicate.
La
Corte di merito ha ritenuto infondate le censure del sindaco - che
contestava l'attribuzione della qualità di "datore di lavoro", ai sensi
dell'art. 2 comma 1 lett. b del D.Lvo 626/1994 - e ha ritenuto che agli
altri due imputati l'obbligo di sicurezza fosse imposto dall'art. 4 del
d.p.r. 547/1955 in quanto rivestivano le qualità di dirigente e
preposto.
2) Contro la sentenza della Corte trentina ha proposto
ricorso il solo .... il quale ha dedotto, con un primo
motivo di ricorso, la violazione ed erronea applicazione di legge (in
particolare del già ricordato art. 2 del D.L.vo 626 oltre che del
regolamento organico comunale) nonchè il vizio di motivazione sulla
qualifica di datore di lavoro attribuita al sindaco. Secondo il
ricorrente questa qualifica sarebbe esclusa in base al chiaro tenore
delle leggi regionali (artt. 22 e 23 della legge 1/1993; art. 18 della
legge 10/1998) dalle quali si trarrebbe inequivocabilmente che la
qualità indicata compete ai dirigenti dei comuni e non anche agli
organi di direzione politica.
Non sarebbe quindi corretta, secondo il
ricorrente, l'affermazione contenuta nella sentenza impugnata secondo
cui l'attribuzione della qualità in questione al segretario generale,
avvenuta con delibera 30 agosto 2000 della giunta del comune, era priva
di efficacia retroattiva perchè questa delibera avrebbe carattere
meramente ricognitivo di una situazione già disciplinata normativamente
nel senso indicato. Inoltre i giudici di merito non avrebbero tenuto
conto della circostanza che il regolamento comunale prevedeva due
qualifiche superiori (responsabile dell'ufficio tecnico e geometra
coordinatore di cantiere) con attribuzioni in materia di sicurezza e
dotati di ampie facoltà e autonomia decisionale.
Con il secondo motivo
di ricorso, riferito all'esistenza del rapporto di causalità, il
ricorrente lamenta che i giudici di merito non abbiano tenuto conto
della circostanza che l'utilizzazione della scala aerea, invece di
quella c.d. italiana, con modalità abnormi, da parte dell'infortunato,
costituiva una causa sopravvenuta da sola sufficiente a provocare
l'evento con conseguente interruzione del nesso di condizionamento. A
conferma di questa ipotesi nel ricorso vengono poi riportate le
dichiarazioni rese dai testimoni nell'istruzione dibattimentale per
dedurne "che la scala non veniva utilizzata in condizioni di non
sicurezza, che l'infortunato aveva una completa e precisa conoscenza
dell'utilizzo in sicurezza della scala aerea, sapeva di non poterla
usare con inclinazione inferiore ai 72 gradi ed appoggiando l'estremità
superiore a strutture fisse, di dover utilizzare la scala italiana e
ciononostante, autonomamente, agì in contrasto a tali indicazioni." Con
la conseguenza dell'abnormità della condotta del lavoratore da cui
deriverebbe l'inesistenza dell'efficacia causale di quella del
ricorrente.
Con il terzo motivo di ricorso si deduce invece
l'inesistenza di una legge universale a spiegare la relazione tra gli
accadimenti. Con il quarto motivo ci si duole, deducendo il vizio di
motivazione, del giudizio di equivalenza tra le concesse attenuanti
generiche e la contestata aggravante.
3) Sul primo motivo di ricorso
si osserva che - già prima che il D.P.R. 27 aprile 1955 n. 547 (norme
per la prevenzione degli infortuni sul lavoro) e il D.P.R. 19 marzo
1956 n. 303 (norme generali per l'igiene del lavoro) attribuissero
formalmente al datore di lavoro precisi obblighi in tema di tutela
della sicurezza e della salute del lavoratore - il datore di lavoro era
considerato il destinatario principale degli obblighi stabiliti per la
protezione di questi beni nell'ambiente di lavoro anche per la tutela
di coloro che vi si trovano ad operare.
Il datore di lavoro, in questi
risalenti testi legislativi (peraltro per la più parte ancora in
vigore), è individuato con criteri civilistici di natura formale con
riferimento ai soggetti che sono titolari dei rapporti di lavoro (of
nel caso di imprese societarie, a coloro che ne hanno la
rappresentanza).
Questa concezione formale del datore di lavoro è
stata sostanzialmente conservata anche nella prima versione dell'art. 2
del D.L.vo 19 settembre 1994 n. 626 (attuazione di varie direttive Cee
riguardanti il miglioramento della sicurezza e della salute dei
lavoratori sul luogo di lavoro) che, all'art. 2 lett. b, definiva
datore di lavoro "qualsiasi persona fisica o giuridica o soggetto
pubblico che è titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore e
abbia la responsabilità dell'impresa ovvero dello stabilimento".
Questa definizione (del resto conforme alla direttiva Cee 391/89)
ricollegava la qualità in esame alla titolarità del rapporto di lavoro
e poneva vari problemi soprattutto in relazione alla responsabilità
penale che, nel nostro ordinamento, era allora (non essendo ancora
entrato in vigore il D.Lvo 11 aprile 2002 n. 61 riguardante anche gli
illeciti penali delle società commerciali) prevista esclusivamente per
le persone fisiche.
L'art. 2 del D.Lvo 19 marzo 1996 n. 242 (modifiche
e integrazioni al D.Lvo 626/1994) ha interamente sostituito l'art. 2
originario e ha dato la seguente definizione di datore di lavoro agli
effetti delle disposizioni del decreto 626: "il soggetto titolare del
rapporto di lavoro con il lavoratore o, comunque, il soggetto che,
secondo il tipo e l'organizzazione dell'impresa, ha la responsabilità
dell'impresa stessa ovvero dell'unità produttiva, quale definita ai
sensi della lettera i), in quanto titolare dei poteri decisionali e di
spesa". Per completezza di ricostruzione la lett. i del medesimo art. 2
così definisce l'unità produttiva: "stabilimento o struttura
finalizzata alla produzione di beni o servizi, dotata di autonomia
finanziaria e tecnico funzionale".
Con questa significativa modifica
legislativa, come è stato affermato in dottrina, "all'iniziale criterio
di imputazione, di natura prevalentemente giuridico formale, basato sul
binomio "titolarità del rapporto di lavoro responsabilità dell'impresa"
se ne è sostituito un altro, di carattere più sostanziale, che fa leva
soprattutto sull'effettività dei poteri decisionali e di spesa
attribuiti al soggetto investito della responsabilità della gestione
dell'impresa o di una sua autonoma unità produttiva".
Dunque, in base
alla più recente normativa, ai fini delle disposizioni di cui al D.Lvo
626, la qualifica di datore di lavoro non è intesa nel senso
esclusivamente civilistico e giuslavoristico, e quindi limitata a chi è
titolare del rapporto di lavoro, ma si estende a chi ha la
responsabilità dell'impresa o dell'unità produttiva ed è titolare dei
poteri decisionali e di spesa.
La dottrina ne ha tratto la conseguenza
- peraltro obbligata in base all'assetto normativo sinteticamente
accennato - della possibilità di coesistenza, all'interno della
medesima impresa, di più figure aventi la qualità di datore di lavoro
ai sensi del D.Lvo 626 perchè accanto al datore di lavoro, inteso nel
senso civilistico tradizionale quale titolare dei rapporti di lavoro,
possono esservi coloro che hanno la responsabilità dell'impresa o di
una o più unità produttive che non sono invece titolari dei rapporti di
lavoro; sempre che, beninteso, siano titolari dei poteri decisionali e
di spesa.
4) Questa premessa era necessaria perchè i principi che
fondano la prevenzione antinfortunistica per le imprese private sono
stati per la prima volta estesi, con alcuni adattamenti, anche alle
pubbliche amministrazioni.
Per tali amministrazioni la lett. b
dell'art. 2 D.Lvo 626/1994 (anche in questa parte completamente
innovato dall'art. 2 del D.Lvo 242/1996) precisa che "per datore di
lavoro si intende il dirigente al quale spettano i poteri di gestione,
ovvero il funzionario, non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi
in cui quest'ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia
gestionale".
L'esame di questa norma sembra confermare che il datore
di lavoro nelle pubbliche amministrazioni ha poteri più contenuti
rispetto a quelli dei datori di lavoro privati: non si parla di poteri
decisionali e di spesa ma di poteri di gestione che certamente
comprendono anche poteri decisionali e di spesa ma l'autonomia
gestionale non può non fare riferimento a poteri di decisione e spesa
coerenti con gli indirizzi dell'amministrazione e con le disponibilità
che l'amministrazione, intesa come direzione politica dell'ente, decide
di impiegare nella gestione ovviamente nei limiti stabiliti dalla
normativa non solo nazionale.
Ma, indipendentemente da queste
considerazioni, poichè la legge non individua il dirigente (o il
funzionario) cui attribuire la qualifica di datore di lavoro sembra
evidente che questo compito debba essere adempiuto dalla pubblica
amministrazione con l'attribuzione della detta qualità e il
conferimento dei relativi poteri di autonomia gestionale. Proprio per
la rilevanza dei compiti e per la responsabilità che deriva dal
conferimento della qualità in esame non può ritenersi che la qualità di
datore di lavoro, ai sensi dell'art. 2 D.Lvo 626, possa essere
attribuita implicitamente ad un dirigente o funzionario solo perchè
preposti ad articolazioni della pubblica amministrazione che hanno
competenze nel settore specifico.
L'attribuzione della qualità di
datore di lavoro non può che essere espressa anche perchè comporta i
poteri di gestione in tema di sicurezza; d'altro canto come è possibile
individuare il datore di lavoro con la semplice preposizione a settori
della pubblica amministrazione quando le attribuzione del datore di
lavoro riguardino più settori della pubblica amministrazione (nel caso
del comune i lavori pubblici, la viabilità, i trasporti ecc.)?.
Non è
quindi condivisibile la tesi del ricorrente secondo cui, anche prima
della formale attribuzione al segretario generale del Comune di ...
della qualità di datore di lavoro (attribuzione avvenuta con
deliberazione della giunta comunale n. 630 del 30 agosto 2000, e quindi
in data successiva all'incidente), tale qualifica già spettava
normativamente al segretario comunale. Del resto la sentenza impugnata,
nell'interpretare questa delibera (compito riservato al giudice di
merito) evidenzia che la medesima per un verso sembra prendere atto che
la funzione di datore di lavoro è attribuita al segretario generale ma,
per altro verso, e contradditoriamente, rileva che la piena operatività
delle disposizioni contenute nella legge regionale che disciplina la
materia necessita di un provvedimento della giunta comunale.
5) Il
problema che deve essere risolto è dunque quello relativo al problema
di chi debba considerarsi datore di lavoro prima che venga individuata
questa figura dagli organi comunali competenti.
Su questo problema va
ricordato che l'art. 30 comma 1 del già ricordato D.Lvo 19 marzo 1996
n. 242 stabiliva che entro 60 giorni dall'entrata in vigore del
medesimo decreto "gli organi di direzione politica o, comunque, di
vertice delle amministrazioni pubbliche............., procedono
all'individuazione dei soggetti di cui all'art. 1, comma 2, 3 febbraio
1993, n. 29, procedono all'individuazione dei soggetti di cui all'art.
2, comma 1, lettera b), secondo periodo, del presente decreto, tenendo
conto dell'ubicazione e dell'ambito funzionale degli uffici nei quali
viene svolta l'attività".
Sono dunque gli "organi di direzione
politica" che dovevano procedere all'individuazione e la formulazione
della norma consente di affermare che si tratta di una valutazione
ricollegata alle caratteristiche specifiche della pubblica
amministrazione che viene in considerazione dovendosi tenere conto
dell'ubicazione e dell'ambito funzionale degli uffici; e ciò consente
di avere conferma dell'impossibilità di una scelta non espressa e non
accompagnata dei ricordati poteri di gestione alla persona fisica sia
pure determinata con l'individuazione della specifica funzione
rivestita.
La conseguenza di questa mancata indicazione non può che
avere la conseguenza - a meno di ritenere che per un indefinito periodo
di tempo si crei una sorta di immunità derivante da una scelta omissiva
consapevole dell'obbligato - che è l'organo di direzione politica a
conservare la qualità di datore di lavoro quanto meno nel periodo
successivo alla scadenza dei sessanta giorni indicati dalla legge e
fino all'individuazione del datore di lavoro da parte dell'organo
obbligato a questo adempimento.
Non si tratta dell'attribuzione di una
responsabilità impropria ad un soggetto con competenze di natura
diversa perchè agli organi di direzione politica (sindaco e giunta
comunale) sono attribuiti originariamente anche i poteri di
sovrintendere alle scelte di gestione e direzione amministrativa con il
conferimento di tutti i poteri conseguenti. D'altro canto la
circostanza che l'individuazione del datore di lavoro competa
all'organo di direzione politica conferma che si tratta di un potere
che spetta originariamente a questo organo non diversamente, del resto,
da quanto avviene per i soggetti privati. E neppure è da escludere che
la responsabilità dell'organo di direzione politica riviva: per es. nei
casi in cui non vengano messe a disposizione del datore di lavoro, pur
individuato, le disponibilità finanziarie necessarie per attuare le
misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro.
Con specifico
riferimento poi alla legislazione regionale ampiamente citata nel
ricorso (in particolare la 1. 4 gennaio 1993 n. 1 e la l.
23 ottobre
1998 n. 10) - e già presa in attenta considerazione dalle due sentenze
di merito - si osserva che nessuna di queste leggi disciplina il tema
in questione nel senso di predeterminare il soggetto cui deve essere
attribuita la qualità di datore di lavoro ed anzi entrambi i testi
normativi rimandano genericamente agli statuti comunali e ai
regolamenti.
Se poi dovesse farsi riferimento alla legge regionale n.
10 citata, come pretende il ricorrente, pur trattandosi di legge
entrata in vigore successivamente all'infortunio (avvenuto il 16
settembre 1998) vi si trova la conferma della non automatica
attribuzione al segretario comunale della qualità in questione perchè
l'art. 18 comma 99 di questa legge attribuisce alla giunta comunale
l'individuazione degli atti attribuiti alla competenza dei dirigenti;
e la lettura riduttiva che ne fornisce il ricorrente (fondandola sul
richiamo al comma 1) si pone in palese contrasto con il tenore della
norma richiamata che sembra invece avere applicazione generalissima su
tutti i settori dell'attività comunale.
Questa soluzione non
contraddice, ad avviso della Corte, la disciplina normativa sulle
autonomie locali e sul pubblico impiego ed in particolare l'art. 51
comma 2 della l. 8 giugno 1990 n. 142 sull'ordinamento delle autonomie
locali ("Spetta ai dirigenti la direzione degli uffici e dei servizi
secondo i criteri e le norme dettati dagli statuti e dai regolamenti
che si uniformano al principio per cui i poteri di indirizzo e di
controllo spettano agli organi elettivi mentre la gestione
amministrativa è attribuita ai dirigenti.") e l'art. 3 del D.Lvo 3
febbraio 1993 n. 29 sulla razionalizzazione dell'organizzazione delle
amministrazioni pubbliche ("Gli organi di direzione politica
definiscono gli obiettivi ed i programmi da attuare e verificano la
rispondenza dei risultati della gestione amministrativa alle direttive
generali impartite. Ai dirigenti spetta la gestione finanziaria,
tecnica e amministrativa, compresa l'adozione di tutti gli atti che
impegnano l'amministrazione verso l'esterno, mediante autonomi poteri
di spesa, di organizzazione delle risorse umane e strumentali e di
controllo. Essi sono responsabili della gestione e dei relativi
risultati." Il principio che si trae da questa normativa è chiaro: agli
organi elettivi o di direzione politica spettano i poteri di indirizzo,
di definizione dei programmi e degli obiettivi che l'ente pubblico deve
attuare; ai dirigenti compete la direzione degli uffici e dei servizi e
la gestione finanziaria tecnica e amministrativa nonchè la gestione e
l'attuazione dei programmi definiti dagli organi di direzione politica.
Non v'è quindi dubbio che, una volta che gli organi di direzione
politica abbiano adempiuto ai compiti programmatici loro affidati il
dirigente sia responsabile dell'azione od omissione nell'espletamento
delle sue funzioni di attuazione del programma e, in questo senso,
questa sezione condivide l'orientamento fatto proprio dalla terza
sezione di questa Corte (si veda in particolare la sentenza 13 gennaio
1999 n. 2297, Moffa, rv. 213156) che ha escluso la responsabilità del
sindaco per le contravvenzioni in tema di prevenzione degli infortuni
sul lavoro a meno che si riferiscano a carenze strutturali addebitabili
ai vertici dell'ente. E il discorso delle carenze strutturali
addebitabili ai vertici era già presente nella precedente sentenza
della medesima sezione 30 aprile 1996 n. 5407, Gargiulo, rv. 205785.
Nel nostro caso ci troviamo però presenza dell'inadempimento di un
obbligo direttamente gravante, per espressa disposizione di legge,
sull'organo di direzione politica; quindi non si pone neppure il
problema della ripartizione di competenze tra organo di direzione
politica e organo di gestione amministrativa in assenza della
designazione che incombeva sul primo. E ben può ritenersi inquadrabile
nelle carenze strutturali la mancata designazione della persona su cui
incombono i doveri primari di prevenzione.
Ne consegue che è
addebitabile a ..... il comportamento omissivo addebitatogli
con particolare riferimento all'inesistenza della formazione del
lavoratore dipendente nell'uso della scala aerea montata su un veicolo
che richiedeva un'adeguata preparazione per il suo uso e che era
completamente mancata come accertato dai giudici di merito.
6)
Infondato è altresì il secondo motivo di ricorso che ripropone
all'attenzione di questa Corte il problema dell'interpretazione
dell'art. 41 comma 2 c.p.p. ("Le cause sopravvenute escludono il
rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a
determinare l'evento").
Sono noti i termini del pluridecennale
dibattito svoltosi sull'interpretazione da dare a questa norma il cui
scopo, secondo l'opinione maggiormente seguita, è quello di temperare
il rigore derivante dalla meccanica applicazione del principio generale
contenuto nel primo comma dell'art. 41 in esame che si ritiene abbia
accolto il principio condizionalistico o dell'equivalenza delle cause
("condicio sine qua non"): il nesso di condizionamento esiste, e la
condotta può essere considerata causa di un evento, se non può essere
mentalmente eliminata senza che l'evento venga meno.
E' stato
affermato in dottrina che se il secondo comma in esame venisse
interpretato nel senso che il rapporto di causalità dovesse ritenersi
escluso solo nel caso di un processo causale del tutto autonomo
verosimilmente si tratterebbe di una disposizione inutile perchè, in
questi casi, all'esclusione si perverrebbe anche con l'applicazione del
principio condizionalistico.
Deve pertanto trattarsi, secondo questo
orientamento, di un processo non completamente avulso dall'antecedente
ma caratterizzato - a seconda delle varie teorie della causalità (che
in realtà su questo tema non divergono significativamente; salvo forse
la teoria della "causalità adeguata") - da un percorso causale
completamente atipico, di carattere assolutamente anomalo ed
eccezionale; di un evento che non si verifica se non in casi del tutto
imprevedibili a seguito della causa presupposta.
E' noto l'esempio
riportato nella relazione ministeriale al codice penale: l'agente ha
posto in essere un antecedente dell'evento (ha ferito la persona
offesa) ma la morte è stata determinata dall'incendio dell'ospedale nel
quale il ferito era stato ricoverato.
Il che, appunto, non solo non
costituisce il percorso causale tipico (come, per es., il decesso a
seguito del ferimento) ma realizza una linea di sviluppo del tutto
anomala della condotta, imprevedibile in astratto e imprevedibile per
l'agente che non può anticipatamente rappresentarla come conseguente
alla sua azione od omissione (quest'ultimo versante riguarda l'elemento
soggettivo ma il problema, dal punto di vista dell'elemento oggettivo
del reato, si pone in termini analoghi).
Questa elaborazione del
concetto di causa sopravvenuta è stata, in più occasioni, ribadita
anche dalla giurisprudenza di legittimità (cons., tra le numerose
altre, Cass., sez. 1^, 10 giugno 1998 n. 11024, ...; 12 novembre
1997 n. 11124, ...; sez. 4^, 21 ottobre 1997 n. 10760, Lini; 19
dicembre 1996 n. 578, ...; 6 dicembre 1990 n. 4793, ...; 12
luglio 1990 n. 12048, ...).
Nel campo della sicurezza del lavoro
questi principi vengono applicati per escludere l'esistenza del
rapporto di causalità nei casi in cui sia provata l'abnormità del
comportamento del lavoratore infortunato e sia provato che proprio
questa abnormità abbia dato causa all'evento; questa caratteristica
della condotta del lavoratore infortunato è idonea ad interrompere il
nesso di condizionamento tra la condotta e l'evento quale causa
sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l'evento in base al già
ricordato art. 41 comma 2 cod. pen..
Nella nostra materia deve dunque
considerarsi abnorme il comportamento che, per la sua stranezza e
imprevedibilità, si ponga al di fuori di ogni possibilità di controllo
da parte delle persone preposte all'applicazione delle misure di
prevenzione contro gli infortuni sul lavoro ed è stato più volte
affermato, dalla giurisprudenza di questa medesima sezione, che
l'eventuale colpa concorrente del lavoratore non può spiegare alcuna
efficacia esimente per i soggetti aventi l'obbligo di sicurezza che si
siano comunque resi responsabili della violazione di prescrizioni in
materia antinfortunistica (cfr. Cass., sez. 4^, 14 dicembre 1999 n.
3580, ..., rv. 215686; 3 giugno 1999 n. 12115, ..., rv.
214999; 14 giugno 1996 n. 8676, ..., rv. 206012).
Ma come può
affermarsi che abbia queste caratteristiche il comportamento del
lavoratore che abbia compiuto un'operazione rientrante pienamente,
oltre che nelle sue attribuzioni, nel segmento di lavoro attribuitogli,
sia effettuata con l'utilizzazione di un attrezzo di cui gli è stata
fornita la disponibilità e destinato al suo uso proprio seppur
utilizzato con modalità improprie.
Neppure se il comportamento del
lavoratore fosse contrario ad una norma di prevenzione ciò sarebbe
sufficiente a ritenere la sua condotta connotata da abnormità essendo,
l'osservanza delle misure di prevenzione, finalizzata anche a prevenire
errori e violazioni da parte del lavoratore.
Deve quindi ritenersi
corretto l'argomentare dei giudici di merito i quali, attenendosi ai
principi ricordati, hanno escluso l'abnormità della condotta del
lavoratore infortunato.
7) Il terzo motivo, sempre riferito al
rapporto di causalità, è inammissibile per genericità. Peraltro se, con
uno sforzo interpretativo del ricorso, la censura può intendersi
riferita all'asserita inesistenza di una legge universale idonea a
spiegare l'evento trattasi di doglianza infondata: la sentenza delle
sezioni unite di questa Corte 10 luglio 2002 n. 30328, ..., ha
infatti chiarito che non è necessario, perchè possa essere ritenuto
esistente il rapporto di causalità, che la causa di un evento possa
essere spiegata in base ad una legge di tipo universale purchè
l'esistenza del nesso di condizionamento possa essere provata in
termini di elevata credibilità razionale.
Nella specie, al di là di
alcune improprie espressioni utilizzate nella sentenza impugnata, i
giudici di merito hanno accertato (si veda in particolare la sentenza
di primo grado a p. 2 e ss. della motivazione) che la scala aveva
ceduto perchè utilizzata con un'inclinazione superiore a quella
consentita e perchè non era stata adeguatamente bloccata. Questa
ricostruzione non è posta in discussione dal ricorrente ed è idonea a
dimostrare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che se fossero state
osservate le regole di prevenzione l'infortunio non si sarebbe
verificato.
8) Parimenti inammissibile è l'ultimo motivo di ricorso
che si riferisce al giudizio di equivalenza tra le circostanze sia
perchè solo genericamente contestato sia perchè la Corte di merito ha,
sia pur succintamente, offerto una valutazione di correttezza sul
giudizio espresso dal primo giudice in tema di comparazione delle
circostanze.
Per le considerazioni svolte il ricorso deve essere
rigettato.
Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente
al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
La Corte Suprema di
Cassazione, Sezione Quarta Penale, rigetta il ricorso e condanna il
ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma,
il 22 giugno 2005.
Depositato in Cancelleria il 21 ottobre 2005
c.p.
art. 41
D.P.R. 27/04/1955 n. 547, art. 4
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