Ingiuria in danno di agenti di polizia: quando il contesto legittima l'epiteto "razzista" come un irrefrenabile estrinsecarsi del diritto di critica
INGIURIA E DIFFAMAZIONE - PROVA IN GENERE IN MATERIA PENALE
Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 19-04-2010) 26-07-2010, n. 29338
Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 19-04-2010) 26-07-2010, n. 29338
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
Con
sentenza emessa il 9.4.08, il giudice di pace di Firenze ha condannato
D.V.C.G. alla pena di Euro 1.000 di multa e al pagamento delle spese
processuali, avendolo ritenuto colpevole del reato di ingiuria,
aggravata ex art. 61 c.p., n. 10, in danno di agenti di polizia. Il difensore ha presentato ricorso per i seguenti motivi:
1. violazione di legge in riferimento agli artt. 594 e 51 c.p..;
vizio di motivazione : il giudice non ha affrontato il tema
dell'esimente del diritto di critica in relazione alle espressioni usate
dal D.V., dottorando in Storia Contemporanea, da anni impegnato nel
dibattito cittadino sulla gestione delle politiche migratorie e di
integrazione. L'intervento critico nei confronti dell'operato degli
agenti di polizia era giustificato dal clima intimidatorio,
caratterizzato dall'uso della forza fisica nei confronti di due persone
di cittadinanza nigeriana. Il giudice di pace ha ritenuto inverosimile
la narrazione dell'accaduto da parte dell'imputato, con ragionamento
apodittico che poggia su assunti, oltre che ipotetici ed indimostrati
(la razionalità, correttezza e regolarità dell'agire della polizia
giudiziaria), logicamente e giuridicamente abnormi : da un lato sembra
affermare che un abuso delle forze dell'ordine non può essere commesso
se non in presenza di una valida ragione; dall'altro sembra escludere
che possano accadere simili episodi.
Secondo
il ricorrente,poi, è stata trascurata l'indubbia rilevanza sociale del
contesto in cui si è svolta l'azione. L'intervento del D.V. è stato
motivato dall'intento della tutela dei deboli e dalla finalità di porre
l'attenzione su metodologie operative che mettono in discussione gli
stessi fondamenti di un ordinamento democratico e dei rapporti del
singolo con i pubblici poteri. Accertata l'esistenza di abusi o di
atteggiamenti comunque vessatori di agenti di polizia nei confronti di
persone di nazionalità straniera, l'espressione "razzista" è formalmente
contenuta perchè utilizzata come reazione all'atteggiamento
discriminatorio che contrasta con i doveri di imparzialità e correttezza
della pubblica amministrazione nei confronti di appartenenti a
minoranze etniche.
2. Violazione di legge in riferimento all'art. 594 c.p.;
vizio di motivazione : nel dispositivo si legge "responsabile dei reati
ascritti", anche se è contestato un solo reato e non si da
giustificazione nella motivazione a questo incongruenza.
3. violazione di legge in riferimento al D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 34:
il giudice non ha esaminato la sussistenza o meno dei parametri
codificati dalla legge; non è giunto alla declaratoria di
improcedibilità, doverosa in presenza dei presupposti sostanziali e
procedurali. Di qui la nullità della sentenza.
Il ricorso merita accoglimento.
Il
primo giudice, esclusa la rilevanza penale di alcune espressioni
pronunciate dal D.V., in quanto di carattere "pittoresco", ha
concentrato la sua attenzione sul termine "razzista" e ha confrontato la
credibilità delle dichiarazioni delle persone offese e la credibilità
di quelle dell'imputato, escludendo la prima senza alcuna concreta e
coerente giustificazione. Dal testo della motivazione si ricava che
queste dichiarazioni indicano la seguente ricostruzione dell'operato
degli agenti di polizia : questi, dopo aver effettuato la rapida
identificazione di due cittadini della Nigeria, li hanno
trattenuti,senza alcun motivo e quindi illecitamente, limitando così in
maniera non corretta la loro libertà personale.
A
questa ricostruzione, il giudice non ne ha contrapposto un'altra,
indicando in maniera adeguata l'iter logico argomentativo che lo ha
condotto a ad accreditarne la prevalente forza di convincimento. Si
è,invece, limitato a considerare la narrazione dell'imputato
intrinsecamente immeritevole di credito,attribuendole,in maniera
esplicita, la qualifica di "inverosimile" e attribuendo, in maniera
implicita, alla narrazione delle persone offese la qualifica di
"presuntivamente" vera, senza però descriverla e senza un' analitica
valutazione, suscettibile di controllo. Il giudice ha cioè affermato che
le censure e le critiche all'operato dei querelanti (consistito in una
limitazione della libertà dei cittadini stranieri, che per la assenza di
giustificazione si caricava di significato intimidatorio e
discriminatorio) erano presuntivamente inverosimili per la invincibile
presunzione di correttezza accreditatale all'imprecisato operato e alle
imprecisate dichiarazioni delle persone offese.
E'
nota la prevalente giurisprudenza che, razionalmente, riconosce alle
dichiarazioni della persona offesa una credibilità pari a quella
riconosciuta alle dichiarazioni degli altri testimoni, senza gravarle di
una presunzione di inaffidabilità bisognosa di integrazioni e conferme
esterne. Razionalmente è da escludere uno speculare orientamento
interpretativo che voglia riconoscere una presunzione di credibilità
alle dichiarazioni delle persone offese in generale o di quelle di un
particolare tipo, il cui operato sia assistito da una presunzione di
correttezza. Non è accettabile un orientamento interpretativo
-corollario del precedente - che intenda canonizzare un'anomala regola
d'esperienza, secondo cui le critiche e le censure formulate nei
confronti dell'operato di persone investite di pubblica autorità sono,
indipendentemente da specifiche analisi, presuntivamente inverosimili e
incredibili, in base a una valutazione già effettuata con esito negativo
dal legislatore e comunque dal diritto vivente.
Questa
presunzione che assista testimonianze di un certo tipo non trova
riconoscimento nel nostro ordinamento e quindi è doverosa la specifica
motivazione del giudice sulla loro credibilità. Questo dovere non è
stato rispettato dal giudice di pace di Firenze,la cui sentenza è quindi
carente di motivazione in un punto centrale dell'affermazione di
responsabilità del D.V.. Non risulta quindi contestato o smentito da
risultanze processuali che la sua espressione di critica all'operato
degli agenti di polizia - consistente nella non corretta limitazione
della libertà di stranieri, già sottoposti con esito positivo agli
accertamenti di rito - possa rientrare nel diritto dei cittadini di
sottoporre a controllo e a valutazioni negative l'azione dei pubblici
funzionali, che appaiano difformi rispetto a norme di legge e ai supremi
principi della nostra Costituzione. Queste valutazioni sono di
immediata rilevanza sociale, perchè dalla loro formulazione, indenne da
reazioni punitive da parte dello Stato, dipende la sussistenza e il
consolidarsi della democrazia nel nostro paese.
Il
requisito della correttezza formale dell'espressione usata al D.V. si
ricava dalla piena ed insostituibile adeguatezza del termine, rispetto
al contenuto della sua critica.
Quanto al
secondo motivo, è da rilevare che il riferimento ai reati ascritti
all'imputato è frutto di mero errore materiale, non sussistendo la
possibilità che la condanna per altro reato possa sussistere in assenza
di una specifica formulazione dell'imputazione nell'atto decisorio e in
assenza di un cenno, anche fugace, nella parte motiva.
Le
argomentazioni critiche contenute nel terzo motivo sono del tutto
superate dal riconoscimento della fondatezza dei primi motivi.
La sentenza va quindi annullata senza rinvio,perchè il fatto non costituisce reato.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata senza rinvio perchè il fatto non costituisce reato.
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