Infortunio sul lavoro: il sindacato può costituirsi parte civile per chiedere il risarcimento del danno per la lesione delle sue prerogative di controllo e promozione della sicurezza sul lavoro
Cass. pen. Sez. IV, (ud. 18-01-2010) 11-06-2010, n. 22558
Svolgimento del processo
In
data 11.2.2000 nel mentre l'operaio S.R. dipendente della Demont srl
con funzioni di gruista, stata procedendo a mezzo di una autogru di
proprietà della stessa Demont ma noleggiato, con c.d. nolo a caldo alla
T.C. snc, al posizionamento di una trave metallica, si verificava un
incidente che aveva come conseguenza il decesso del predetto operaio;
l'incidente avveniva all'interno del cantiere della predetta T.C. snc,
area di cantiere diversa da quella della Demont, essendo stato lo S.
colà inviato insieme alla gru a seguito del predetto nolo a caldo; in
particolare, come acclarato nelle sentenze di merito, la gru Gottwald
AMK 106-51, alla cui conduzione e manovra vi era lo S., stava sollevando
una pesante trave metallica agganciata al braccio telescopico
utilizzando il solo argano principale allorchè il braccio della gru si
allungava e la fune del (Ndr: testo originale non comprensibile)
risalendo all'indietro, trascinava con sè il bozzello ed il relativo
gancio dell'argano ausiliario del peso di circa 140 Kg; le funi, il
bozzello ed il gancio superavano la testa del braccio e precipitando
verso la cabina dei gruista, ne provocavano lo sfondamento colpendo alla
testa il lavoratore che decedeva sul colpo.
Del
fatto venivano chiamati a rispondere, per quanto qui rileva, F.E.
responsabile di produzione della divisione industriale Demont e da essa
delegato per sovraintendere alla sicurezza dei propri cantieri, con
facoltà di sub delega, e B.G. capocantiere, sub delegato dal F. a
sovraintendere alle attività svolte nel cantiere di (OMISSIS); si
contestava loro la colpa generica e specifica di aver consentito
l'utilizzo della gru in cattivo stato di manutenzione, non rispondente
alle misure di sicurezza e non assoggettata alle verifiche annuali; di
averne consentito l'uso non in conformità delle istruzioni del
fabbricante in particolare consentendo che la gru lavorasse con due
ganci (quello principale e quello ausiliario) installati
contemporaneamente, con le staffe antiscarrucolamento recise e rimosse
con la fiamma ossidrica;
di aver tollerato la
prassi "contra legem" di armare le funi secondo uno schema diverso da
quello previsto dal costruttore; di non avere adeguatamente informato e
formato il gruista sui rischi connessi alla sua specifica attività.
Il
giudice di primo grado riteneva sussistenti i predetti profili di
colpa, imputabili sia al F. che al B.. Il primo per non aver svolto le
funzioni di vigilanza e controllo in materia di sicurezza, che gli
competevano quale datore di lavoro della vittima, nonostante l'esistenza
di delega in favore al capocantiere B. quest'ultimo per mancanza della
diretta sorveglianza sulla gru e sul gruista tanto più che era stato
proprio lui ad avere inviato l'operaio a compiere il lavoro nel corso
del quale decedeva. Ritenute le circostanze attenuanti generiche
equivalenti alla contestata aggravante ex art. 589 c.p., comma
2, il tribunale li condannava alla pena di 10 mesi di reclusione
ciascuno oltre a risarcimento unitamente al responsabile civile s.r.l.
Demont, del danno in favore della costituita parte civile D.B.A. vedova
del lavoratore deceduto cui assegnava una provvisionale di Euro 200.000,
nonchè organizzazioni sindacali FIOM - CGIL, FIM - CISL EUILM - UIL,
danno liquidato in Euro 15.000,00 per ciascuna.
La sentenza veniva integralmente confermata in grado di appello.
Avverso
la sentenza resa dalla corte di appello di Genova hanno proposto
ricorso per Cassazione gli imputati F. e B. e il responsabile civile
amministratore della società Demont, deducendo per il tramite dei
rispettivi difensori di fiducia, motivi identici quanto a B. e alla srl
Demont e in larga parte coincidenti quanto a F..
Con
il primo motivo, comune a tutti i ricorrenti, viene censurato
l'accertamento del nesso di causalità che si assume viziato da difetto
di motivazione e travisamento della prova. Si sostiene che la sentenza
impugnata manca di motivazione effettiva in punto di prova della
sussistenza del nesso di causalità fra le condotte colpose contestate e
l'evento, non ha risposto alle censure mosse con l'appello e si è
limitata ad un richiamo formale alle argomentazioni svolte in primo
grado, senza spiegare le ragioni di tale adesione.
Se
era posto in dubbio che eventuali difetti di manutenzione, come
intestati, potessero essere causa dell'infortunio, ed in particolare che
la presenza a loro posto delle staffe di antiscarrucolamento (risultate
precise) avrebbe potuto impedire alle funi, al bozzello ed al gancio
dell'organo ausiliario della gru di precipitare investendo la cabina di
manovre e il povero S., così come ritenuto dal giudice di primo grado;
si era posto in evidenza che la staffa in questione è rappresentata da
un tondino di pochi millimetri e che lo stesso consulente del pubblico
ministero aveva affermato che probabilmente esse sarebbero state
strappate dall'urto degli anzidetti pesanti componenti; si era altresì
contestata l'affermazione del medesimo consulente secondo cui in tal
caso sicuramente il gancio non sarebbe finito sulla cabina ma avrebbe
seguito un'altra traiettoria; si era denunciato che quest'ultimo era
un'affermazione del tutto gratuita priva di qualsiasi supporto o
spiegazione scientifica, non chiarita dal giudice d'appello e sulla
quale era indispensabile la sollecitata perizia invece non ammessa;
si
era sottolineato che lo stesso consulente aveva affermato che la causa
principale dell'incidente era che si era lavorato tenendo il gancio del
lavoro ausiliario istallato sul mezzo, comportamento questo che i
difensori degli imputati hanno sempre sostenuto essere direttamente
riferibile a una scelta sbagliata e pericolosa dello stesso infortunato e
dunque ad un comportamento di quest'ultimo tale da elidere il nesso di
causalità;
si lamenta che il giudice di primo
grado ha invece ritenuto l'esistenza di una pressi contra legem,
consistente nel consentire che la gru lavorasse con i due ganci (quello
principale e quello ausiliario) installati contemporaneamente, e che
tale tesi, fondata sul travisamento delle risultanze processuali, non è
stata debitamente sottoposta a nuova valutazione dal giudice di appello.
Con
un secondo motivo ci si duole del diniego di perizia, che si ricorda
essere stata sempre sollecitata dalla difesa degli imputati e necessaria
laddove, come nella specie, si trattava di ricostruire le cause
dell'incidente sulla base di leggi scientifiche.
Con
un terzo motivo si lamenta la sussistenza di vizio motivazionale
analogo a quello sopra denunciato sul nesso causale anche in relazione
ai vari profili di colpa ritenuti sussistenti÷ con riferimento
all'obbligo di manutenzione, non si è tenuto conto che la gru veniva
utilizzata dal solo S. dagli stessi giudici ritenuto gruista esperto, e
che in assenza di segnalazioni di guasti da parte del medesimo o dei
tecnici incaricati, non potevano pretendersi intervento alcuno da parte
di B. e F. con riferimento alla ritenuta omissione del dovere di
formazione e informazione del giurista, non si sono volute considerare
le diverse dichiarazioni dei testi ing. V. e B. non si è considerato che
la mancata verifica annuale e la concessione in uso della gru non hanno
avuto efficacia causale alcuna, nè che andava indagata la prevedibilità
ed evitabilità in concreto dell'evento come conseguenza specifica dei
vari profili di colpa evocati ed in particolare sotto il profilo delle
circostanze in cui si è verificato l'evento allorchè lo S. operava in
altro cantiere sotto la guida tecnica ed operativa di altro
capocantiere, con impossibilità degli imputati di controllare cosa egli
stesse facendo.
Con ulteriore motivo tutti i
ricorrenti si soffermano su tale ultimo profilo sostenendo che non è
stata opportunatamente valutata la circostanza del c.d. nolo a caldo.
S.R. era stato inviato con la gru Gottwald AMK 106-51 in una area del
cantiere ENEL diversa da quella in cui operava la Demont srl e
precisamente nell'area cantieristica di pertinenza della T.C. snc ed ivi
seguiva le direttive impartitegli da capo cantiere di quest'ultima
ditta;
nella escutine di questi lavori la gru
operava con una configurazione scorretta: nonostante si stesse lavorando
con il solo organo principale, la gru aveva mantenuto sia pure
parzialmente la configurazione dell'argano ausiliario con relativa fune,
bozzello e gancio.
Erroneamente secondo i
ricorrenti, i giudici, sia in primo che in secondo grado, hanno escluso
ogni responsabilità da parte di dirigenti e preposti della T.C., senza
tenere conto che, essendosi l'incidente verificato nel cantiere di
quest'ultimo e sotto la sorveglianza della stessa, ne doveva essere
almeno vagliata la eventuale responsabilità al fine di valutare se vi
fosse stata interruzione del nesso causale o comunque al fine di
limitare quella, eventualmente concorrente, della Demont.
Si
sostiene che non vi è prova che la gru sia uscita dal cantiere demont
s.r.l. con l'erronea configurazione e che tale configurazione che non
può che dipendere dallo specifico lavoro che la gru doveva compiere, è
stata evidentemente decisa in loco per rispondere alle specifiche
esigenze della ditta che aveva richiesto il noleggio, la T.C. snc, con
responsabilità di quest'ultima.
Con il quinto motivo sempre comune ai ricorrenti, si deduce difetto di motivazione in ordine alla valutazione delle circostanze.
In
particolare si lamenta che negare l'attenuante del risarcimento del
danno non si è tenuto conto dell'offerta risarcitoria formulata
10.4.2003 dalla Ras società di assicurazione della Demont, di 155.000,00
Euro nei confronti della vedova dell'operaio deceduto.
Erroneamente
il risarcimento è stato ritenuto non tempestivo (mentre è stata
effettuata prima del rinvio a giudizio), non valido ai fini di cui
trattasi in quanto non proveniente dagli imputati) in contrasto con la
giurisprudenza di questa Corte che riconosce la natura oggettiva
dell'attenuante e che dunque ammette che il risarcimento possa essere
effettuato anche dall'istituto assicurativo) e non accettato (laddove la
giurisprudenza ritiene valida oltre all'offerta reale, anche un'offerta
comunque estrinsecata in termini chiari, concreti ed incondizionati).
Peraltro la provvisionale fissata dal giudice è stata versata.
Con
il sesto motivo, anch'esso comune, si eccepisce la nullità
dell'ordinanza con cui il Tribunale della Spezia ha ammesso la
costituzione di parte civile dei sindacati, nonché del capo della
sentenza della Corte di appello che la richiama e del favore. I
ricorrenti, premesso che la Corte di appello ha omesso specifiche
motivazioni al riguardo, richiamandosi, senza alcuna rivalutazione, alla
sentenza di primo grado, riportano la motivazione di tale sentenza che
(pp. 2 - 4) ha giustificato la propria decisione affermando che essendo
"la questione relativa alla sicurezza nell'ambiente di lavoro uno dei
fini sindacali di categoria ... la ritenuta violazione della sicurezza
nell'ambiente di lavoro - avente incidenza causale sulla produzione
dell'evento mortale, costituisce un fatto ingiusto, fonte certa di un
danno altrettanto ingiusto e, per ciò stesso, risarcibile mediante la
costituzione di parte civile nel processo penale, nella misura in cui si
tratta di una lesione del diritto di personalità del sodalizio, con
riferimento allo scopo ed ai suoi componenti. Nel caso di specie, le
citate organizzazioni sindacali ... possono vantare non solo un
interesse legittimo alla generica osservanza delle norme poste a tutela
dei lavoratori, bensì un diritto proprio nel processo penale, da
esercitare mediante la costituzione di parte civile e la richiesta di
risarcimento del danno subito".
I ricorrenti
ricordano che le questioni di diritto che sottengono la vicenda sono
state e, sono tutt'ora, oggetto di analisi da parte della dottrina e
della giurisprudenza e soggette a rilevanti sviluppi sui quali si
sollecita questa Corte a prendere una espressa posizione. Infatti, circa
l'analisi dei presupposti per l'esercizio dell'azione risarcitoria da
parte delle associazioni sindacali, si è sottolineato, con
giurisprudenza a lungo incontrastata, (Sez. 4^ 23.5.1990, n. 18440
Landini, CED n. 186068 e Sezioni Unite 21 maggio, 1988, Iori) la
necessità della esistenza, oltre che di una condotta ingiusta, di un
danno ingiusto, ritenendo risarcibile solo quello che derivi dalla
lesione di un interesse tutelato in via diretta ed immediata da una
norma giuridica, ed avente dunque natura di diritto da una norma
giuridica, ed avente dunque natura di diritto soggettivo; pervenendo
così ad escludere la legitimatio ad causam delle organizzazioni
sindacali. I ricorrenti ricordano come a fronte delle aperture
provenienti dai giudici di merito, la Cassazione è intervenuta ancora
con la sentenza 13 luglio 1993, Arienti con la quale, sulla base
dell'art. 9 dello Statuto dei lavoratori, è stata ammessa la
legittimazione del sindacato alla costituzione di parte civile a
condizione che il lavoratore fosse iscritto al sindacato stesso. Nella
specie non vi è prova della iscrizione del lavoratore deceduto ai
sindacati parti civili, e certamente non poteva essere iscritto a tutti e
tre.
Si sostiene che la partecipazione al
giudizio degli enti portatori di interessi collettivi, quali i
sindacati, è limitata alla forma prevista dall'art. 91 c.p.p., e
cioè ad un intervento che, oltre ad essere subordinato a specifiche
condizioni fissate da tale norme, è comunque svincolato da finalità
risarcitorie.
Viene criticata poi la ritenuta
lesione - da parte della sentenza di primo grado - di un diritto
soggettivo alla immagine o alla reputazione da parte delle
organizzazioni sindacali, osservandosi che in nessun elemento della
succinta motivazione si ricostruisce la prova dimostrativa dell'avvenuta
verificazione dell'evento dannoso;
nessun riferimento vi è a calo delle iscrizioni o recesso degli associati.
Si assume, da ultimo, la violazione dell'art. 538 c.p.p.,
in quanto essendo state dichiarate prescritte tutte le violazioni in
materia antonfortunistica, la condanna al risarcimento dei danni
avvenuta in mancanza del necessario presupposto costituito da una
sentenza di condanna.
I motivi preposti per
l'imputato F. si estendono altresì contestare la ritenuta posizione di
garanzia; si deduce che egli era stato delegato a sovrintendere alla
sicurezza dei cantieri Enel in data (OMISSIS) con facoltà di subdelega e
che, esercitando tale facoltà, il (OMISSIS), aveva subdelegato il
capocantiere B.G. a sovrintendere alle attività svolta nel cantiere di
(OMISSIS). Il F. all'epoca dei fatti, sovrintendeva alla sicurezza di
ben 25 cantieri ed aveva conferito la delega al B. in considerazione
della sua competenza e capacità organizzativa; pur potendosi ammettere
la necessità comunque di una sua supervisione e controllo, la Corte
avrebbe dovuto stabilire se si potesse esigere in concreto dal delegante
un controllo tanto penetrante ed incisivo da impedire la inosservanza
degli obblighi di sicurezza e il comportamento tenuto dallo S..
Sotto
il medesimo profilo il difensore del F. contesta altresì l'accertamento
della colpa avendo la Corte, a suo avviso, omesso l'accertamento della
prevedibilità ed evitabilità dell'evento in concreto, per non avere
tenuto conto della sua posizione apicale della presenza di sub delega,
delle dimensioni dei suoi compiti che si estendevano alla vigilanza su
ben 25 cantieri.
Si duole poi della mancata concessione delle attenuanti generiche.
Motivi della decisione
I
ricorsi non meritano accoglimento risultando in parte infondati e in
parte manifestamente infondati o non consentiti motivi proposti.
Prendendo
in esame innanzitutto le censure che riguardano l'accertamento della
responsabuilità degli imputati, deve in primo luogo rilevarsi la
inammissbilità delle stesse nella misura in cui si basano su un asserito
vizio di travisamento delle prove.
Affinchè
tale vizio sia deducibile davanti alla Corte di Cassazione è onere del
ricorrente provvedere alla trascrizione in ricorso dell'integrale
contenuto degli atti di cui lamenti l'omessa o travisata valutazione,
perchè di essi è precluso al giudice di legittimità l'esame diretto, a
meno che il "fumus" del vizio non emerga all'evidenza della stessa
articolazione del ricorso stesso (da ultimo Sez. 1^ 22.1.2009 n. 6112
rv. 243225).
Tale requisito di completezza e
specificità del ricorso è, nel presente caso, assolutamente mancante. Il
preteso travisamento è semplicemente evocato a più riprese nel corso
del ragionamento, con generico riferimento alle risultanze processuali
che - si afferma - avevano pacificamente portato a determinati
risultati, senza però mai indicare dove, come e perchè le risultanze
processuali sarebbero nel senso preteso e inconciliabili con quanto
ritenuto nelle sentenze, senza dunque un preciso ancoraggio a puntuali
dati di riferimento che indichino con esattezza il contenuto della prova
assunta e che si lamenta ingiustamente travisata.
Rimangono dunque definitivamente accertati i fatti come risultanti dalle sentenza di primo e secondo grado.
Altrettanto
infondati sono i ricorsi laddove si dolgono della mancanza di una più
approfondita disamina dei motivi di appello atteso che, come già è stato
chiarito (sez. 5^ 15.2.2000 n. 3751 rv. 215722) è legittima la
motivazione della sentenza di secondo grado che disattendendo le censure
formulate con l'appello, si uniformi, sia per la "ratio decidendi, sia
per gli elementi di prova, ai medesimi argomenti valorizzati dal primo
giudice soprattutto se la consistenza probatoria di essi è così
prevalente e assorbente da rendere superflua ogni ulteriore
considerazione.
Nell'ipotesi in cui siano
dedotte come nella specie, questioni già esaminate e risolte, il giudice
dell'impugnazione può motivare "per relationem" e trascurare di
esaminare argomenti superflui non pertinenti, generici o manifestamente
infondati.
Nessuna illogicità e poi
rinvenibile nella motivazione dei giudici di merito laddove gli stessi,
la corte d'appello non esplicita rinvio alla più diffusa e integrativa
sentenza di primo grado, hanno ritenuto, sulla base degli accertamenti
di fatto compiuti, la colpa degli imputati derivante dall'inosservanza
dei doveri collegati alle rispettive posizioni di garanzia e la
rilevanza del comportamento colposo, come si vedrà sotto plurimi profili
accettato sul nesso di causalità.
Anticipando
il discorso al tema della colpa, deve in primo luogo rilevarsi che la
più diffusa sentenza del tribunale aveva posto in evidenza come subito
dopo l'incidente fosse stato incontestabilmente accertato dagli organi
ispettivi il grave stato di cattiva conservazione della gru che
presentava evidente lesioni strutturali (sulla testa del braccio e sulla
c.d. ralla, perdita di olio e non funzionamento del dispositivo dei
limitatori di carico), il superamento dei tetti massimi di ore di lavoro
previste da parte del gruista, la mancanza della prescritta
manutenzione annuale del mezzo nemmeno richiesta all'Arpal dalla società
Demont, come sarebbe stato suo dovere, l'assenza di una compiuta
informazione e formazione dell'operaio gruista, la recisione delle
staffe anti scarrucolamento da entrambi i bracci della gru, la
tolleranza di una scorretta prassi di utilizzo della gru (lasciando
innestati bozzello e gancio dell'organo ausiliario pur in assenza del
jib) in contrasto con quanto prescritto delle istruzioni e al solo scopo
di risparmiare tempo nelle operazioni che richiedevano l'uso del
braccio secondario.
Correttamente tale giudice ha ritenuto che questi comportamenti colposi hanno avuto incidenza causale sull'evento.
E'
stato opportunamente sottolineato che la società Demont utilizzava e
faceva utilizzare dai propri dipendenti un macchinario, quale la gru di
cui si discute, assai sofisticato e altamente pericoloso, senza
accertarsi del suo stato di conservazione e funzionamento, e dunque con
colpa rilevante ai fini del presente processo essendo evidente che ove
fosse stata compiuta la prescritta verifica annuale i tecnici dell'Arpal
avrebbero potuto verificare la avvenuta recisione delle staffe di
antiscarrucolamento e la disapplicazione dello schema di armamento delle
funi rispetto a quanto previsto dal costruttore.
E'
stata altresì rilevato, richiamando le osservazioni del consulente del
pubblico ministero, che la presenza delle staffe anti scarrucolamento
(pacificamente risultate recise da tempo essendosi ormai ossidati i
punti di recisione) avrebbe evitato il verificarsi dell'incidente,
dovendosi qui evidenziare - per rispondere al motivo di ricorso proposto
al riguardo - che il Tribunale (pag. 19) aveva già riportato una
importante precisazione del consulente tecnico il quale, pur avendo
ammesso che, qualora tali staffe fossero state regolarmente al loro
posto probabilmente la forza di tensione dell'allungamento del braccio
della gru avrebbe potuto anche strapparle via e quindi il bozzello
sarebbe potuto passare oltre la testa della gru, aveva tuttavia aggiunto
che in tale ipotesi certamente il manovratore si sarebbe reso conto di
quanto stava per accadere ed in ogni caso, sicuramente il peso non
sarebbe finito sopra la cabina, perchè la interferenza dovuta alla
presenza delle staffe stesse lo avrebbe fatto andare da un'altra parte.
Si tratta di affermazione che esprime un giudizio di facile e comune
comprensione e che non necessita pertanto, come ritenuto dai giudici di
merito, di conferma scientifica.
Pacifica poi è
l'efficacia causale delle modifiche apportate rispetto al corretto
armamento della gru, atteso che proprio la presenza in loco del bozzello
e del gancio dell'argano ausiliario in assenza del jib ha comportato,
in una con la recisione delle staffe anticarrucolamento, la produzione
dell'evento mortale che si è verificato per il contraccolpo e lo
scivolamento all'indietro dei detti componenti.
La
Corte di appello ha, peraltro ritenuto decisiva la circostanza della
rimozione delle staffe antiscarrucolamento sottolineando, con
osservazione di indubbia pregnanza e difficilmente contestabile, che
tali staffe erano costituite da sbarre metalliche saldate alla testa del
braccio della gru in modo ortogonale, che le stesse erano state recise
da tempo con la fiamma ossidrica e che appariva oltremodo difficile
ipotizzare una causa del sinistro per causa diversa, ritenendo dunque
superflua l'effettuazione della sollecitata perizia.
La
valutazione è congrua e non censurabile essendo pacificamente compito
dei giudici di merito l'accertamento delle circostanze di fatto
rilevanti ai fini del decidere e la valutazione della completezza della
attività istruttoria, salvo l'obbligo della motivazione che nella specie
risulta rispettato specie allorchè si tenga conto di tutte le
precisazioni effettuate dal consulente del pubblico ministero.
La
difesa dei ricorrenti prospetta ancora la tesi volta ad attribuire, da
un lato, la responsabilità dell'incidente allo stesso S., per avere
operato con la impropria configurazione della gru, ovvero, dall'altro,
al personale della T.C. snc dove la gru concretamente operava al momento
dell'incidente. Anche tali profili hanno trovato risposta, essendosi
correttamente osservato che la colpa non poteva in alcun modo
addebitarsi al gruista dal momento che le modifiche della gru (la
recisione delle staffe) erano assolutamente visibili, e l'utilizzo della
stessa con una configurazione vietata era ben nota ed avveniva
nell'interesse della società Demont, per accorciare i tempi necessari a
rendere operativa la gru stessa e consentire di effettuare più
rapidamente il lavoro , la società dunque, anzi che consentire una
prassi pericolosa, avrebbe dovuto vigilare per impedirlo, così come
avrebbero dovuto i suoi responsabili curare la manutenzione della gru e
la formazione del personale, risultata carente sotto il profilo della
specifica attività dei gruista e dei rischi connessi alla stessa.
Dal
secondo punto di vista, è stato ben chiarito che per effetto del c.d.
nolo a caldo, la gru e il suo operatore erano stati destinati ad
operare, svolgendo una attività del tutto analoga a quella normalmente
compiuta nel proprio ambiente di lavoro, nel diverso cantiere della T.C.
e dunque sottoposti alle direttive dei responsabili di cantiere quanto
alle concrete modalità del lavoro da eseguire e ai rischi specifici
derivanti dall'impiego del mezzo nel detto cantiere; restava però a
carico dei responsabili della Demont l'obbligo di garantire la sicurezza
sul lavoro del proprio dipendente e soprattutto quello di affidargli un
mezzo conforme alle prescrizioni della normativa per la prevenzione
infortuni, ben conservato, in regola con la manutenzione e altresì
l'obbligo di assicurarsi che il lavoratore fosse bene istruito e
informato sulle modalità di uso di tale mezzo e che lo stesso venisse
concretamente utilizzato conformemente alle prescrizioni di sicurezza;
obblighi e cautele che si sono invece rivelati pesantemente disattese.
Con
specifico riferimento alla posizione dell'imputato F. resta da
esaminare la questione della efficacia esimente dalla "delega" dallo
stesso conferita dal "capocantiere" B..
Deve
al riguardo chiarirsi che, come emerge pacificamente delle sentenze
impugnate (in particolare da quella di primo grado pag. 30), F. aveva
ricevuto delega scritta per la materia della prevenzione infortuni da
parte dell'amministratore delegato della divisione industriale della
Demont (delega che il giudice di primo grado ha ritenuto effettiva in
quanto erano stati trasferiti piena autonomia, poteri di spesa, mezzi
economici e obbligo di vigilanza sui subdelegati), e a sua volta aveva
conferito a B. parte di tali incombenze, incaricandolo di sovrintendere
alle attività svolte nel cantiere aperto in (OMISSIS) con particolare
cura per quanto riguarda il rispetto delle disposizioni vigenti in
materia di sicurezza del lavoro. si trattava, quanto a quest'ultima
delega, della attribuzione al B. delle funzioni tipiche del preposto,
quelle cioè che al medesimo B. sarebbero spettate anche in assenza di
delega espressa, essendo strettamente collegate alla posizione
funzionale, di capocantiere (e dunque preposto), dal medesimo rivestita.
Tanto si precisa per fare chiarezza sulle rispettive posizioni degli
imputati, da individuarsi quella di F. in relazione alla sua qualità di
datore di lavoro (o ad esso equiparato stante la provenienza a pienezza
dei poteri che la delega dell'amministratore delegato gli aveva
attribuito) e di semplice preposto con riguardo a B.; ed in particolare
per eliminare ogni equivoco sulla possibilità che con tale delega il F.
potesse considerarsi esentato da ogni responsabilità.
Equivoco
che il ricorso che il ricorso in qualche modo sembra contenere, laddove
fa riferimento alle dimensioni dell'azienda, sottolineando che vi erano
ben 25 cantieri aperti, alla autonomia del delegato B. e alla sua
qualificazione professionale per sostenere che non era pure si riconosce
che gli competeva, di supervisione e controllo e si lamenta che i
giudici di merito, pur dando atto di tale situazione, non ne abbiano
tratto le dovute conseguenze. Tanto premesso, risulta assolutamente
corretta la ritenuta responsabilità di F. per essere venuto meno al
dovere di vigilanza e controllo circa la corretta esecuzione da parte
del preposto delle proprie funzioni, dovere che peraltro la tessa delega
a F. imponeva di rispettare, e che la pacifica da ultimo sez. 4^
12.10.2005 n. 44650 rv. 232617 giurisprudenza di questa Corte ha
costantemente ribadito affermando in particolare che "In tema di
prevenzione infortuni il datore di lavoro, così come il dirigente, deve
controllare acchè il preposto, nell'esercizio dei compiti di vigilanza
affidatagli, si attenga alle disposizioni di legge e a quelle,
eventualmente in aggiunta, impartitegli. Ne consegue che, qualora
nell'esercizio dell'attività lavorativa sul posto di lavoro si instauri,
con il consenso del preposto, una prassi contra legem, foriera di
pericoli per gli addetti il datore di lavoro do il dirigente, ove
infortunio si verifichi, non può utilmente scagionarsi assumendo di non
essere stato a conoscenza della illegittima prassi, tale ignoranza
costituendolo, di per sè, in colpa per denunciare l'inosservanza al
dovere di vigilare sul comportamento del preposto, da lui delegato a far
rispettare le norme antinfortunistiche" (sez. 4^ 16.11.1998 n. 17491,
Raho m. u. 182857;
Sez. 4^ 16.1.2004 n. 18638 m. u. 228344).
Infondate
sono le censure attinenti il mancato riconoscimento dell'attenuante del
risarcimento del danno. Infatti, pur dovendosi concordare con la difesa
circa la possibilità di ritenere valido ai fini in esame anche il
risarcimento effettuato dall'istituto ai fini in esame anche il
risarcimento effettuato dall'istituto assicurativo secondo la ormai
pacifica giurisprudenza di questa Corte, resta il fatto che la
concedibilità dell'attenuante presuppone l'effettivo ed integrale
risarcimento del danno; nel caso in esame la somma offerta di Euro
155.000,00 messa a disposizione della compagnia assicurativa RAS, è
stata invece ritenuta inadeguata dalla persona offesa a titolo di
complessivo risarcimento per il sinistro e per il pagamento degli
onorari professionali; valutazione condivisa dai giudici di merito,
essendo stata riconosciuta, a titolo di semplice provvisionale, la ben
più alta somma di Euro 200.000,00.
La
valutazione della Corte di appello in ordine al giudizio di equivalenza
delle attenuanti generiche con quella della violazione della normativa
di prevenzione risulta correttamente motivata sulla base della gravità
del fatto e della prolungata condotta omissiva degli imputati.
Deve da ultimo affrontarsi il tema della costituzione di parte civile delle organizzazioni sindacali.
Al
riguardo è opportuno in primo luogo ribadire che, come hanno già avuto
modi di chiarire le sezioni unite di questa Corte con la sentenza Iori,
n. 6168 del 21.5.1988 rv. 181123, l'ordinanza di ammissione della
costituzione di parte civile non è impugnabile autonomamente; con essa
si pone infatti una questione strettamente correlata con il diritto (al
risarcimento del danno derivato dallo specifico reato contestato).
Non è dunque censurabile la sentenza impugnata che no ha preso posizione al riguardo.
Un'altra
precisazione si rende preliminarmente necessaria con riferimento ai
diritti riconosciuti agli enti e associazioni rappresentativi degli
interessi lesi dal reato degli artt. 91 e seg. del codice di rito,
disposizioni che, secondo la difesa dei ricorrenti, esaurirebbero le
possibilità di tutela che l'ordinamento riconosce agli enti
esponenziali. Ritiene al riguardo il Collegio che la prospettiva non sia
esatta. Gli articoli richiamati prevedono una forma di intervento e
partecipazione al processo penale sicuramente nuova, in quanto non
conosciuta dal codice di rito previgente, ma non esaustiva delle facoltà
riconosciute ad enti e associazioni rappresentativi degli interessi
lesi dal reato; si tratta di modalità di partecipazione al processo
ulteriore rispetto alla costituzione di parte civile, che resta
pienamente possibile e consentita nei limiti di quanto stabilito dall'art. 74 c.p.p., e del richiamato art. 185 c.p.; ciò è confermato dalla disposizione dell'art. 212 disp. att. c.p.p.
il cui senso è quello di ricondurre la possibilità di costituzione di
parte civile, eventualmente consentita da disposizione previgenti, al
rispetto dei limiti di cui al predetto art. 74 c.p.p.. Nè può diversamente ritenersi a seguito della espressa previsione contenuta nel D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 61
che attribuisce alle organizzazioni sindacali e alle associazioni delle
vittime dei familiari delle vittime di infortuni sul lavoro la facoltà
di esercitare i diritti e le facoltà della persona offesa, trattandosi
di una previsione che non modifica il quadro generale delle possibilità
di partecipazione al processo, ma si limita a riconoscere a determinati
soggetti, tra cui anche i sindacati, il potere di intervenire nel
processo a prescindere dai requisiti stabiliti dal codice di rito.
Venendo
al tema di fondo posto dai ricorsi degli imputati, la questione della
legittimazione a costituirsi parte civile nel procedimento penale
promosso per un reato che si concreta nell'essere stata cagionata la
morte o lesioni personali ad un lavoratore subordinato con inosservanza
delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, si inquadra
nel più generale tema del riconoscimento della tutela degli interessi
collettivi e diffusi e della azionabilità di posizioni giuridiche
soggettive non rientranti nella tradizionale nozione di diritto
soggettivo.
Si tratta di questione delicata e a
lungo dibattuta, riguardo alla quale appare opportuno un breve
inquadramento sistematico ed il richiamato dei passaggi fondamentali che
hanno segnato l'evoluzione della giurisprudenza di questa Corte, senza
peraltro pretesa di completezza alcuna, certamente non possibile nei
limiti della presente decisione e attesa la complessità della materia.
Riferimento
fondamentale in materia è l'art. 74 del codice di rito vigente, a norma
del quale "l'azione civile per le restituzioni e per il risarcimento
del danno di cui all'art. 185 c.p. può essere esercitata nel
processo penale del soggetto la quale il reato ha recato danno ovvero
dai suoi successori universali nei confronti dell'imputato e del
responsabile civile". La norma è sostanzialmente conforme alla
disciplina precedente, rispetto alla quale il termine persona è stato
però sostituito con quello "soggetto" per chiarire che sono legittimate
non solo le persone fisiche e giuridiche ma anche soggetti non
personificati, come appunto è il caso che qui interessa, avendo il
sindacato natura giuridica di associazione non riconosciuta.
La
questione della legittimazione alla costituzione di parte civile
(legitimatio ad causam) si risolve dunque nella individuazione del
soggetto al quale il reato ha recato danno e dei requisiti del danno
risarcibile (danno ingiusto).
Per lungo tempo
la giurisprudenza di questa Corte, sia civile che penale, ha affermato,
almeno in prevalenza, principi assai restrittivi in materia che possono
ricondursi alla necessità che il danno consista nella lesione di un
diritto soggettivo e sia conseguenza immediata e diretta dell'illecito
(v. in particolare sez. un. Civili 8.5.1978 n. 2207 Prov. Autonoma di
Trento c./Italia Nostra; sez. un. Penali 21.4.1979 n. 5519 pelosi rv.
142254 e sez. un. Penali 21.5.1988 n. 3 Iori rv.).
In
particolare in questa ultima sentenza, premesso che l'azione civile per
le restituzioni e il risarcimento del danno è unica, sia che venga
esercitata proponendo la relativa domanda al giudice civile, sia che
venga proposta in sede penale e che identici sono i presupposti e le
condizioni necessarie per l'ammissibilità della domanda, è stato
chiarito che la legittimazione alla costituzione di parte civile
corrisponde alla titolarità del diritto fatto valere con l'azione
proposta e che il danno per essere risarcibile, deve essere ingiusto,
ribadendosi che danno ingiusto è quello che deriva dalla lesione di un
interesse tutelato in via diretta ed immediata dall'ordinamento e cioè
dalla lesione di un diritto soggettivo; si è esclusa la legittimazione a
costituirsi parte civile del consiglio di fabbrica sulla base del
seguente principio "in caso di reato colposo a danno di un lavoratore,
verificatosi per l'inosservanza di una norma di prevenzione degli
infortuni da parte di un soggetto obbligato a garantire la sicurezza
dello svolgimento del lavoro, il consiglio di fabbrica non ha titolo a
pretendere il risarcimento del danno da parte di chi, mediante
l'inosservanza della norma di prevenzione, ha cagionato il reato e non
può quindi costituirsi parte civile perchè, in tal caso, il diritto leso
è quello alla propria integrità fisica, spettante esclusivamente al
singolo lavoratore, e non quello, spettante alla collettività dei
lavoratori, al controllo dell'applicazione delle norme per la
prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali e alla
promozione di ricerca, elaborazione e attuazione di tutte le misure
idonee a tutelare la salute e l'integrità fisica dei lavoratori".
La
sentenza ha approfondito il tema degli interessi collettivi pur
riconoscendo che anche tali interessi, definiti collettivi in quanto
riferibili appunto ad una collettività indeterminata dei soggetti
impersonalmente ritenuti portatori degli interessi stessi, possono
essere tutelati in modo diretto ed immediato dall'ordinamento giuridico
cosi da assurgere a diritti (e che il danno risarcibile può essere sia
patrimoniale che non patrimoniale), ha precisato che l'interesse
collettivo assurge a diritto solo quando è individuato a una norma
cosiddetta di protezione che dà giuridico rilievo all'interesse stesso
con riferimento ad una collettività determinata, caratterizzata dalla
comunanza degli interessi in questione, facendo assurgere la
collettività stessa al soggetto di diritto. Ha poi individuato nel
potere di diretto controllo sull'osservanza della normativa di
protezione dei lavoratori e di autonoma promozione di attività di studio
e ricerca al riguardo l'interesse direttamente protetto dall'art. 9
dello Statuto del Lavoratori in capo alla collettività dei lavoratori di
ciascuna azienda (nella specie si discuteva della costituzione di parte
civile del consiglio di fabbrica), escludendo che il fatto illecito
contestato, l'avere gli imputati cagionato lesioni colpose a un
dipendente, potesse ritenersi lesivo del diritto individuato dall'art.
9. Allorchè, a causa dell'inosservanza di una norma di prevenzione, si
verifichi una lesione della salute di un lavoratore, un tale fatto, di
per sè, secondo le Sezioni Unite, non implica la violazione del diritto
conferito alla collettività dei lavoratori dall'art. 9; implica la
violazione del diritto alla salute del lavoratore, il quale soltanto ha
titolo per pretendere il risarcimento del danno da parte di chi,
mediante la inosservanza della norma di prevenzione, ha cagionato la
lesione.
La necessità della diretta ed
immediata consequenzialità tra reato e danno (ancorata allo specifico
requisito previsto dall'art. (Ndr:
testo
originale non comprensibile) c.c. in tema di responsabilità per
inadempimento contrattuale) e questa Corte, via via che si evidenziava
la natura plurioffensiva dell'illecito penale e si affermava la
possibilità di ritenere risarcibili anche danni che nella norma penale
trovano solo una protezione mediata, non costituendo gli stessi oggetto
pacificamente ritenuto (da ultimo sez. 1 8.11.2007 n. 4060 rv 239189;
sez 1 2.3.2005 n. 13408 rv 231336; sez 3 12.7.2004 n. 36059 rv 229481)
che il danneggiato dal reato ai sensi degli artt. 185 e 74 c.p.p.
non si identifica necessariamente con il soggetto passivo del reato, ma
è chiunque abbia riportato un danno attivo del reato. E anche la
dottrina ha affermato che la locuzione "danno immediato e diretto"
esprime semplicemente reato e danno, richiedendo uno stretto
collegamento del danno con gli interessi tutelati dalla norma penale
incriminatrice al fine di evitare che vengano esercitate in sede penale
azioni civili solo occasionalmente connesse al reato per cui si procede.
Requisito centrale del danno risarcibile è dunque diventato quello posto dall'art. 2043 c.c. del "danno ingiusto".
Tradizionalmente,
e lo si è già sopra ricordato, l'ingiustizia del danno è stato
identificato nella lesione di un diritto soggettivo.
Si
è avuto, però, negli ultimi anni, un fenomeno notevolmente ampliativi
dell'area del danno risarcibile, che sulla spinta della più attenta e
moderna dottrina ha visto una sensibile giurisprudenza civile ed anche
penale riconoscere la azionabilità di situazioni giuridiche soggettive
qualificate dalla lesione di interessi particolari non strettamente
riconducibili al diritto soggettivo.
Si
possono ricordare, in sede civile, la risarcibilità del danno
conseguente alla lesione da parte di un terzo di un diritto di credito
(cd. tutela aquilana del credito); il riconoscimento di posizioni
giuridiche, quali il cd. diritto all'integrità del patrimonio e il cd.
diritto alla libera determinazione negoziale che, pur non avendone la
consistenza, venivano elevate al rango di diritto soggettivo; il
riconoscimento del danno da perdita di chance e quello da lesione di
legittime aspettative nell'ambito dei rapporti familiari ed anche al di
fuori di essi con riferimento alla famiglia di fatto. Particolarmente
significative, nella prospettiva evolutiva qui evidenziata, sono state
le sentenze delle sez. un. Nn. 500 e 501 del 1999, che hanno
riconosciuto la risarcibilità, in precedenza sempre negata, del danno
provocato dalla lesione dell'interesse legittimo e che, come si ricava
dalla semplice lettura di una delle massime estratte, contengono
affermazioni di principio di carattere generale che vanno al di là della
soluzione dello specifico caso considerato, essendosi ritenuto che "la
normativa sulla responsabilità aquiliana ex art. 2043 cod. civ.,
ha la funzione di consentire il risarcimento del danno ingiusto,
intendendosi come tale il danno arrecato "non iure", il danno, cioè
inferto in assenza di una causa giustificativa, che si risolve nella
lesione di un interesse rilevante per l'ordinamento, a prescindere dalla
sua qualificazione formale, ed, in particolare senza che assume rilievo
la qualificazione dello stesso in termini di diritto soggettivo.
Peraltro,
avuto riguardo al carattere atipico del fatto illecito delineato
dall'2043 cod. civ., non è possibile individuare in via preventiva gli
interessi meritevoli di tutela spetta, pertanto, al giudice, attraverso
un giudizio di comparazione tra gli interessi in conflitto, accertare
se, e con quale intensità, l'ordinamento appresta tutela risarcitoria
all'interesse del danneggiato, ovvero comunque lo prende in
considerazione sotto altri profili, manifestando, in tal modo, una
esigenza di protezione. Ne consegue, che anche la lesione di un
interesse legittimo, al pari di quella di un diritto soggettivo e di
altro interesse giuridicamente rilevante, può essere fonte di
responsabilità aquilana, e, quindi, dar luogo a risarcimento del danno
ingiusto, a considerazione che risulti danneggiato, per effetto
dell'attività illegittima della P.A., l'interesse al bene della vita al
quale il primo si correla, e che detto interesse risulti meritevole di
tutela alla stregua del diritto positivo".
Tali affermazioni, in una con quella parametri contenuta nella sentenza secondo cui "l'art. 2043 c.c.,
racchiude in sè una clausola generale di responsabilità", hanno indotto
alcuni autori ad affermare che ormai il danno ingiusto può
identificarsi in un danno inferto "non iure" e lesivo di una situazione
soggettiva giuridicamente protetta, alla quale cioè l'ordinamento, a
prescindere della qualificazione formale in termini di diritto
soggettivo, ha attribuito rilevanza; con conclusione soltanto della
risarcibilità degli interessi di mero fatto e delle aspettative
semplici, prive di rilevanza giuridica.
Si
tratta di una prospettiva di larga apertura, particolarmente
significativa per la questione che qui interessa, che si salda con
un'altra affermazione rinvenibile nella giurisprudenza della Corte che
con sentenza della Sezione Prima Civile n. 1540 del 11.2.1995 rv.
490387,
per la verità rimasta isolata, aveva affermato che per i danni prodotti
da reato, il requisito dell'ingiustizia è "in re ipsa" e non ha, quindi
bisogno di essere collegata alla violazione di un diritto soggettivo,
giustificandosi tale affermazione proprio in relazione alla particolare
fonte dell'obbligazione risarcitoria rappresentata da quei comportamenti
che qualificandoli appunto come reato l'ordinamento dimostra di volere
reprimere più severamente.
Anche sotto altri
profili la giurisprudenza civile ha avuto notevoli effetti riflessi
sulla estensione della possibilità di partecipare al giudizio penale,
costituendosi parte civile, di enti e associazioni. Ci si riferisce, da
un lato, all'ampliamento della nozione di danno non patrimoniale e,
dall'altro, al riconoscimento del diritto al risarcimento di tale danno
in favore degli enti collettivi.
Sono note le sentenze della 3^ sezione civile di questa Corte del 31 maggio 2003 n. 8828 e 8827 che hanno interpretato l'art. 2059 c.c.
nel senso che "il danno non patrimoniale deve essere inteso come
categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un valore
della persona", non potendo valere la limitazione di cui all'art. 2059
(di risarcibilità del danno non patrimoniale solo se derivante da reato)
laddove la lesione ha riguardo a valori della persona
costituzionalmente garantiti ed in particolare i diritti inviolabili
dell'uomo riconosciuti dall'art. 2 Cost.. E' evidente, ed è
stato sottolineato da attenti commentatori, che tale autorevole presa di
posizione ha influenza sulla giurisprudenza penale sotto il profilo
delle ampliate possibilità per la parte civile di costituirsi nel
giudizio penale invocando il risarcimento di danni non patrimoniali
diversi dal danno morale soggettivo, in precedenza unicamente
qualificato quale danno morale soggettivo, in precedenza unicamente
qualificato quale danno non patrimoniale.
Come
pure è stato sottolineato che l'ampliamento della categoria del danno
non patrimoniale riparabile al di là della categoria del danno morale
soggettivo, ha comportato un ampliamento del diritto al risarcimento del
danno in favore degli enti collettivi, ora pienamente riconosciuto
dalla giurisprudenza non solo nei casi di "non ragionevole durata del
procedimento" di cui alla cd. Legge Pinto, ma anche con affermazioni di
ampio respiro, come nel caso della sentenza della 3^ sez. n. 12929 del
4.6.2007 Icg Spa contro Deutsche Bank Spa, rv. 597309, secondo cui:
"Poichè anche nei confronti della persona giuridica ed in genere
dell'ente collettivo è configurabile la risarcibilità del danno non
patrimoniale allorquando il fatto lesivo incida su una situazione
giuridica della persona giuridica o dell'ente che sia equivalente ai
diritti fondamentali della persona umana garantiti dalla Costituzione, e
fra tali diritti rientra l'immagine della persona giuridica o
dell'ente, allorquando si verifichi la lesione di tale immagine, è
risarcibile, oltre al danno patrimoniale, se verificatosi, e se
dimostrato, il danno non patrimoniale costituito - come danno cd.
conseguenza - dalla diminuzione della considerazione della persona
giuridica o dell'ente nel che si esprime la sua immagine, sia sotto il
profilo della incidenza negativa che tale diminuzione comporta
nell'agire delle persone fisiche che ricoprano le distinte funzioni
degli organi delle fisiche che ricoprano le distinte funzioni degli
organi della persona giuridica o dell'ente e, quindi, nell'agire
dell'ente, sia sotto il profilo della diminuzione della considerazione
da parte dei consociati in genere o di settori o categorie di essi con
le quali la persona giuridica o l'ente di norma interagisca. Il suddetto
danno non patrimoniale va liquidato alla persona giuridica o all'ante
in via equitativa, tenendo conto di tutte le circostanze del caso
concreto".
Affermazioni che trovano riscontro
nella giurisprudenza penale della Corte, essendosi testualmente
affermato (sez. 6^ 5.12.2003 n. 21677 rv 229393) che la risarcibilità
del danno non patrimoniale è concepibile a favore di un ente pubblico e
che (sez. 1^ 8.11.2007 n. 4060 rv 239190) i danni non patrimoniali,
rappresentati da turbamenti morali della collettività, sono risarcibili a
favoe degli enti pubblici esponenziali di essa, anche qualora taluno di
tali enti sia stato costituito in epoca successiva alla consumazione
del fatto di reato. (nel caso di specie, relativo alla strage di
(OMISSIS), commessa il (OMISSIS), la Suprema Corte ha riconosciuto la
legittimità della Costituzione di parte civile della Regione Toscana -
ente costituito successivamente alla consumazione del fatto di reato -,
della Provincia di Lucca, del Comune di Stazzema e della Presidenza del
Consiglio dei Ministri, rilevando che il crimine di guerra in esame,
"commesso con lo sterminio di buona parte della popolazione di
(OMISSIS), composta prevalentemente da vecchi, donne e bambini, ed ...
attuato con modalità efferate, in totale dispregio del più elementare
senso di umanità e dei valori comunemente accolti in ogni società
civile, anche in tempo di guerra", ha "provocato dolore, sofferenze,
sbigottimento nella collettività di cui le parti civili costituiscono
enti esponenziali, creando nella memoria collettiva - per
l'inimmaginabile livello di spietatezza e di crudeltà - una ferita non
rimarginata, che ancora oggi è fonte di indelebile turbamento ed è
produttiva di danno non patrimoniale risarcibile").
E
con specifico riguardo alla giurisprudenza penale, non può stupire che,
nel quadro, sopra delineato di vasta apertura verso la tutelabilità di
sempre più ampie posizioni soggettive, si sia sviluppato un
orientamento, nel tempo via via sempre più ribadito, favorevole al
riconoscimento della possibilità di costituzione di parte civile degli
enti collettivi.
Particolarmente significativo
e foriero di notevoli aperture è il principio affermato dalla 6^
sezione penale con sentenza dell'1.6.1989 n. 59 rv 182947 secondo cui
"Gli enti e le associazioni sono legittimati all'azione risarcitorie,
anche in sede penale mediante costituzione di parte civile, ove dal
reato abbiano ricevuto un danno a un interesse proprio, semprechè
l'interesse leso coincida con un diritto reale o comunque con un diritto
soggettivo del sodalizio, e quindi anche se offeso sia l'interesse
perseguito in riferimento a una situazione storicamente circostanziata,
da esso sodalizio preso a cuore e assunto nello statuto a ragione stessa
della propria esistenza e azione, come tale oggetto di un diritto
assoluto ed essenziale dell'ente. Ciò sia a causa dell'immedesimazione
fra l'ente stesso e l'interesse perseguito, sia a causa
dell'incorporazione fra i soci ed il sodalizio medesimo, sicchè questo,
per l'affectio societatis verso l'interesse prescelto e per il
pregiudizio a questo arrecato, patisce un'offesa e perciò anche un danno
non patrimoniale dal reato". La Corte, con questa ed altre coeve,
lucide ed approfondite decisioni dello steso tenore, ha osservato come
non diversamente da quanto avviene per il territorio, oggetto di un
rapporto di integrazione con il Comune che giustifica l'assunzione da
parte dell'ente degli interessi che sul territorio stesso incidono, vi
sono gruppi o collettività che hanno fatto di un determinato interesse
l'oggetto principale, essenziale, della propria esistenza, di talchè
l'interesse stesso è diventato elemento interno e costitutivo del
sodalizio e come tale ha assunto la consistenza di diritto soggettivo.
Sulla base della rivalutazione degli interessi solidaristici e
partecipativi riconosciuti dalla Costituzione, questa Corte ha non
soltanto ribadito la (peraltro già riconosciuta sez. un. civili n. 2207
del 1978 Italia Nostra; sez. un. penali n. 3 del 1998 Iori) tutelabilità
degli interessi collettivi, ma ha affermato che il riconoscimento di un
diritto soggettivo in capo al soggetto che degli stessi è portatore
deriva non necessariamente dalla c.d. norma di protezione (dalla
sentenza Iori, come si è visto, ritenuta necessaria), ma può discendere
dalla diretta assunzione di esso da parte dell'ente che ne ha fatto
oggetto della propria attività, diventando lo scopo specifico
dell'associazione.
Questa impostazione ha
trovato seguito nella giurisprudenza della Corte non soltanto con
riferimento a casi analoghi, essendosi anche di recente confermata la
legittimazione alla costituzione di parte civile dell'ordine
professionale nel procedimento a carico di soggetto imputato di
esercizio abusivo della professione (sentenza del 6.2.2008 n. 22144 rv
2400017), ma altresì in relazione a situazioni diversificate come quella
della ribadita legittimazione delle associazioni ecologiste (sez. 3^
5.4.2002 n. 22539 rv 221881;
sez. 3^
21.10.2004 n. 46746 rv 231306; sez. 3^ 21.5.2008 n. 35393 rv 240788),
quella della Federazione Pirateria Audiovisiva (FEPAV) in procedimento
avente ad oggetto il reato di cui alla L. n. 633 del 1941, art. 171 ter
sulla tutela del diritto d'autore; del Sindacato unitario lavoratori di
polizia (SIULP) di appartenenza della vittima di reato di violenza
sessuale posto in essere sul luogo di lavoro (sez. 3^ 7.2.2008 n. 12738
rv 239409); del Sindaco per reato sessuale commesso nel territorio
comunale; del Tribunale del malato in procedimento per reato colposo;
del Tribunale del malato in procedimento per reato colposo derivante da
colpa medica (sez. 5^ 17.2.2004 n. 13989 rv 228025.
In
tutti questi casi il riconoscimento della legittimazione a costituirsi
parte civile è stato motivato ritenendo che l'ente, per il proprio
sviluppo storico, per l'attività da esso concretamente svolta e la
posizione assunta, avesse fatto proprio, quale fine primario, quello
della tutela di interessi coincidenti con quelli lesi o posti in
pericolo dallo specifico reato considerato, derivando da tale
immedesimazione una posizione di diritto soggettivo che lo legittimava a
chiedere il risarcimento dei danni da tale reato anche ad esso
derivanti.
Con specifico riferimento alla
legittimazione delle organizzazioni sindacali dei lavoratori per i reati
che costituiscono violazione della integrità fisica dei lavoratori, non
si riscontrano decisioni recenti di questa Corte, la cui giurisprudenza
è pertanto ferma alla più volte richiamata sentenza Iori del 1988 e ad
altra decisione di qualche anno successiva (sez. 4^ 16.7.1993 n. 10048,
Arienti).
La sentenza Iori aveva riconosciuto,
ingenerale, alle rappresentanze dei lavoratori di cui all'art. 19 dello
Statuto dei lavoratori la qualità di soggetto legittimato a far valere
in giudizio, anche mediante la costituzione di parte civile, quei
diritti di controllo e prevenzione che l'art. 9 dello stesso Statuto; ne
aveva però negato la sussistenza nel caso di specie per mancanza di
prova di un comportamento direttamente lesivo di tale diritto.
La
sentenza Arienti (sez. 4^ 16.7.1993 n. 10048) ha riconosciuto anch'essa
la legittimazione dei sindacati a costituirsi parte civile, ma ha
ritenuto condizione necessaria la iscrizione agli stessi sindacati dei
lavoratori interessati.
Ritiene il Collegio
che il mutato quadro di riferimento, di cui si è detto sopra, porti a
ritenere ammissibile, senza il predetto limite della iscrizione, la
costituzione di parte civile dei sindacati nei procedimenti per reati di
omicidio o lesioni colpose commesse con violazione della normativa
antinfortunistica, dovendosi ritenere che l'inosservanza di tale
normativa nell'ambito dell'ambiente di lavoro possa cagionare un
autonomo e diretto danno patrimoniale (ove ne ricorrano gli estremi) o
non patrimoniale, ai sindacati per la perdita di credibilità all'azione
dagli stessi svolta.
E' pacifico che il
sindacato annovera tra le proprie finalità la tutela delle condizioni di
lavoro intese non soltanto nei profili collegati alla stabilità del
rapporto e agli aspetti economici dello stesso, oggetto principale e
specifico della contrattazione collettiva, ma anche per quanto attiene
la tutela delle libertà individuali e dei diritti primari del lavoratore
tra i quali quello, costituzionalmente riconosciuto, della salute. La
tutela delle condizioni di lavoro con riferimento alla sicurezza dei
luoghi di lavoro e di prevenzione delle malattie professionali
costituisce sicuramente, specie nel momento attuale, uno dei compiti
delle organizzazioni sindacali.
Come è stato
osservato, il diritto alla sicurezza sui luoghi di lavoro, pur rilevando
dal punto di vista della sua titolarità sul piano individuale, trova
altresì idonea tutela attraverso gli strumenti della autonomia
collettiva essendosi l'azione sindacale rivelata utilissimo strumento di
prevenzione. Sotto tale profilo, l'art. 9 dello Statuto dei lavoratori
ha costituito il primo riconoscimento della presenza organizzata dei
lavoratori a tali fini, consentendo la costituzione di proprie
rappresentanze con il compito di controllare l'applicazione delle norme
per la prevenzione degli infortuni sul lavoro e delle malattie
professionali e di promuovere la ricerca al fine della migliore tutela
della loro salute e integrità fisica. Anche se tale disposizione non ha
avuto nella pratica lo sviluppo e l'intensità di applicazione che
sarebbe stata auspicabile, rimanendo la presenza dei lavoratori e delle
loro rappresentanze sindacali prevalentemente orientata alla tutela
degli aspetti economici della prestazione lavorativa, essa rappresenta
tuttavia una innegabile attribuzione di competenza alle forme
associative di lavoratori, cui sono stati, con essa, riconosciuti
specifici poteri sollecitatori. Come è stato osservato, l'art. 9 dello
Statuto dei lavoratori ha aperto la via al riconoscimento alle
organizzazioni rappresentative dei lavoratori della qualità di soggetti
istituzionali nella garanzie della sicurezza sul lavoro.
Ulteriori
e più pregnanti attribuzioni alle associazioni sindacali sono state
successivamente effettuate dalla legislazione interna di attuazione
della normativa comunitaria (dir. N. 391 del 1989) che, con riferimento
alla sicurezza sul lavoro, sollecitava gli Stati a garantire ai
lavoratori e ai loro rappresentanti un diritto di partecipazione
conforme alle prassi e/o alle legislazioni dei singoli Stati.
Il D.Lgs. n. 626 del 1994
ha così attuato un coinvolgimento dei lavoratori nella tematica della
prevenzione assai più incisivo di quello già contenuto nell'art. 9 dello
Statuto, stabilendo (artt. 18 e 20) che in tutte le aziende o unità
produttive deve essere eletto o designato il rappresentate dei
lavoratori per la sicurezza, con funzioni di accesso, consultazione e
proposizione espressamente previste e con garanzie di libertà per
l'esercizio dei suoi compiti.
Con il Testo
unico 9 aprile 2008 n. 81 il sistema è stato confermato ed anzi
rafforzato, distinguendosi tre tipologie di rappresentati dei lavoratori
per la sicurezza, rispettivamente al livello aziendale, territoriale o
di comparto, e di sito produttivo, assicurando loro una specifica
formazione i cui contenuti sono demandati alla contrattazione
collettiva. Nel Testo Unico il ruolo delle organizzazioni sindacali
all'intero del sistema della sicurezza è confermato, tra l'altro, dalla
presenza di dieci esperti designati delle organizzazioni sindacali dei
lavoratori comparativamente più rappresentative a livello nazionale
all'interno della "Commissione consultiva permanente per la salute e
sicurezza sul lavoro" costituita ai sensi dell'art. 2 del cit. decreto
presso il Ministero del Lavoro; e dalla previsione del potere di
interpello al Ministero del lavoro da parte delle stesse organizzazioni
sindacali.
E' veramente difficile ritenere che
questa attribuzione di compiti e responsabilità non significhi, per il
sindacato che degli stessi abbia fatto uso, il riconoscimento ed al
tempo stesso la conferma di una posizione tutelabile attraverso la
costituzione di parte civile.
Nella specie la
sentenza di primo grado ha accertato che l'infortunio si è verificato a
cagione della scarsa attenzione posta dalla s.r.l.
Demont
al problema della sicurezza dei dipendenti dell'ambiente di lavoro,
della manutenzione dei mezzi affidati alla guida dei gruisti, e che
l'infortunio mortale si è potuto verificare proprio a seguito ed in
stretta dipendenza con questa scarsa effettiva considerazione della
questione; ed ha accertato altresì che la morte del lavoratore,
cagionata dalla cooperazione colposa degli imputati F. e B. e dal
concorso di cause relative alla violazione delle norme contravvenzionali
poste espressamente a tutela della sicurezza dei dipendenti
nell'ambiente di lavoro, era collegata alle inascoltate segnalazioni,
richieste di attenzione e di coordinamento in più (rappresentanze dei
lavoratori per la sicurezza); in particolare il capocantiere B. è stato
concordemente indicato dai testi, senza alcuna prova contraria, sul
punto, neppure l'offerta dalla difesa, come un soggetto che frapponeva
ostacoli all'interazione, prevista dalla legge, con le organizzazioni
sindacali ai fini della tutela dei lavoratori.
E'
stato dunque accertato che la condotta degli imputati ha colpito
direttamente anche la funzione di tutela e controllo assegnata ai
sindacati.
Non rileva la circostanza che in
appello le contravvenzioni siano state dichiarate prescritte, dal
momento che ciò che conta è l'accertamento della responsabilità per le
violazioni anzidette, conseguente alla sentenza di appello che ha
confermato la sentenza di condanna degli imputati per l'omicidio colposo
commesso con violazione delle dette prescrizioni.
Conclusivamente,
ritiene il collegio che l'accertamento di cui sopra fondi correttamente
il diritto alla costituzione di parte civile riconosciuto ai tre
sindacati e la liquidazione del relativo danno.
Il
grave incidente verificatosi ha avuto infatti, secondo il ragionato,
meditato, condivisibile punto di vista del giudice di primo grado,
innegabile ripercussione sull'immagine e la reputazione delle
organizzazioni sindacali inducendo nei lavoratori un effetto di
sostanziale sfiducia nella nelle associazioni di categoria e nella loro
idoneità ad incidere con efficacia pratica in materia di sicurezza.
Al
rigetto dei ricorsi consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento
delle spese processuali nonchè, in solido tra loro,. Alla rifusione
delle spese in favore delle parti civili costituite che liquida in
favore di D.B.A. in complessivi Euro 2002,00 oltre accessori come per
legge e in favore dei sindacati FIOM, CGIL, UILM UIL e FIM CISL
((OMISSIS)) in complessivi Euro 2800,00 oltre accessori come per legge.
P.Q.M.
LA
CORTE Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle
spese processuali nonchè, in solido trai ricorrenti, alla rifusione
delle spese in favore di D.B.A. in complessivi Euro 2002,00 oltre
accessori come per legge e quelle in favore dei sindacati FIOM CGIL,
UILM UIL e FIM CISL ((OMISSIS)) in complessivi Euro 2800,00 oltre
accessori come per legge.
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