Il fastidio invadente arrecato con la posta elettronica non può far configurare il reato di molestie private
QUIETE PUBBLICA E PRIVATA (DISTURBO DELLA)
Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 17-06-2010) 30-06-2010, n. 24510
Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 17-06-2010) 30-06-2010, n. 24510
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
1.
- Con sentenza, deliberata l'11 maggio 2009 e depositata il 3 luglio
2009, il Tribunale di Cassino, in composizione monocratica - per quanto
qui rileva - ha condannato alla pena della ammenda in Euro duecento, nel
concorso di circostanze attenuanti generiche, D.M.M., imputato della
contravvenzione di molestia alla persone per aver inviato, colla posta
elettronica, a O.G. un messaggio contenente "apprezzamenti gravemente
lesivi della dignità e della integrità personale e professionale" del
convivente della destinataria, reato commesso in (OMISSIS) (capo sub B
della originaria rubrica), motivando, in relazione al punto controverso
dell'accertamento della colpevolezza: il messaggio è stato inviato dalla
casella di posta elettronica (OMISSIS)", attivata - secondo quanto
emerso dalla testimonianza del teste D.V. sovrintendente della Polizia
di Stato, ammesso ai sensi dell'art. 507 c.p.p. - il (OMISSIS),
alle ore 12.24 (con spendita delle generalità di persona inesistente),
mediante collegamento effettuato tramite l'utenza telefonica intestata
all'imputato; inoltre nella memoria di un computer in uso al medesimo
giudicabile risultano registrati accessi alla suddetta casella; deve
considerarsi fallita la prova d'alibi di D. (costui ha sostenuto che al
momento della attivazione della casella non era a casa, ma si trovava in
compagnia di amici a una festa di compleanno); i riferimenti del
testimoniale a discarico devono essere valutati con margini di
approssimazione, avuto riguardo alla incertezza palesata da uno dei
testimoni in ordine ad altra circostanza dell'incontro e al generico e
dubitativo riferimento cronologico offerto dall'altro teste;
costituisce, poi, mera congettura e illazione l'assunto difensivo che
persona ignota possa aver attivato la casella di posta elettronica
attraverso l'utenza telefonica residenziale, installata nella abitazione
dell'imputato; laddove, poi, il computer in uso a D. ha memorizzato
l'accesso alla casella, che presuppone la conoscenza dell'indirizzo di
posta elettronica e della parola d'ordine (note a chi attiva la casella
stessa).
2. - Ricorre per cassazione
l'imputato, personalmente, mediante atto del 9 ottobre 2009, col quale,
premessa l'esposizione in punto di fatto delle tesi difensive (alibi al
momento della attivazione della casella di posta elettronica,
possibilità dell'uso del telefono di casa e dei computer da parte di
amici), sviluppa quattro motivi, impugnando congiuntamente anche
l'ordinanza dibattimentale 9 ottobre 2008 di ammissione ai sensi dell'art. 507 c.p.p., del teste D.V.D., e denunziando, anche promiscuamente à sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), erronea applicazione della legge penale, in relazione all'art. 660 c.p.,
(secondo motivo), nonchè mancanza, contraddittorietà e manifesta
illogicità della motivazione, anche sotto il profilo della formale
violazione degli artt. 125 e 533 c.p.p., art. 546 c.p., comma 1, lett. e), (primo, secondo, terzo e quarto motivo) e dell'art. 507 c.p.p., (quarto motivo).
2.1
- Con il primo motivo il ricorrente oppone: al momento della
attivazione della casella di posta elettronica (OMISSIS) esso D. era
fuori casa, come dimostrato dal testimoniale a discarico; non è
possibile attribuire l'invio del messaggio molesto in difetto della
dimostrazione della registrazione del casella, dell'uso esclusivo della
utenza telefonica e della disponibilità del "personal computer - per dir
così - di partenza" al momento della spedizione del messaggio.
2.2
- Con il secondo motivo il ricorrente deduce: difetta il dolo
specifico; il Tribunale ha riconosciuto che al momento della attivazione
della casella non era stata concepita la condotta molesta; è illogico e
incomprensibile supporre che i messaggi siano stati inviati dopo alcuni
mesi; non è dimostrato che l'imputato fosse animato da astio nei
confronti della persona molestata o del convivente di lei.
2.3
- Con il terzo motivo il ricorrente riporta stralci della trascrizione
della registrazione fonica delle testimonianze dei testi a discarico e
censura la valutazione del giudice a quo circa la prova orale de qua che
assume arbitraria, illogica e contraddittoria.
2.4 - Con il quarto motivo il ricorrente si duole della ammissione, disposta ai sensi dell'art. 507 c.p.p.,
del teste D.V.D., obiettando: non ricorreva la assoluta necessità,
l'intervento officioso del giudice (può integrare, ma) non deve
sostituire l'attività delle parti; il Pubblico Ministero non ha fornito
la prova "circa l'impossibilità di tempestiva indicazione" del teste nel
termine prescritto dall'art. 468 c.p.p..
3. - La contravvenzione è estinta ai sensi dell'art. 157 c.p..
Considerati
il titolo del reato, l'epoca della commissione, il prolungamento del
termine prescrizionale in dipendenza degli atti interruttivi, la
sospensione del relativo decorso (dal 2 aprile 2007 al 21 maggio 2007 e
dal 16 febbraio 2009 al 2 marzo 2009, per effetto del rinvio del
dibattimento a istanza del difensore), la prescrizione è maturata il 25
ottobre 2009, ai sensi dell'art. 157 c.p., comma 1, n. 5, artt. 158, 159 e 160 c.p., (nel testo previgente alla L. 5 dicembre 2005, n. 251), che trovano ultrattiva applicazione, quale legge più favorevole, ai sensi dell'art. 2 c.p., comma 4. 4. - Nel concorso colla causa di estinzione del reato prevale, tuttavia, quella assolutoria à termini dell'art. 129 c.p.p., comma 2.
Giova
premettere che il giudice a quo ha definitivamente prosciolto il
giudicabile dal contestato delitto di ingiuria (capo sub C della
rubrica, concorrente ai sensi dell'art. 81 c.p., comma 1, colla contravvenzione in esame), perchè l'azione penale non doveva essere iniziata per mancanza di querela.
Orbene
risulta evidente ex actis che il fatto - per quanto concerne la residua
ipotesi contravvenzionale - non è previsto dalla legge come reato.
La
questione è stata, invero, affrontata dal giudice di merito. Il
Tribunale ha considerato: "la tipizzazione della condotta incriminata dall'art. 660 c.p.,
non risulta tassativamente espressa nel dettato normativo; si tratta di
indicazione aperta (..) legata all'evolversi dei mezzi tecnologici
disponibili", colla conseguenza che l'aumento della "gamma delle
opportunità intrusive", offerto dal progresso tecnologico, si correla
alla espansione dell'ambito delle "condotte in grado di integrare
l'elemento strutturale della molestia" e del "corrispondente livello di
tutela apprestato alle potenziali vittime", restando "inalterata la
ratio della norma" incriminatrice; in tal senso la giurisprudenza di
legittimità ha ravvisato gli estremi della contravvenzione nella
condotta molestatrice attuata col mezzo del citofono, sulla base del
rilievo che l'art. 660 c.p., colla dizione "telefono" comprende
gli "altri analoghi mezzi i comunicazione a distanza"; e, comunque,
anche "la e-mail viene propriamente inoltrata col mezzo del telefono".
La tesi del giudice di merito (peraltro apprezzabilmente argomentata) non è condivisibile.
Il tribunale è incorso nella erronea applicazione della legge penale.
La
quaestio juris è se la interpretazione estensiva della previsione della
norma incriminatrice, circa la molestia o il disturbo recati "col mezzo
del telefono", possa essere dilatata sino a comprendere l'invio di
corrispondenza elettronica sgradita, che provochi turbamento o, quanto
meno, fastidio.
Innanzi tutto non coglie nel
segno l'argomento del giudice di merito secondo il quale la "e-mail (..)
viene propriamente inoltrata col mezzo del telefono", così integrando
la previsione della norma incriminatrice.
Il
rilievo è improprio e inesatto. La posta elettronica utilizza la rete
telefonica e la rete cellulare delle bande di frequenza, ma non il
telefono, nè costituisce applicazione della telefonia che consiste,
invece, nella teletrasmissione, in modalità sincrona, di voci o di
suoni.
Nè, poi, giova il richiamo al
precedente di questa Corte suprema relativo alla molestia citofonica,
citato dal Tribunale (Sez. 6^, 5 maggio 1978, n. 8759, Ciconi, massima
n. 139560: "nella generica dizione di cui all'art. 660 c.p.,
col mezzo del telefono sono compresi anche la molestia e il disturbo
recati con altri analoghi mezzi di comunicazione a distanza (citofono
eccetera)".
In relazione all'oggetto giuridico
della norma incriminatrice l'azione perturbatrice dei due sistemi di
telecomunicazione vocale (telefono e citofono) è perfettamente identica;
le differenze tecniche tra telefonia e citofonia sono, sotto tale
aspetto, assolutamente irrilevanti; e deve, pertanto, ribadirsi la
interpretazione estensiva della disposizione penale.
Notevolmente diversa è, invece, la comunicazione effettuata con lo strumento della posta elettronica.
La
modalità della comunicazione è asincrona. L'azione del mittente si
esaurisce nella memorizzazione di un documento di testo (colla
possibilità di allegare immagini, suoni o sequenze audiovisive) in una
determinata locazione dalla memoria dell'elaboratore del gestore del
servizio, accessibile dal destinatario; mentre la comunicazione si
perfeziona, se e quando il destinatario, connettendosi, a sua volta,
all'elaboratore e accedendo al servizio, attivi una sessione di
consultazione della propria casella di posta elettronica e proceda alla
lettura del messaggio.
Di tutta evidenza è
l'analogia con la tradizionale corrispondenza epistolare in forma
cartacea, inviata, recapitata e depositata nella cassetta (o casella)
della posta sistemata presso l'abitazione del destinatario.
Epperò
l'invio di un messaggio di posta elettronica - esattamente proprio come
una lettera spedita tramite il servizio postale - non comporta (a
differenza della telefonata) nessuna immediata interazione tra il
mittente e il destinatario, nè veruna intrusione diretta del primo nella
sfera delle attività del secondo.
Orbene,
l'evento immateriale - o psichico - del turbamento del soggetto passivo
costituisce condizione necessaria ma non suffieientè, infatti per
integrare la contravvenzione prevista e punita dall'art. 660 c.p.,
devono concorrere (alternativamente) gli ulteriori elementi
circostanziali della condotta del soggetto attivo, tipizzati dalla norma
incriminatrice: la pubblicità (o l'apertura al pubblico) del teatro
dell'azione ovvero l'utilizzazione del telefono come mezzo del reato.
E
il mezzo telefonico assume rilievo - ai fini dell'ampliamento della
tutela penale altrimenti limitata alle molestie arrecate in luogo
pubblico o aperto al pubblico - proprio per il carattere in va si vo
della comunicazione alla quale il destinatario non può sottrarsi, se non
disattivando l'apparecchio telefonico, con conseguente lesione, in tale
evenienza, della propria libertà di comunicazione, costituzionalmente
garantita (art. 15 Cost., comma 1).
Tanto esclude la possibilità della interpretazione estensiva seguita dal Tribunale.
Soccorre,
infine, anche la considerazione delle ragioni che hanno indotto questa
Corte a risolvere positivamente la questione della inclusione nella
previsione della norma incriminatrice dei messaggi di testo telefonici
(Sez. 3^, 26 giugno 2004, n. 28680, Modena, massima n. 229464: "La
disposizione di cui all'art. 660 c.p., punisce la molestia
commessa col mezzo del telefono, e quindi anche la molestia posta in
essere attraverso l'invio di short messages system (SMS) trasmessi
attraverso sistemi telefonici mobili o fissi").
Nell'occasione,
il Collegio di legittimità, ribadendo che la molestia "commessa col
mezzo epistolare, anche se idonea (..) a ledere la tranquillità privata
della persona destinataria, (..) non è punibile per se stessa", ai sensi
dell'art. 660 c.p., ha argomentato, per l'appunto, che i
messaggi di testo inviati col mezzo del telefono "non possono essere
assimilati a - quelli - di tipo epistolare, in quanto il destinatario di
essi è costretto, sia de auditu che de visu, a percepirli, con
corrispondente turbamento della quiete e tranquillità psichica, prima di
poterne individuare il mittente, il quale in tal modo realizza
l'obiettivo di recare disturbo al destinatario".
Conclusivamente,
la avvertita esigenza di espandere la tutela del bene protetto (della
tranquillità della persona) incontra il limite coessenziale della legge
penale costituito dal "principio di stretta legalità" e di tipizzazione
delle condotte illecite, sanciti dall'art. 25 Cost., comma 2, e dall'art. 1 c.p., (v. Cass., Sez. 3^, 26 giugno 1997, n. 9617, Apra, massima n. 208776, in materia di "tutela della salute e dell'ambiente").
Consegue
l'annullamento, senza rinvio, della sentenza impugnata, in relazione al
capo impugnato, perchè il fatto non è previsto dalla legge come reato.
P.Q.M.
Annulla, senza rinvio, la sentenza impugnata perchè il fatto non è previsto dalla legge come reato.
Nessun commento:
Posta un commento