N. 242 SENTENZA 25 settembre - 22 novembre 2019
Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
Reati e pene - Aiuto al suicidio - Agevolazione dell'esecuzione del
proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un
paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto
da patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o
psicologiche che egli reputa intollerabili, ma pienamente capace di
prendere decisioni libere e consapevoli - Non punibilita' se la
condotta agevolativa sia prestata con le modalita' procedurali
legislativamente previste per l'interruzione dei trattamenti di
sostegno vitale (ovvero, quanto ai fatti anteriori alla
pubblicazione della sentenza in Gazzetta Ufficiale, sia stata
prestata con modalita' equivalenti), e le condizioni e modalita' di
esecuzione siano state verificate da strutture pubbliche del SSN
previo parere del comitato etico territorialmente competente -
Omessa previsione - Irragionevole limitazione della liberta' di
autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese
quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze - Illegittimita'
costituzionale in parte qua.
- Codice penale, art. 580.
- Costituzione, artt. 2, 13, 32, secondo comma, e 117, primo comma,
in relazione agli artt. 2 e 8 della Convenzione per la salvaguardia
dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali.
(GU n.48 del 27-11-2019 )
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente:Giorgio LATTANZI;
Giudici :Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI,
Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de
PRETIS, Nicolo' ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA,
Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANO', Luca
ANTONINI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 580 del
codice penale, promosso dalla Corte di assise di Milano, nel
procedimento penale a carico di M. C., con ordinanza del 14 febbraio
2018, iscritta al n. 43 del registro ordinanze 2018 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 11, prima serie
speciale, dell'anno 2018.
Visti l'atto di costituzione di M. C., nonche' l'atto di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella udienza pubblica del 24 settembre 2019 il Giudice
relatore Franco Modugno;
uditi gli avvocati Filomena Gallo e Vittorio Manes per M. C. e
l'avvocato Generale dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente
del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.- Con ordinanza del 14 febbraio 2018, la Corte d'assise di
Milano ha sollevato questioni di legittimita' costituzionale
dell'art. 580 del codice penale:
a) «nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto al suicidio
in alternativa alle condotte di istigazione e, quindi, a prescindere
dal loro contributo alla determinazione o al rafforzamento del
proposito di suicidio», per ritenuto contrasto con gli artt. 2, 13,
primo comma, e 117 della Costituzione, in relazione agli artt. 2 e 8
della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950,
ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848;
b) «nella parte in cui prevede che le condotte di agevolazione
dell'esecuzione del suicidio, che non incidano sul percorso
deliberativo dell'aspirante suicida, siano sanzionabili con la pena
della reclusione da 5 a 10 [recte: 12] anni, senza distinzione
rispetto alle condotte di istigazione», per ritenuto contrasto con
gli artt. 3, 13, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, Cost.
Con riguardo alle questioni sub a), il riferimento all'art. 3
(anziche' all'art. 2) Cost. che compare nel dispositivo
dell'ordinanza di rimessione deve considerarsi frutto di mero errore
materiale, alla luce del tenore complessivo della motivazione e delle
«[c]onclusioni» che precedono immediatamente il dispositivo stesso.
1.1.- Secondo quanto riferito dal giudice a quo, le questioni
traggono origine dalla vicenda di F. A., il quale, a seguito di un
grave incidente stradale avvenuto il 13 giugno 2014, era rimasto
tetraplegico e affetto da cecita' bilaterale corticale (dunque,
permanente). Non era autonomo nella respirazione (necessitando
dell'ausilio, pur non continuativo, di un respiratore e di periodiche
asportazioni di muco), nell'alimentazione (venendo nutrito in via
intraparietale) e nell'evacuazione. Era percorso, altresi', da
ricorrenti spasmi e contrazioni, produttivi di acute sofferenze, che
non potevano essere completamente lenite farmacologicamente, se non
mediante sedazione profonda. Conservava, pero', intatte le facolta'
intellettive.
All'esito di lunghi e ripetuti ricoveri ospedalieri e di vari
tentativi di riabilitazione e di cura (comprensivi anche di un
trapianto di cellule staminali effettuato in India nel dicembre
2015), la sua condizione era risultata irreversibile.
Aveva percio' maturato, a poco meno di due anni di distanza
dall'incidente, la volonta' di porre fine alla sua esistenza,
comunicandola ai propri cari. Di fronte ai tentativi della madre e
della fidanzata di dissuaderlo dal suo proposito, per dimostrare la
propria irremovibile determinazione aveva intrapreso uno "sciopero"
della fame e della parola, rifiutando per alcuni giorni di essere
alimentato e di parlare.
Di seguito a cio', aveva preso contatto nel maggio 2016, tramite
la propria fidanzata, con organizzazioni svizzere che si occupano
dell'assistenza al suicidio: pratica consentita, a certe condizioni,
dalla legislazione elvetica.
Nel medesimo periodo, era entrato in contatto con M. C., imputato
nel giudizio a quo, il quale gli aveva prospettato la possibilita' di
sottoporsi in Italia a sedazione profonda, interrompendo i
trattamenti di ventilazione e alimentazione artificiale.
Di fronte al suo fermo proposito di recarsi in Svizzera per il
suicidio assistito, l'imputato aveva accettato di accompagnarlo in
automobile presso la struttura prescelta. Inviata a quest'ultima la
documentazione attestante le proprie condizioni di salute e la piena
capacita' di intendere e di volere, F. A. aveva alfine ottenuto da
essa il "benestare" al suicidio assistito, con fissazione della data.
Nei mesi successivi alla relativa comunicazione, egli aveva
costantemente ribadito la propria scelta, comunicandola dapprima agli
amici e poi pubblicamente (tramite un filmato e un appello al
Presidente della Repubblica) e affermando «di viverla come "una
liberazione"».
Il 25 febbraio 2017 era stato quindi accompagnato da Milano (ove
risiedeva) in Svizzera, a bordo di un'autovettura appositamente
predisposta, con alla guida l'imputato e, al seguito, la madre, la
fidanzata e la madre di quest'ultima.
In Svizzera, il personale della struttura prescelta aveva
novamente verificato le sue condizioni di salute, il suo consenso e
la sua capacita' di assumere in via autonoma il farmaco che gli
avrebbe procurato la morte. In quegli ultimi giorni, tanto
l'imputato, quanto i familiari, avevano continuato a restargli
vicini, rappresentandogli che avrebbe potuto desistere dal proposito
di togliersi alla vita, nel qual caso sarebbe stato da loro riportato
in Italia.
Il suicidio era peraltro avvenuto due giorni dopo (il 27 febbraio
2017): azionando con la bocca uno stantuffo, l'interessato aveva
iniettato nelle sue vene il farmaco letale.
Di ritorno dal viaggio, M. C. si era autodenunciato ai
carabinieri.
A seguito di ordinanza di "imputazione coatta", adottata ai sensi
dell'art. 409 del codice di procedura penale dal Giudice per le
indagini preliminari del Tribunale ordinario di Milano, egli era
stato tratto quindi a giudizio davanti alla Corte rimettente per il
reato di cui all'art. 580 cod. pen., tanto per aver rafforzato il
proposito di suicidio di F. A., quanto per averne agevolato
l'esecuzione.
Il giudice a quo esclude, peraltro, la configurabilita' della
prima ipotesi accusatoria. Alla luce delle prove assunte nel corso
dell'istruzione dibattimentale, F. A. avrebbe, infatti, maturato la
decisione di rivolgersi all'associazione svizzera prima e
indipendentemente dall'intervento dell'imputato.
La Corte rimettente ritiene, invece, che l'accompagnamento in
auto di F. A. presso la clinica elvetica integri, in base al diritto
vivente, la fattispecie dell'aiuto al suicidio, in quanto condizione
per la realizzazione dell'evento. L'unica sentenza della Corte di
cassazione che si e' occupata del tema ha, infatti, affermato che le
condotte di agevolazione, incriminate dalla norma censurata in via
alternativa rispetto a quelle di istigazione, debbono ritenersi
percio' stesso punibili a prescindere dalle loro ricadute sul
processo deliberativo dell'aspirante suicida. La medesima sentenza ha
precisato, altresi', che, alla luce del dettato normativo (in forza
del quale e' punito chiunque agevola «in qualsiasi modo» l'esecuzione
dell'altrui proposito di suicidio), la nozione di aiuto penalmente
rilevante deve essere intesa nel senso piu' ampio, comprendendo ogni
tipo di contributo materiale all'attuazione del progetto della
vittima (fornire i mezzi, offrire informazioni sul loro uso,
rimuovere ostacoli o difficolta' che si frappongono alla
realizzazione del proposito e via dicendo, ovvero anche omettere di
intervenire, qualora si abbia l'obbligo giuridico di impedire
l'evento) (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 6
febbraio-12 marzo 1998, n. 3147).
1.2.- Su questo presupposto, la Corte d'assise milanese dubita,
tuttavia, della legittimita' costituzionale della norma censurata,
anzitutto nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto al
suicidio anche quando esse non abbiano contribuito a determinare o a
rafforzare il proposito della vittima.
Il giudice a quo rileva come la disposizione denunciata
presupponga che il suicidio sia un atto intriso di elementi di
disvalore, in quanto contrario al principio di sacralita' e
indisponibilita' della vita in correlazione agli obblighi sociali
dell'individuo, ritenuti preminenti nella visione del regime
fascista.
La disposizione dovrebbe essere, pero', riletta alla luce della
Costituzione: in particolare, del principio personalistico enunciato
dall'art. 2 - che pone l'uomo e non lo Stato al centro della vita
sociale - e di quello di inviolabilita' della liberta' personale,
affermato dall'art. 13; principi alla luce dei quali la vita - primo
fra tutti i diritti inviolabili dell'uomo - non potrebbe essere
«concepita in funzione di un fine eteronomo rispetto al suo
titolare». Di qui, dunque, anche la liberta' della persona di
scegliere quando e come porre termine alla propria esistenza.
Il diritto all'autodeterminazione individuale, previsto dall'art.
32 Cost. con riguardo ai trattamenti terapeutici, e' stato,
d'altronde, ampiamente valorizzato prima dalla giurisprudenza - in
particolare, con le pronunce sui casi Welby (Giudice dell'udienza
preliminare del Tribunale ordinario di Roma, sentenza 23 luglio-17
ottobre 2007, n. 2049) ed Englaro (Corte di cassazione, sezione prima
civile, sentenza 16 ottobre 2007, n. 21748) - e poi dal legislatore,
con la recente legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di
consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), che
sancisce in modo espresso il diritto della persona capace di
rifiutare qualsiasi tipo di trattamento sanitario, ancorche'
necessario per la propria sopravvivenza (compresi quelli di
nutrizione e idratazione artificiale), nonche' il divieto di
ostinazione irragionevole nelle cure, individuando come oggetto di
tutela da parte dello Stato «la dignita' nella fase finale della
vita».
La conclusione sarebbe avvalorata, inoltre, dalla giurisprudenza
della Corte europea dei diritti dell'uomo. Essa avrebbe conosciuto
una evoluzione, il cui approdo finale sarebbe rappresentato
dall'esplicito riconoscimento, sulla base degli artt. 2 e 8 CEDU (che
riconoscono e garantiscono, rispettivamente, il diritto alla vita e
il diritto al rispetto della vita privata), del diritto di ciascun
individuo «di decidere con quali mezzi e a che punto la propria vita
finira'».
A fronte di cio', il bene giuridico protetto dalla norma
denunciata andrebbe oggi identificato, non gia' nel diritto alla
vita, ma nella liberta' e consapevolezza della decisione del soggetto
passivo di porvi fine, evitando influssi che alterino la sua scelta.
In quest'ottica, la punizione delle condotte di aiuto al suicidio
che non abbiano inciso sul percorso deliberativo della vittima
risulterebbe ingiustificata e lesiva degli artt. 2, 13, primo comma,
e 117 Cost. In tale ipotesi, infatti, la condotta dell'agevolatore
rappresenterebbe lo strumento per la realizzazione di quanto deciso
da un soggetto che esercita una liberta' costituzionale, risultando
quindi inoffensiva.
1.3.- La Corte d'assise milanese censura, per altro verso, la
norma denunciata nella parte in cui punisce le condotte di aiuto al
suicidio, non rafforzative del proposito dell'aspirante suicida, con
la stessa severa pena - reclusione da cinque a dieci [recte: dodici]
anni - prevista per le condotte di istigazione.
La disposizione violerebbe, per questo verso, l'art. 3 Cost.,
unitamente al principio di proporzionalita' della pena al disvalore
del fatto, desumibile dagli artt. 13, 25, secondo comma, e 27, terzo
comma, Cost.
Le condotte di istigazione al suicidio sarebbero, infatti,
certamente piu' incisive, anche sotto il profilo causale, rispetto a
quelle di chi abbia semplicemente contribuito alla realizzazione
dell'altrui autonoma determinazione. Del tutto diverse
risulterebbero, altresi', nei due casi, la volonta' e la personalita'
del partecipe.
2.- E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale
ha eccepito, in via preliminare, l'inammissibilita' delle questioni
sotto plurimi profili: per difetto di rilevanza, avendo il rimettente
gia' escluso, alla luce dell'istruttoria svolta, che il comportamento
dell'imputato sia valso a rafforzare il proposito di suicidio di F.
A.; per richiesta di un avallo interpretativo e omessa
sperimentazione dell'interpretazione conforme a Costituzione, non
preclusa dall'esistenza di un'unica pronuncia di segno contrario
della Corte di cassazione risalente al 1998, inidonea a costituire
diritto vivente; per richiesta, infine, di una pronuncia manipolativa
in materia rimessa alla discrezionalita' del legislatore - quale
quella dell'individuazione dei fatti da sottoporre a pena e della
determinazione del relativo trattamento sanzionatorio - e in assenza
di una soluzione costituzionalmente obbligata.
Nel merito - ad avviso dell'interveniente - le questioni
risulterebbero, comunque sia, infondate.
Erroneo risulterebbe il riferimento alla disciplina di cui alla
legge n. 219 del 2017, posto che il riconoscimento del diritto a
rifiutare le cure non implicherebbe affatto quello di ottenere un
aiuto al suicidio, non potendo il paziente chiedere, in ogni caso, al
medico trattamenti contrari alla legge o alla deontologia
professionale.
Quanto alla denunciata violazione delle disposizioni della CEDU,
come interpretate dalla Corte di Strasburgo, quest'ultima ha, in
realta', affermato che l'art. 2 della Convenzione, dato il suo tenore
letterale, deve essere interpretato nel senso che esso contempla il
diritto alla vita e non il suo opposto. Esso non conferisce, quindi,
il «diritto a morire», ne' con l'intervento della pubblica autorita',
ne' con l'assistenza di una terza persona (Corte europea dei diritti
dell'uomo, sentenza 29 aprile 2002, Pretty contro Regno Unito).
Secondo la giurisprudenza della Corte EDU, il divieto assoluto di
aiuto al suicidio sarebbe, inoltre, del tutto compatibile con l'art.
8 della Convenzione, restando affidata al margine di apprezzamento
dei singoli Stati la valutazione se l'eventuale liberalizzazione del
suicidio assistito possa far sorgere rischi di abuso a danno dei
pazienti piu' anziani e vulnerabili.
L'incriminazione dell'aiuto al suicidio risulterebbe, d'altra
parte, intrinsecamente ragionevole, anche qualora si ritenga che alle
sue finalita' di tutela non resti estranea la liberta' di
autodeterminazione del titolare del bene protetto. Tale liberta',
quando si orienti nel senso di porre fine alla propria esistenza,
dovrebbe essere, infatti, «assicurata usque ad vitae supremum
exitum»: ottica nella quale l'esecuzione di quell'estremo proposito
dovrebbe rimanere riservata esclusivamente all'interessato, cosi' da
assicurare fino all'ultimo istante l'efficacia di un possibile
ripensamento.
Quanto, poi, alla censurata omologazione del trattamento
sanzionatorio delle condotte di istigazione e di agevolazione al
suicidio, essa non contrasterebbe con i parametri evocati, potendo il
giudice valorizzare, comunque sia, la diversa gravita' delle condotte
stesse in sede di determinazione della pena nell'ambito della cornice
edittale, ovvero ai fini del riconoscimento di circostanze
attenuanti.
3.- Si e' costituito, altresi', M. C., imputato nel giudizio a
quo, il quale, con una successiva memoria - contestate le eccezioni
di inammissibilita' dell'Avvocatura generale dello Stato - ha
rilevato come, di la' dalla generica formulazione del petitum, le
questioni debbano ritenersi radicate sul caso di specie.
Alla luce dello sviluppo argomentativo dell'ordinanza di
rimessione, i dubbi di legittimita' costituzionale dovrebbero
reputarsi circoscritti, in particolare, alle ipotesi di agevolazione
del suicidio di un soggetto che versi «in uno stato di malattia
irreversibile che produce gravi sofferenze, essendo tenuto in vita
grazie a presidi medici in assenza dei quali andrebbe incontro, sia
pure in modo lento e doloroso per se' e per i suoi cari, alla fine
della propria esistenza».
In tali termini, le questioni risulterebbero pienamente fondate.
3.1.- Al riguardo, la parte costituita osserva come, nel disegno
del legislatore del codice penale del 1930, la norma censurata fosse
destinata a proteggere la vita, intesa come bene non liberamente
disponibile da parte del suo titolare. Nella visione dell'epoca,
infatti, la tutela dell'individuo era secondaria rispetto a quella
della collettivita' statale: il suicidio era visto, di conseguenza,
in termini negativi, come l'atto di chi, togliendosi la vita,
sottraeva forza lavoro e cittadini alla Patria. Non ritenendosi di
dover sanzionare il suicida (neppure qualora cio' fosse materialmente
possibile, ossia nel caso di semplice tentativo), si apprestava
quindi una tutela di tipo indiretto, punendo chi avesse contribuito,
sul piano psicologico o materiale, alla realizzazione del proposito
di suicidio altrui.
Con l'entrata in vigore della Costituzione, tuttavia, il bene
della vita dovrebbe essere riguardato unicamente in una prospettiva
personalistica, come interesse del suo titolare volto a consentire il
pieno sviluppo della persona, secondo il disposto dell'art. 3,
secondo comma, Cost. Di qui la maggiore attenzione verso la liberta'
di autodeterminazione individuale, anche nelle fasi finali della
vita, specie quando si tratti di persone che versano in condizioni di
eccezionale sofferenza: atteggiamento che ha trovato la sua
espressione emblematica nella sentenza della Corte di cassazione
relativa al caso di Eluana Englaro (Cass., n. 21748 del 2007).
Di fondamentale rilievo, in questa cornice, risulterebbe
l'intervento normativo realizzato con la legge n. 219 del 2017, la
quale, nel quadro della valorizzazione del principio costituzionale
del consenso informato, ha «positivizzato» il diritto del paziente di
rifiutare le cure e di "lasciarsi morire".
3.2.- Tale assetto normativo renderebbe ancor piu' evidente
l'incoerenza dell'art. 580 cod. pen., nella parte in cui punisce
anche la mera agevolazione del suicidio di chi abbia liberamente
maturato il relativo proposito al fine di porre termine a uno stato
di grave e cronica sofferenza, provocato anche dalla somministrazione
di presidi medico-sanitari non voluti sul proprio corpo.
Per questo verso, la norma censurata si porrebbe in contrasto con
il «principio personalista», di cui all'art. 2 Cost., e con quello di
inviolabilita' della liberta' personale, affermato dall'art. 13
Cost.: precetto costituzionale, quest'ultimo, che, unitamente
all'art. 32 Cost. (non evocato nel dispositivo dell'ordinanza di
rimessione, ma ripetutamente richiamato in motivazione), assicura la
piena liberta' dell'individuo di scegliere quali interferenze esterne
ammettere sul proprio corpo e di tutelare, in questo senso, la sua
dignita'.
Emblematico, al riguardo, risulterebbe il caso oggetto del
giudizio a quo, nel quale il soggetto che aveva liberamente deciso di
concludere la propria esistenza - senza essere peraltro in grado di
provvedervi autonomamente - risultava sottoposto a trattamenti
sanitari molto invasivi, la cui interruzione, ove pure accompagnata
dalla sedazione profonda, lo avrebbe portato alla morte solo dopo
diversi giorni, generando un prolungato stato di sofferenza nei
familiari.
La liberta' di rifiuto di simili presidi, senza che la dignita'
del malato sia vulnerata con l'avvio di una fine lenta e dolorosa,
esigerebbe il riconoscimento della possibilita' di accedere, anche
tramite l'aiuto di terzi, a un farmaco letale.
La norma censurata violerebbe, in quest'ottica, anche il
principio di ragionevolezza, imponendo un sacrificio assoluto di
liberta' di primario rilievo costituzionale, senza distinguere le
condotte realmente lesive del bene protetto da quelle volte invece a
consentire l'attuazione del diritto all'autodeterminazione nelle
scelte di fine vita, non realizzabili da parte del diretto
interessato.
3.3.- La norma denunciata si porrebbe in contrasto, ancora, con
l'art. 8 CEDU e, di conseguenza, con l'art. 117, primo comma, Cost.
Nella prospettiva della Corte EDU, infatti, il diritto
all'autodeterminazione individuale, anche con riguardo alle scelte
inerenti il fine vita, costituisce il terreno su cui poggia
l'interpretazione del citato art. 8 della Convenzione, che prevede il
«diritto al rispetto della vita privata e familiare». Cio' comporta
che le interferenze statali su tale diritto possono ritenersi
legittime solo entro i limiti indicati dal paragrafo 2 dello stesso
art. 8, cioe' solo a condizione che siano normativamente previste,
oltre che necessarie e proporzionate rispetto a uno degli scopi
indicati dalla predetta disposizione.
Al riguardo, verrebbe in rilievo, come leading case, la sentenza
Pretty contro Regno Unito del 2002, con la quale si e' ritenuto che
la previsione di un generale divieto di aiuto al suicidio non si
ponesse, nella specie, in contrasto con il canone della
proporzionalita' dell'interferenza statale, di cui al citato art. 8,
paragrafo 2, CEDU, in quanto l'ordinamento penale britannico e'
improntato al principio di flessibilita'. In quel sistema, infatti,
vige un regime di azione penale discrezionale e non e', inoltre,
previsto un minimo edittale di pena per l'aiuto al suicidio,
cosicche' e' consentito al giudice di parametrare o addirittura di
escludere la risposta punitiva, in rapporto al concreto disvalore del
fatto.
Lo standard di proporzionalita' desumibile dall'art. 8 CEDU
apparirebbe, per converso, apertamente violato dall'art. 580 cod.
pen., che stabilisce un divieto generalizzato e incondizionato di
agevolazione dell'altrui proposito suicida, in un sistema, quale
quello italiano, governato dal regime di obbligatorieta' dell'azione
penale, prevedendo, per di piu', una pena minima edittale di cinque
anni di reclusione.
3.4.- La norma denunciata vulnererebbe, ancora, i principi di
offensivita' e di proporzionalita' e la funzione rieducativa della
pena, ponendosi cosi' in contrasto con gli artt. 13, 25, secondo
comma - anche in riferimento all'art. 3 -, e 27, terzo comma, Cost.
L'art. 580 cod. pen. rappresenterebbe, infatti, una ipotesi
eccezionale di incriminazione del concorso in un fatto lecito altrui,
giustificabile - anche per quanto attiene al particolare rigore della
risposta punitiva - solo sulla base di una anacronistica visione
statalista del bene giuridico della vita: visione inconciliabile, per
le ragioni indicate, con l'attuale assetto costituzionale.
In questa prospettiva, la condotta di chi si limiti ad agevolare
la realizzazione di un proposito di suicidio liberamente formatosi
dovrebbe essere considerata come un «comportamento "penalmente
inane"», essendo volta a garantire il diritto fondamentale
all'autodeterminazione sulle scelte del fine vita, riferite a una
esistenza ritenuta - per circostanze oggettive - non piu' dignitosa
dal suo titolare.
3.5.- Evidente sarebbe anche la violazione del principio di
eguaglianza, sotto plurimi profili.
La norma censurata determinerebbe, infatti, una disparita' di
trattamento tra chi e' in grado di porre fine alla propria vita da
solo, senza bisogno di aiuto esterno, e chi, invece, e' fisicamente
impossibilitato a farlo per la gravita' delle proprie condizioni
patologiche, con conseguente discriminazione a scapito proprio dei
casi maggiormente meritevoli di considerazione.
Irragionevolmente discriminatoria risulterebbe, inoltre, una
disciplina penale che riconosca la liceita' dell'interruzione delle
cure con esito letale, e dunque la non antigiuricidita' di una
condotta attiva di interruzione di un decorso causale immediatamente
salvifico, punendo invece la condotta attiva di agevolazione della
causazione immediata della morte in condizioni analoghe.
La violazione del principio di eguaglianza-ragionevolezza si
apprezzerebbe anche all'interno della struttura della fattispecie,
che vede equiparate quoad poenam condotte - la determinazione e il
rafforzamento del proposito suicidario, da un lato, e la semplice
agevolazione, dall'altro - caratterizzate da un coefficiente di
offensivita' radicalmente diverso.
Una simile irragionevole equiparazione si risolverebbe anche in
un difetto di proporzionalita' del trattamento sanzionatorio, atta a
compromettere la funzione rieducativa della pena.
3.6.- Sulla base di tali considerazioni, la parte costituita ha
chiesto, quindi, che l'art. 580 cod. pen. venga dichiarato
costituzionalmente illegittimo «nella parte in cui punisce la
condotta di chi abbia agevolato l'esecuzione della volonta',
liberamente formatasi, della persona che versi in uno stato di
malattia irreversibile che produce gravi sofferenze, sempre che
l'agevolazione sia strumentale al suicidio di chi, alternativamente,
avrebbe potuto darsi la morte rifiutando i trattamenti sanitari»;
ovvero, in subordine, «nella parte in cui prevede che le condotte di
agevolazione al suicidio che non abbiano inciso sulla formazione del
proposito suicidario siano punite allo stesso modo della istigazione
al suicidio».
4.- Sono intervenuti, inoltre, ad opponendum, il Centro Studi
«Rosario Livatino», la libera associazione di volontariato «Vita e'»
e il Movimento per la vita italiano.
Tali interventi sono stati dichiarati inammissibili da questa
Corte con ordinanza pronunciata all'udienza pubblica del 23 ottobre
2018.
5.- In esito alla medesima udienza, questa Corte ha pronunciato
l'ordinanza n. 207 del 2018, con la quale:
a) ha rilevato come - pur in assenza di una espressa indicazione
in tal senso da parte del giudice a quo - le questioni attinenti al
trattamento sanzionatorio della fattispecie criminosa dell'aiuto al
suicidio debbano ritenersi logicamente subordinate a quelle attinenti
al suo ambito applicativo;
b) ha ritenuto non fondate le eccezioni di inammissibilita'
formulate dall'Avvocatura generale dello Stato;
c) ha escluso che - contrariamente a quanto sostenuto in via
principale dal rimettente - l'incriminazione dell'aiuto al suicidio,
ancorche' non rafforzativo del proposito della vittima sia, di per
se', incompatibile con la Costituzione: essa si giustifica, infatti,
in un'ottica di tutela del diritto alla vita, specie delle «persone
piu' deboli e vulnerabili»;
d) ha individuato, nondimeno, una circoscritta area di non
conformita' costituzionale della fattispecie, corrispondente
segnatamente ai casi in cui l'aspirante suicida si identifichi (come
nel caso oggetto del giudizio a quo) in una persona «(a) affetta da
una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o
psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c)
tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti
(d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli»: evenienza
nella quale il divieto indiscriminato di aiuto al suicidio «finisce
[...] per limitare la liberta' di autodeterminazione del malato nella
scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle
sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost.,
imponendogli in ultima analisi un'unica modalita' per congedarsi
dalla vita, senza che tale limitazione possa ritenersi preordinata
alla tutela di altro interesse costituzionalmente apprezzabile, con
conseguente lesione del principio della dignita' umana, oltre che dei
principi di ragionevolezza e di uguaglianza in rapporto alle diverse
condizioni soggettive»;
e) ha escluso, tuttavia, di poter porre rimedio - «almeno allo
stato» - «al riscontrato vulnus», tramite una pronuncia meramente
ablativa riferita ai pazienti che versino nelle condizioni sopra
indicate: in assenza di una disciplina legale della prestazione
dell'aiuto verrebbero, infatti, a crearsi situazioni gravide di
pericoli di abuso nei confronti dei soggetti in condizioni di
vulnerabilita'; tale disciplina dovrebbe, d'altro canto, investire
una serie di profili, variamente declinabili in base a scelte
discrezionali, spettanti in linea di principio al legislatore;
f) ha escluso, pero', al tempo stesso, di poter ricorrere alla
tecnica decisoria precedentemente adottata in casi similari,
costituita dalla dichiarazione di inammissibilita' delle questioni
accompagnata da un monito al legislatore per l'introduzione della
disciplina necessaria, alla quale dovrebbe fare seguito, nel caso il
cui il monito resti senza riscontro, la declaratoria di
incostituzionalita': tale tecnica, infatti, ha «l'effetto di lasciare
in vita - e dunque esposta a ulteriori applicazioni, per un periodo
di tempo non preventivabile - la normativa non conforme a
Costituzione»; effetto che «non puo' considerarsi consentito nel caso
in esame, per le sue peculiari caratteristiche e per la rilevanza dei
valori da esso coinvolti»;
g) ha ritenuto, percio', di dover percorrere una via alternativa:
facendo leva, cioe', sui «propri poteri di gestione del processo
costituzionale», questa Corte ha rinviato il giudizio in corso,
fissando una nuova discussione delle questioni all'udienza del 24
settembre 2019, «in esito alla quale potra' essere valutata
l'eventuale sopravvenienza di una legge che regoli la materia in
conformita' alle segnalate esigenze di tutela». In questo modo, si e'
lasciata pur sempre al Parlamento la possibilita' di assumere le
necessarie decisioni rimesse alla sua discrezionalita', evitando,
pero', che la norma censurata potesse trovare applicazione medio
tempore (il giudizio a quo e' rimasto, infatti, sospeso, mentre negli
altri giudizi i giudici hanno avuto modo di valutare se analoghe
questioni fossero rilevanti e non manifestamente infondate).
6.- In prossimita' della nuova udienza, la parte costituita ha
depositato una ulteriore memoria, rilevando come l'invito rivolto al
Parlamento da questa Corte non sia stato accolto. Nessun seguito
hanno, infatti, avuto le proposte di legge presentate, che
prospettavano, peraltro, soluzioni sensibilmente diverse tra loro.
A fronte di cio', la dichiarazione di illegittimita'
costituzionale dell'art. 580 cod. pen., nei contorni gia' tracciati
dall'ordinanza n. 207 del 2018, non sarebbe ulteriormente
procrastinabile: e cio' per ragioni radicate, oltre che nei
fondamentali diritti del malato e nella sua dignita', anche nei
diritti inviolabili dell'imputato, il quale si vedrebbe altrimenti
infliggere una sanzione penale sulla base di una norma
incostituzionale per cause «ordinamentali a lui non addebitabili». Il
principio di leale collaborazione istituzionale, al quale e' stata
accordata la priorita' in una prima fase, non potrebbe, dunque, che
recedere, allo stato, dinanzi alle esigenze di ripristino della
costituzionalita' violata.
Ne' gioverebbe obiettare che il mantenimento di una "cintura di
protezione" penalmente presidiata e' giustificata, nell'ipotesi in
esame, da esigenze di tutela del bene supremo della vita umana. Le
funzioni di prevenzione generale e speciale continuerebbero, infatti,
a essere assolte dall'art. 580 cod. pen., quale risultante all'esito
della pronuncia di accoglimento, stante la verificabilita' ex post,
da parte del giudice penale, della sussistenza delle quattro
condizioni lato sensu scriminanti indicate dall'ordinanza n. 207 del
2018: condizioni la cui coesistenza risulterebbe largamente idonea a
evitare che la dichiarazione di incostituzionalita' possa preludere a
una vanificazione della tutela dei soggetti vulnerabili.
In questa cornice, una sentenza di «accoglimento manipolativo»,
che inserisca tali condizioni nel testo dell'art. 580 cod. pen.,
rappresenterebbe una «garanzia di certezza in senso pieno»,
risultando percio' preferibile tanto a una pronuncia interpretativa
di rigetto, quanto a una sentenza additiva di principio: decisione,
quest'ultima, che farebbe gravare sul singolo giudice l'impropria
responsabilita' di ricavare la regola attuativa del principio posto
dalla Corte costituzionale, quando invece l'art. 25, secondo comma,
Cost. impone che i confini della norma penale siano determinati e
precisi.
A fronte dell'inerzia legislativa, la Corte potrebbe, d'altra
parte, ricercare in norme gia' vigenti nell'ordinamento idonei
criteri ai quali parametrare l'accertamento preventivo dei requisiti
di liceita' del suicidio assistito. Cio' particolarmente alla luce
dei piu' recenti orientamenti della giurisprudenza costituzionale,
dai quali emerge una netta attenuazione della tesi per cui gli
interventi di accoglimento manipolativo esigerebbero l'esistenza di
strette "rime obbligate": ritenendosi, di contro, sufficiente, a tal
fine, che il sistema offra «precisi punti di riferimento» e
«soluzioni gia' esistenti».
Nella specie, la Corte potrebbe utilmente attingere alla
disciplina delle modalita' di raccolta della volonta' di revoca del
consenso alle cure, di cui all'art. 1, comma 5, della legge n. 219
del 2017. I passaggi procedurali prefigurati da tale disposizione
risponderebbero a molte delle esigenze di regolamentazione poste in
evidenza dall'ordinanza n. 207 del 2018: in particolare, che sia un
medico a verificare ex ante, all'interno dell'alleanza terapeutica
con il paziente, le condizioni indicate da detta ordinanza,
attestando il suo controllo mediante idonea documentazione e
prospettando le possibili alternative al suicidio assistito, compresa
la possibilita' di ridurre le sofferenze tramite, ad esempio, le cure
palliative.
La parte costituita conclude, pertanto, chiedendo che l'art. 580
cod. pen. sia dichiarato costituzionalmente illegittimo «nella parte
in cui prevede che l'aiuto al suicidio sia punibile anche se la
persona che ha inteso porre fine alla propria vita e' "(a) affetta da
una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o
psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c)
tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti
(d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli"».
Considerato in diritto
1.- La Corte d'assise di Milano dubita della legittimita'
costituzionale dell'art. 580 del codice penale, che prevede il reato
di istigazione o aiuto al suicidio, sotto due distinti profili.
1.1.- La Corte rimettente pone in discussione, in primo luogo, il
perimetro applicativo della disposizione censurata, lamentando che -
secondo il diritto vivente - essa incrimini le condotte di aiuto al
suicidio «in alternativa alle condotte di istigazione e, quindi, a
prescindere dal loro contributo alla determinazione o al
rafforzamento del proposito di suicidio».
La disposizione denunciata violerebbe, per questo verso, gli
artt. 2 e 13, primo comma, della Costituzione, i quali, sancendo
rispettivamente il «principio personalistico» - che pone l'uomo, e
non lo Stato, al centro della vita sociale - e quello di
inviolabilita' della liberta' personale, riconoscerebbero la liberta'
della persona di autodeterminarsi anche in ordine alla fine della
propria esistenza, scegliendo quando e come essa debba aver luogo.
La medesima disposizione si porrebbe, altresi', in contrasto con
l'art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 2 e 8 della
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950,
ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, i quali,
nel salvaguardare, rispettivamente, il diritto alla vita e il diritto
al rispetto della vita privata, comporterebbero - in base
all'interpretazione della Corte europea dei diritti dell'uomo - che
l'individuo abbia il diritto di «decidere con quali mezzi e a che
punto la propria vita finira'» e che l'intervento repressivo degli
Stati in questo campo possa avere soltanto la finalita' di evitare
rischi di indebita influenza nei confronti di soggetti
particolarmente vulnerabili.
Alla luce di tutti i parametri evocati, risulterebbe, dunque,
ingiustificata la punizione delle condotte di agevolazione
dell'altrui suicidio che costituiscano mera attuazione di quanto
autonomamente deciso da chi esercita la liberta' in questione, senza
influire in alcun modo sul percorso psichico del soggetto passivo,
trattandosi di condotte non lesive del bene giuridico tutelato.
1.2.- La Corte milanese contesta, in secondo luogo, il
trattamento sanzionatorio riservato alle condotte in questione,
censurando l'art. 580 cod. pen. «nella parte in cui prevede che le
condotte di agevolazione dell'esecuzione del suicidio, che non
incidano sul percorso deliberativo dell'aspirante suicida, siano
sanzionabili con la pena della reclusione da 5 a 10 [recte: 12] anni,
senza distinzione rispetto alle condotte di istigazione».
Sotto questo profilo, la norma censurata si porrebbe in contrasto
con l'art. 3 Cost., essendo le condotte di istigazione al suicidio
certamente piu' gravi, sotto il profilo causale, rispetto a quelle di
chi abbia semplicemente contribuito alla realizzazione dell'altrui
autonoma determinazione di porre fine alla propria esistenza, e
risultando del tutto diverse, nei due casi, la volonta' e la
personalita' dell'agente.
Sarebbero violati, inoltre, gli artt. 13, 25, secondo comma, e
27, terzo comma, Cost., in forza dei quali la liberta' dell'individuo
puo' essere sacrificata solo a fronte della lesione di un bene
giuridico non altrimenti evitabile e la sanzione deve essere
proporzionata alla lesione provocata, cosi' da prevenire la
violazione e provvedere alla rieducazione del reo.
2.- Con l'ordinanza n. 207 del 2018, questa Corte ha gia'
formulato una serie di rilievi e tratto una serie di conclusioni in
ordine al thema decidendum. Gli uni e le altre sono, in questa sede,
confermati. A essi si salda, in consecuzione logica, l'odierna
decisione.
2.1.- Con la citata ordinanza, questa Corte ha rilevato,
anzitutto, come tra le questioni sollevate intercorra un rapporto di
subordinazione implicita: interrogarsi sul quantum della pena ha,
infatti, un senso solo ove le condotte avute di mira restino
penalmente rilevanti e, dunque, solo in caso di mancato accoglimento
delle questioni volte a ridisegnare i confini applicativi della
fattispecie criminosa.
Ha ritenuto, altresi', infondate le plurime eccezioni di
inammissibilita' formulate dall'Avvocatura generale dello Stato, ivi
compresa quella di omessa sperimentazione dell'interpretazione
conforme a Costituzione, rilevando come la prospettata
interpretazione adeguatrice risulti incompatibile con il tenore
letterale della norma censurata.
2.2.- Nel merito, questa Corte ha escluso che - contrariamente a
quanto sostenuto in via principale dal giudice a quo -
l'incriminazione dell'aiuto al suicidio, ancorche' non rafforzativo
del proposito della vittima, possa ritenersi di per se' in contrasto
con la Costituzione.
Per sostenere il contrasto, non e' pertinente, infatti, il
riferimento del rimettente al diritto alla vita, riconosciuto
implicitamente - come «primo dei diritti inviolabili dell'uomo»
(sentenza n. 223 del 1996), in quanto presupposto per l'esercizio di
tutti gli altri - dall'art. 2 Cost. (sentenza n. 35 del 1997),
nonche', in modo esplicito, dall'art. 2 CEDU.
«Dall'art. 2 Cost. - non diversamente che dall'art. 2 CEDU -
discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo:
non quello - diametralmente opposto - di riconoscere all'individuo la
possibilita' di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire.
Che dal diritto alla vita, garantito dall'art. 2 CEDU, non possa
derivare il diritto di rinunciare a vivere, e dunque un vero e
proprio diritto a morire, e' stato, del resto, da tempo affermato
dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, proprio in relazione alla
tematica dell'aiuto al suicidio (sentenza 29 aprile 2002, Pretty
contro Regno Unito)» (ordinanza n. 207 del 2018).
Neppure, poi, e' possibile desumere la generale inoffensivita'
dell'aiuto al suicidio da un generico diritto all'autodeterminazione
individuale, riferibile anche al bene della vita: diritto che il
rimettente ricava dagli artt. 2 e 13, primo comma, Cost. A
prescindere dalle concezioni di cui era portatore il legislatore del
1930, la ratio dell'art. 580 cod. pen. puo' essere agevolmente
scorta, alla luce del vigente quadro costituzionale, nella «tutela
del diritto alla vita, soprattutto delle persone piu' deboli e
vulnerabili, che l'ordinamento penale intende proteggere da una
scelta estrema e irreparabile, come quella del suicidio. Essa assolve
allo scopo, di perdurante attualita', di tutelare le persone che
attraversano difficolta' e sofferenze, anche per scongiurare il
pericolo che coloro che decidono di porre in atto il gesto estremo e
irreversibile del suicidio subiscano interferenze di ogni genere»
(ordinanza n. 207 del 2018).
Le medesime considerazioni valgono, altresi', ad escludere che la
norma censurata si ponga, sempre e comunque sia, in contrasto con
l'art. 8 CEDU, il quale sancisce il diritto di ciascun individuo al
rispetto della propria vita privata: conclusione, questa, confermata
dalla pertinente giurisprudenza della Corte europea dei diritti
dell'uomo.
2.3.- All'interno del petitum principale del rimettente, questa
Corte ha individuato, nondimeno, una circoscritta area di non
conformita' costituzionale della fattispecie criminosa,
corrispondente segnatamente ai casi in cui l'aspirante suicida si
identifichi - come nella vicenda oggetto del giudizio a quo - in una
persona «(a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di
sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente
intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti
di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere
e consapevoli» (ordinanza n. 207 del 2018).
Si tratta di «situazioni inimmaginabili all'epoca in cui la norma
incriminatrice fu introdotta, ma portate sotto la sua sfera
applicativa dagli sviluppi della scienza medica e della tecnologia,
spesso capaci di strappare alla morte pazienti in condizioni
estremamente compromesse, ma non di restituire loro una sufficienza
di funzioni vitali». In tali casi, l'assistenza di terzi nel porre
fine alla sua vita puo' presentarsi al malato come l'unico modo per
sottrarsi, secondo le proprie scelte individuali, a un mantenimento
artificiale in vita non piu' voluto e che egli ha il diritto di
rifiutare in base all'art. 32, secondo comma, Cost. Parametro,
questo, non evocato nel dispositivo nell'ordinanza di rimessione, ma
piu' volte richiamato in motivazione.
Nei casi considerati - ha osservato questa Corte - la decisione
di accogliere la morte potrebbe essere gia' presa dal malato, sulla
base della legislazione vigente, con effetti vincolanti nei confronti
dei terzi, a mezzo della richiesta di interruzione dei trattamenti di
sostegno vitale in atto e di contestuale sottoposizione a sedazione
profonda continua. Cio', in forza della legge 22 dicembre 2017, n.
219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni
anticipate di trattamento), la cui disciplina recepisce e sviluppa,
nella sostanza, le conclusioni alle quali era gia' pervenuta
all'epoca la giurisprudenza ordinaria - in particolare a seguito
delle sentenze sui casi Welby (Giudice dell'udienza preliminare del
Tribunale ordinario di Roma, sentenza 23 luglio-17 ottobre 2007, n.
2049) ed Englaro (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza
16 ottobre 2007, n. 21748) - nonche' le indicazioni di questa Corte
riguardo al valore costituzionale del principio del consenso
informato del paziente al trattamento sanitario proposto dal medico
(ordinanza n. 207 del 2018): principio qualificabile come vero e
proprio diritto della persona, che trova fondamento nei principi
espressi negli artt. 2, 13 e 32 Cost. (sentenze n. 253 del 2009 e n.
438 del 2008).
La citata legge n. 219 del 2017 riconosce, infatti, ad «[o]gni
persona capace di agire» il diritto di rifiutare o interrompere
qualsiasi trattamento sanitario, ancorche' necessario alla propria
sopravvivenza, comprendendo espressamente nella relativa nozione
anche i trattamenti di idratazione e nutrizione artificiale (art. 1,
comma 5): diritto inquadrato nel contesto della «relazione di cura e
di fiducia» tra paziente e medico. In ogni caso, il medico «e' tenuto
a rispettare la volonta' espressa dal paziente di rifiutare il
trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo», rimanendo, «in
conseguenza di cio', [...] esente da responsabilita' civile o penale»
(art. 1, comma 6).
Integrando le previsioni della legge 15 marzo 2010, n. 38
(Disposizioni per garantire l'accesso alle cure palliative e alla
terapia del dolore) - che tutela e garantisce l'accesso alle cure
palliative e alla terapia del dolore da parte del paziente,
inserendole nell'ambito dei livelli essenziali di assistenza - la
legge n. 219 del 2017 prevede che la richiesta di sospensione dei
trattamenti sanitari possa essere associata alla richiesta di terapie
palliative, allo scopo di alleviare le sofferenze del paziente (art.
2, comma 1). Lo stesso art. 2 stabilisce inoltre, al comma 2, che il
medico possa, con il consenso del paziente, ricorrere alla sedazione
palliativa profonda continua in associazione con la terapia del
dolore, per fronteggiare sofferenze refrattarie ai trattamenti
sanitari. Disposizione, questa, che «non puo' non riferirsi anche
alle sofferenze provocate al paziente dal suo legittimo rifiuto di
trattamenti di sostegno vitale, quali la ventilazione, l'idratazione
o l'alimentazione artificiali: scelta che innesca un processo di
indebolimento delle funzioni organiche il cui esito - non
necessariamente rapido - e' la morte» (ordinanza n. 207 del 2018).
La legislazione oggi in vigore non consente, invece, al medico di
mettere a disposizione del paziente che versa nelle condizioni sopra
descritte trattamenti diretti, non gia' ad eliminare le sue
sofferenze, ma a determinarne la morte. Pertanto, il paziente, per
congedarsi dalla vita, e' costretto a subire un processo piu' lento e
piu' carico di sofferenze per le persone che gli sono care. Ne e'
testimonianza il caso oggetto del giudizio principale, nel quale,
«[s]econdo quanto ampiamente dedotto dalla parte costituita, [...]
l'interessato richiese l'assistenza al suicidio, scartando la
soluzione dell'interruzione dei trattamenti di sostegno vitale con
contestuale sottoposizione a sedazione profonda (soluzione che pure
gli era stata prospettata), proprio perche' quest'ultima non gli
avrebbe assicurato una morte rapida. Non essendo egli, infatti,
totalmente dipendente dal respiratore artificiale, la morte sarebbe
sopravvenuta solo dopo un periodo di apprezzabile durata,
quantificabile in alcuni giorni: modalita' di porre fine alla propria
esistenza che egli reputava non dignitosa e che i propri cari
avrebbero dovuto condividere sul piano emotivo» (ordinanza n. 207 del
2018).
Al riguardo, occorre in effetti considerare che la sedazione
profonda continua, connessa all'interruzione dei trattamenti di
sostegno vitale - sedazione che rientra nel genus dei trattamenti
sanitari - ha come effetto l'annullamento totale e definitivo della
coscienza e della volonta' del soggetto sino al momento del decesso.
Si comprende, pertanto, come la sedazione terminale possa essere
vissuta da taluni come una soluzione non accettabile.
Nelle ipotesi configurate nel dettaglio all'inizio di questo
punto 2.3. vengono messe in discussione, d'altronde, le esigenze di
tutela che negli altri casi giustificano la repressione penale
dell'aiuto al suicidio. Se, infatti, il fondamentale rilievo del
valore della vita non esclude l'obbligo di rispettare la decisione
del malato di porre fine alla propria esistenza tramite
l'interruzione dei trattamenti sanitari - anche quando cio' richieda
una condotta attiva, almeno sul piano naturalistico, da parte di
terzi (quale il distacco o lo spegnimento di un macchinario,
accompagnato dalla somministrazione di una sedazione profonda
continua e di una terapia del dolore) - non vi e' ragione per la
quale il medesimo valore debba tradursi in un ostacolo assoluto,
penalmente presidiato, all'accoglimento della richiesta del malato di
un aiuto che valga a sottrarlo al decorso piu' lento conseguente
all'anzidetta interruzione dei presidi di sostegno vitale. Quanto,
poi, all'esigenza di proteggere le persone piu' vulnerabili, e' ben
vero che i malati irreversibili esposti a gravi sofferenze
appartengono solitamente a tale categoria di soggetti. Ma e' anche
agevole osservare che, se chi e' mantenuto in vita da un trattamento
di sostegno artificiale e' considerato dall'ordinamento in grado, a
certe condizioni, di prendere la decisione di porre termine alla
propria esistenza tramite l'interruzione di tale trattamento, non si
vede la ragione per la quale la stessa persona, a determinate
condizioni, non possa ugualmente decidere di concludere la propria
esistenza con l'aiuto di altri.
La conclusione e' dunque che entro lo specifico ambito
considerato, il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce per
limitare ingiustificatamente nonche' irragionevolmente la liberta' di
autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese
quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli
artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., imponendogli in ultima
analisi un'unica modalita' per congedarsi dalla vita.
2.4.- Con la stessa ordinanza n. 207 del 2018, questa Corte ha
ritenuto, peraltro, di non poter porre rimedio - «almeno allo stato»
- «al riscontrato vulnus», tramite una pronuncia meramente ablativa,
riferita ai pazienti che versino nelle condizioni sopra indicate. Una
simile soluzione avrebbe, infatti, generato il pericolo di lesione di
altri valori costituzionalmente protetti, lasciando «del tutto priva
di disciplina legale la prestazione di aiuto materiale ai pazienti in
tali condizioni, in un ambito ad altissima sensibilita' etico-sociale
e rispetto al quale vanno con fermezza preclusi tutti i possibili
abusi».
In assenza di una specifica disciplina della materia, infatti,
«qualsiasi soggetto - anche non esercente una professione sanitaria -
potrebbe lecitamente offrire, a casa propria o a domicilio, per
spirito filantropico o a pagamento, assistenza al suicidio a pazienti
che lo desiderino, senza alcun controllo ex ante sull'effettiva
sussistenza, ad esempio, della loro capacita' di autodeterminarsi,
del carattere libero e informato della scelta da essi espressa e
dell'irreversibilita' della patologia da cui sono affetti».
Conseguenze, quelle ora indicate, delle quali «questa Corte non puo'
non farsi carico» (ordinanza n. 207 del 2018).
Una regolazione della materia, intesa ad evitare simili scenari,
gravidi di pericoli per la vita di persone in situazione di
vulnerabilita', e' suscettibile peraltro di investire plurimi
profili, ciascuno dei quali, a sua volta, variamente declinabile
sulla base di scelte discrezionali: «come, ad esempio, le modalita'
di verifica medica della sussistenza dei presupposti in presenza dei
quali una persona possa richiedere l'aiuto, la disciplina del
relativo "processo medicalizzato", l'eventuale riserva esclusiva di
somministrazione di tali trattamenti al servizio sanitario nazionale,
la possibilita' di una obiezione di coscienza del personale sanitario
coinvolto nella procedura».
La disciplina potrebbe essere inoltre «introdotta, anziche'
mediante una mera modifica della disposizione penale di cui all'art.
580 cod. pen., in questa sede censurata, inserendo la disciplina
stessa nel contesto della legge n. 219 del 2017 e del suo spirito, in
modo da inscrivere anche questa opzione nel quadro della "relazione
di cura e di fiducia tra paziente e medico", opportunamente
valorizzata dall'art. 1 della legge medesima» (ordinanza n. 207 del
2018). Potrebbe prospettarsi, ancora, l'esigenza di «introdurre una
disciplina ad hoc per le vicende pregresse», anch'essa variamente
calibrabile.
Deve quindi, infine, essere sottolineata l'esigenza di adottare
opportune cautele affinche' «l'opzione della somministrazione di
farmaci in grado di provocare entro un breve lasso di tempo la morte
del paziente non comporti il rischio di alcuna prematura rinuncia, da
parte delle strutture sanitarie, a offrire sempre al paziente
medesimo concrete possibilita' di accedere a cure palliative diverse
dalla sedazione profonda continua, ove idonee a eliminare la sua
sofferenza [...] in accordo con l'impegno assunto dallo Stato con la
citata legge n. 38 del 2010». Il coinvolgimento in un percorso di
cure palliative deve costituire, infatti, «un pre-requisito della
scelta, in seguito, di qualsiasi percorso alternativo da parte del
paziente» (come gia' prefigurato dall'ordinanza n. 207 del 2018).
Peraltro, nel parere del 18 luglio 2019 («Riflessioni bioetiche
sul suicidio medicalmente assistito»), il Comitato nazionale per la
bioetica, pur nella varieta' delle posizioni espresse sulla
legalizzazione del suicidio medicalmente assistito, ha sottolineato,
all'unanimita', che la necessaria offerta effettiva di cure
palliative e di terapia del dolore - che oggi sconta «molti ostacoli
e difficolta', specie nella disomogeneita' territoriale dell'offerta
del SSN, e nella mancanza di una formazione specifica nell'ambito
delle professioni sanitarie» - dovrebbe rappresentare, invece, «una
priorita' assoluta per le politiche della sanita'».
Si cadrebbe, altrimenti, nel paradosso di non punire l'aiuto al
suicidio senza avere prima assicurato l'effettivita' del diritto alle
cure palliative.
2.5.- Questa Corte ha rilevato, da ultimo, come, in casi simili,
essa abbia dichiarato l'inammissibilita' della questione sollevata,
accompagnandola con un monito al legislatore per l'introduzione della
disciplina necessaria a rimuovere il vulnus costituzionale: pronuncia
alla quale, ove il monito fosse rimasto senza riscontro, ha fatto
seguito, di norma, una declaratoria di incostituzionalita'.
Tale soluzione e' stata ritenuta, tuttavia, non percorribile
nella specie.
La ricordata tecnica decisoria ha «l'effetto di lasciare in vita
- e dunque esposta a ulteriori applicazioni, per un periodo di tempo
non preventivabile - la normativa non conforme a Costituzione. La
eventuale dichiarazione di incostituzionalita' conseguente
all'accertamento dell'inerzia legislativa presuppone, infatti, che
venga sollevata una nuova questione di legittimita' costituzionale,
la quale puo', peraltro, sopravvenire anche a notevole distanza di
tempo dalla pronuncia della prima sentenza di inammissibilita',
mentre nelle more la disciplina in discussione continua ad operare.
Un simile effetto non puo' considerarsi consentito nel caso in esame,
per le sue peculiari caratteristiche e per la rilevanza dei valori da
esso coinvolti» (ordinanza n. 207 del 2018).
Questa Corte ha ritenuto, quindi, di dover procedere in altro
modo. Facendo leva sui «propri poteri di gestione del processo
costituzionale», ha fissato, cioe', una nuova udienza di trattazione
delle questioni, a undici mesi di distanza (segnatamente, al 24
settembre 2019): udienza in esito alla quale avrebbe potuto essere
valutata l'eventuale sopravvenienza di una legge regolatrice della
materia in conformita' alle segnalate esigenze di tutela.
In questo modo, si e' lasciata al Parlamento la possibilita' di
assumere le necessarie decisioni rimesse alla sua discrezionalita',
ma si e' evitato che, nel frattempo, la norma potesse trovare
applicazione. Il giudizio a quo e' rimasto, infatti, sospeso.
3.- Deve pero' ora prendersi atto di come nessuna normativa in
materia sia sopravvenuta nelle more della nuova udienza. Ne', d'altra
parte, l'intervento del legislatore risulta imminente.
I plurimi progetti di legge pure presentati in materia, di vario
taglio, sono rimasti, infatti, tutti senza seguito.
Il relativo esame - iniziato presso la Camera dei deputati,
quanto alle proposte di legge A.C. 1586 e abbinate - si e', infatti,
arrestato alla fase della trattazione in commissione, senza che sia
stato possibile addivenire neppure all'adozione di un testo
unificato.
4.- In assenza di ogni determinazione da parte del Parlamento,
questa Corte non puo' ulteriormente esimersi dal pronunciare sul
merito delle questioni, in guisa da rimuovere il vulnus
costituzionale gia' riscontrato con l'ordinanza n. 207 del 2018.
Non e' a cio' d'ostacolo la circostanza che - per quanto rilevato
nella medesima ordinanza e come poco sopra ricordato - la decisione
di illegittimita' costituzionale faccia emergere specifiche esigenze
di disciplina che, pur suscettibili di risposte differenziate da
parte del legislatore, non possono comunque sia essere disattese.
Il rinvio disposto all'esito della precedente udienza risponde,
infatti, con diversa tecnica, alla stessa logica che ispira, nella
giurisprudenza di questa Corte, il collaudato meccanismo della
"doppia pronuncia" (sentenza di inammissibilita' "con monito"
seguita, in caso di mancato recepimento di quest'ultimo, da
declaratoria di incostituzionalita'). Decorso un congruo periodo di
tempo, l'esigenza di garantire la legalita' costituzionale deve,
comunque sia, prevalere su quella di lasciare spazio alla
discrezionalita' del legislatore per la compiuta regolazione della
materia, alla quale spetta la priorita'.
Come piu' volte si e' avuto modo di rilevare, «posta di fronte a
un vulnus costituzionale, non sanabile in via interpretativa - tanto
piu' se attinente a diritti fondamentali - la Corte e' tenuta
comunque a porvi rimedio» (sentenze n. 162 del 2014 e n. 113 del
2011; analogamente sentenza n. 96 del 2015). Occorre, infatti,
evitare che l'ordinamento presenti zone franche immuni dal sindacato
di legittimita' costituzionale: e cio' «specie negli ambiti, come
quello penale, in cui e' piu' impellente l'esigenza di assicurare una
tutela effettiva dei diritti fondamentali, incisi dalle scelte del
legislatore» (sentenza n. 99 del 2019).
Risalente, nella giurisprudenza di questa Corte, e'
l'affermazione per cui non puo' essere ritenuta preclusiva della
declaratoria di illegittimita' costituzionale delle leggi la carenza
di disciplina - reale o apparente - che da essa puo' derivarne, in
ordine a determinati rapporti (sentenza n. 59 del 1958). Ove, pero',
i vuoti di disciplina, pure in se' variamente colmabili, rischino di
risolversi a loro volta - come nel caso di specie - in una menomata
protezione di diritti fondamentali (suscettibile anch'essa di
protrarsi nel tempo, nel perdurare dell'inerzia legislativa), questa
Corte puo' e deve farsi carico dell'esigenza di evitarli, non
limitandosi a un annullamento "secco" della norma incostituzionale,
ma ricavando dalle coordinate del sistema vigente i criteri di
riempimento costituzionalmente necessari, ancorche' non a contenuto
costituzionalmente vincolato, fin tanto che sulla materia non
intervenga il Parlamento (in questo senso, sentenze n. 40 del 2019,
n. 233 e 222 del 2018 e n. 236 del 2016).
5.- Cio' posto, per quanto attiene ai contenuti della presente
decisione, questa Corte ha gia' puntualmente individuato,
nell'ordinanza n. 207 del 2018, le situazioni in rapporto alle quali
l'indiscriminata repressione penale dell'aiuto al suicidio,
prefigurata dall'art. 580 cod. pen., entra in frizione con i precetti
costituzionali evocati. Si tratta in specie - come si e' detto - dei
casi nei quali venga agevolata l'esecuzione del proposito di
suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona
tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una
patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche
che ella trova intollerabili, ma pienamente capace di prendere
decisioni libere e consapevoli.
Quanto, poi, all'esigenza di evitare che la sottrazione pura e
semplice di tale condotta alla sfera di operativita' della norma
incriminatrice dia luogo a intollerabili vuoti di tutela per i valori
protetti, generando il pericolo di abusi «per la vita di persone in
situazioni di vulnerabilita'» (ordinanza n. 207 del 2018), gia' piu'
volte questa Corte, in passato, si e' fatta carico dell'esigenza di
scongiurare esiti similari: in particolare, subordinando la non
punibilita' dei fatti che venivano di volta in volta in rilievo al
rispetto di specifiche cautele, volte a garantire - nelle more
dell'intervento del legislatore - un controllo preventivo
sull'effettiva esistenza delle condizioni che rendono lecita la
condotta.
Cio' e' avvenuto, ad esempio, in materia di aborto, con la
sentenza n. 27 del 1975 (la quale dichiaro' illegittimo l'art. 546
cod. pen., nella parte in cui non prevedeva che la gravidanza potesse
essere interrotta quando l'ulteriore gestazione implicasse «danno, o
pericolo, grave, medicalmente accertato nei sensi di cui in
motivazione e non altrimenti evitabile, per la salute della madre»);
ovvero, piu' di recente, in materia di procreazione medicalmente
assistita, con le sentenze n. 96 e n. 229 del 2015 (le quali hanno
dichiarato illegittime, rispettivamente, le disposizioni che negavano
l'accesso alle relative tecniche alle coppie fertili portatrici di
gravi malattie genetiche, trasmissibili al nascituro, «accertate da
apposite strutture pubbliche», e la disposizione che puniva ogni
forma di selezione eugenetica degli embrioni, senza escludere le
condotte di selezione volte a evitare l'impianto nell'utero della
donna di embrioni affetti da gravi malattie genetiche trasmissibili
accertate nei predetti modi).
Nell'odierno frangente, peraltro, un preciso «punto di
riferimento» (sentenza n. 236 del 2016) gia' presente nel sistema -
utilizzabile ai fini considerati, nelle more dell'intervento del
Parlamento - e' costituito dalla disciplina racchiusa negli artt. 1 e
2 della legge n. 219 del 2017: disciplina piu' volte richiamata, del
resto, nella stessa ordinanza n. 207 del 2018.
La declaratoria di incostituzionalita' attiene, infatti, in modo
specifico ed esclusivo all'aiuto al suicidio prestato a favore di
soggetti che gia' potrebbero alternativamente lasciarsi morire
mediante la rinuncia a trattamenti sanitari necessari alla loro
sopravvivenza, ai sensi dell'art. 1, comma 5, della legge ora citata:
disposizione che, inserendosi nel piu' ampio tessuto delle previsioni
del medesimo articolo, prefigura una "procedura medicalizzata"
estensibile alle situazioni che qui vengono in rilievo.
Il riferimento a tale procedura - con le integrazioni di cui si
dira' in seguito - si presta a dare risposta a buona parte delle
esigenze di disciplina poste in evidenza nell'ordinanza n. 207 del
2018.
Cio' vale, anzitutto, con riguardo alle «modalita' di verifica
medica della sussistenza dei presupposti in presenza dei quali una
persona possa richiedere l'aiuto». Mediante la procedura in questione
e', infatti, gia' possibile accertare la capacita' di
autodeterminazione del paziente e il carattere libero e informato
della scelta espressa. L'art. 1, comma 5, della legge n. 219 del 2017
riconosce, infatti, il diritto all'interruzione dei trattamenti di
sostegno vitale in corso alla persona «capace di agire» e stabilisce
che la relativa richiesta debba essere espressa nelle forme previste
dal precedente comma 4 per il consenso informato. La manifestazione
di volonta' deve essere, dunque, acquisita «nei modi e con gli
strumenti piu' consoni alle condizioni del paziente» e documentata
«in forma scritta o attraverso videoregistrazioni o, per la persona
con disabilita', attraverso dispositivi che le consentano di
comunicare», per poi essere inserita nella cartella clinica. Cio',
«[f]erma restando la possibilita' per il paziente di modificare la
propria volonta'»: il che, peraltro, nel caso dell'aiuto al suicidio,
e' insito nel fatto stesso che l'interessato conserva, per
definizione, il dominio sull'atto finale che innesca il processo
letale.
Lo stesso art. 1, comma 5, prevede, altresi', che il medico debba
prospettare al paziente «le conseguenze di tale decisione e le
possibili alternative», promovendo «ogni azione di sostegno al
paziente medesimo, anche avvalendosi dei servizi di assistenza
psicologica». In questo contesto, deve evidentemente darsi conto
anche del carattere irreversibile della patologia: elemento indicato
nella cartella clinica e comunicato dal medico quando avvisa il
paziente circa le conseguenze legate all'interruzione del trattamento
vitale e sulle «possibili alternative». Lo stesso deve dirsi per le
sofferenze fisiche o psicologiche: il promovimento delle azioni di
sostegno al paziente, comprensive soprattutto delle terapie del
dolore, presuppone una conoscenza accurata delle condizioni di
sofferenza.
Il riferimento a tale disciplina implica, d'altro canto,
l'inerenza anche della materia considerata alla relazione tra medico
e paziente.
Quanto all'esigenza di coinvolgimento dell'interessato in un
percorso di cure palliative, l'art. 2 della legge n. 219 del 2017
prevede che debba essere sempre garantita al paziente un'appropriata
terapia del dolore e l'erogazione delle cure palliative previste
dalla legge n. 38 del 2010 (e da questa incluse, come gia' ricordato,
nell'ambito dei livelli essenziali di assistenza). Tale disposizione
risulta estensibile anch'essa all'ipotesi che qui interessa:
l'accesso alle cure palliative, ove idonee a eliminare la sofferenza,
spesso si presta, infatti, a rimuovere le cause della volonta' del
paziente di congedarsi dalla vita.
Similmente a quanto gia' stabilito da questa Corte con le citate
sentenze n. 229 e n. 96 del 2015, la verifica delle condizioni che
rendono legittimo l'aiuto al suicidio deve restare peraltro affidata
- in attesa della declinazione che potra' darne il legislatore - a
strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale. A queste ultime
spettera' altresi' verificare le relative modalita' di esecuzione, le
quali dovranno essere evidentemente tali da evitare abusi in danno di
persone vulnerabili, da garantire la dignita' del paziente e da
evitare al medesimo sofferenze.
La delicatezza del valore in gioco richiede, inoltre,
l'intervento di un organo collegiale terzo, munito delle adeguate
competenze, il quale possa garantire la tutela delle situazioni di
particolare vulnerabilita'. Nelle more dell'intervento del
legislatore, tale compito e' affidato ai comitati etici
territorialmente competenti. Tali comitati - quali organismi di
consultazione e di riferimento per i problemi di natura etica che
possano presentarsi nella pratica sanitaria - sono, infatti,
investiti di funzioni consultive intese a garantire la tutela dei
diritti e dei valori della persona in confronto alle sperimentazioni
cliniche di medicinali o, amplius, all'uso di questi ultimi e dei
dispositivi medici (art. 12, comma 10, lettera c, del d.l. n. 158 del
2012; art. 1 del decreto del Ministro della salute 8 febbraio 2013,
recante «Criteri per la composizione e il funzionamento dei comitati
etici»): funzioni che involgono specificamente la salvaguardia di
soggetti vulnerabili e che si estendono anche al cosiddetto uso
compassionevole di medicinali nei confronti di pazienti affetti da
patologie per le quali non siano disponibili valide alternative
terapeutiche (artt. 1 e 4 del decreto del Ministro della salute 7
settembre 2017, recante «Disciplina dell'uso terapeutico di
medicinale sottoposto a sperimentazione clinica»).
6.- Quanto, infine, al tema dell'obiezione di coscienza del
personale sanitario, vale osservare che la presente declaratoria di
illegittimita' costituzionale si limita a escludere la punibilita'
dell'aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun
obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici. Resta affidato,
pertanto, alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o
no, a esaudire la richiesta del malato.
7.- I requisiti procedimentali dianzi indicati, quali condizioni
per la non punibilita' dell'aiuto al suicidio prestato a favore di
persone che versino nelle situazioni indicate analiticamente nel
precedente punto 2.3., valgono per i fatti successivi alla
pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica.
In quanto enucleate da questa Corte solo con la presente
sentenza, in attesa dell'intervento del legislatore, le condizioni
procedimentali in questione non possono essere richieste, tal quali,
in rapporto ai fatti anteriormente commessi, come quello oggetto del
giudizio a quo, che precede la stessa entrata in vigore della legge
n. 219 del 2017. Rispetto alle vicende pregresse, infatti, le
condizioni in parola non risulterebbero, in pratica, mai puntualmente
soddisfatte.
Cio' impone una diversa scansione del contenuto della pronuncia
sul piano temporale.
Riguardo ai fatti anteriori la non punibilita' dell'aiuto al
suicidio rimarra' subordinata, in specie, al fatto che l'agevolazione
sia stata prestata con modalita' anche diverse da quelle indicate, ma
idonee comunque sia a offrire garanzie sostanzialmente equivalenti.
Occorrera' dunque che le condizioni del richiedente che valgono a
rendere lecita la prestazione dell'aiuto - patologia irreversibile,
grave sofferenza fisica o psicologica, dipendenza da trattamenti di
sostegno vitale e capacita' di prendere decisioni libere e
consapevoli - abbiano formato oggetto di verifica in ambito medico;
che la volonta' dell'interessato sia stata manifestata in modo chiaro
e univoco, compatibilmente con quanto e' consentito dalle sue
condizioni; che il paziente sia stato adeguatamente informato sia in
ordine a queste ultime, sia in ordine alle possibili soluzioni
alternative, segnatamente con riguardo all'accesso alle cure
palliative ed, eventualmente, alla sedazione profonda continua.
Requisiti tutti la cui sussistenza dovra' essere verificata dal
giudice nel caso concreto.
8.- L'art. 580 cod. pen. deve essere dichiarato, dunque,
costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 2, 13 e
32, secondo comma, Cost., nella parte in cui non esclude la
punibilita' di chi, con le modalita' previste dagli artt. 1 e 2 della
legge n. 219 del 2017 - ovvero, quanto ai fatti anteriori alla
pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica, con modalita' equivalenti nei sensi dianzi indicati -,
agevola l'esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e
liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti
di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di
sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma
pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre
che tali condizioni e le modalita' di esecuzione siano state
verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario
nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente
competente.
L'ulteriore questione sollevata in via principale per violazione
dell'art. 117, primo comma, Cost., in riferimento agli artt. 2 e 8
CEDU, resta assorbita.
Parimente assorbite restano le questioni subordinate, attinenti
alla misura della pena.
9.- Questa Corte non puo' fare a meno, peraltro, di ribadire con
vigore l'auspicio che la materia formi oggetto di sollecita e
compiuta disciplina da parte del legislatore, conformemente ai
principi precedentemente enunciati.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l'illegittimita' costituzionale dell'art. 580 del codice
penale, nella parte in cui non esclude la punibilita' di chi, con le
modalita' previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n.
219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni
anticipate di trattamento) - ovvero, quanto ai fatti anteriori alla
pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica, con modalita' equivalenti nei sensi di cui in motivazione
-, agevola l'esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e
liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti
di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di
sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma
pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre
che tali condizioni e le modalita' di esecuzione siano state
verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario
nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente
competente.
Cosi' deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 25 settembre 2019.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Franco MODUGNO, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 22 novembre 2019.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA
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