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IMPIEGO PUBBLICO - LAVORO (RAPPORTO)
Cass. civ. Sez. lavoro, 24-05-2005, n. 10905 |
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MATTONE Sergio - Presidente
Dott. CUOCO Pietro - Consigliere
Dott. FOGLIA Raffaele - Consigliere
Dott. PICONE Pasquale - rel. Consigliere
Dott. DE MATTEIS Aldo - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso principale proposto da:
MINISTERO
DEGLI AFFARI ESTERI, in persona del Ministro in carica, legalmente
domiciliato in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, presso l'Avvocatura
generale dello Stato che lo difende;
- ricorrente -
contro
-
- resistente -
e sul ricorso incidentale proposto da:(omissis) (omissis), come sopra rappresentato, domiciliato e difeso;
- ricorrente -
contro
MINISTERO DEGLI AFFARI ESTERI, come sopra rappresentato, domiciliato e difeso;
- intimato -
per la cassazione della sentenza della Corte di appello di Roma, n. 509 del 14 marzo 2002. (r.g. n. 4008/2000);
sentiti, nella pubblica udienza del 6.4.2005: il Cons. Dott. Pasquale Picone che ha svolto la relazione della causa;
l'avv. Tommaso Raccuglia;
il
Pubblico ministero nella persona del sostituto procuratore generale Dr.
APICE Umberto che ha concluso per il rigetto delle istanze preliminari
di rimessione alle Sezioni unite e di sostituzione del relatore, e per
il rigetto del ricorso principale e del ricorso incidentale.
Svolgimento del processo
Decidendo
sull'impugnazione principale del Ministero degli affari esteri e
sull'impugnazione incidentale di (omissis) (omissis) contro la sentenza
del Tribunale della stessa sede, la Corte di appello di Roma ha
parzialmente accolto le due impugnazioni, riducendo, a E. 25.822,84 la
somma liquidata dal primo giudice a titolo di risarcimento del danno da
perdita di chance e dichiarando che il versamento della somma di L.
36.933.900, in esecuzione dell'ordinanza cautelare 31.3.1999, costituiva
adempimento dell'obbligo risarcitorio dell'amministrazione per il danno
da dequalificazione professionale;
riconoscendo
al (omissis) euro 6.197,48 a titolo di risarcimento del danno derivato
dal recesso in data 7.3.1994, anteriore alla scadenza del contratto a
tempo determinato, oltre interessi e rivalutazione dalla sentenza al
saldo, con il rigetto per il resto dell'appello incidentale.
Il
(omissis) era stato assunto dal Ministero degli affari esteri con
contratto di lavoro di diritto privato della durata di quattro anni
(1991-1994), ai sensi dell'art. 12 l. 26 febbraio 1987, n. 49,
quale esperto di secondo livello operante nell'Unita" tecnica centrale
di cooperazione allo sviluppo di paesi esteri. Il contratto, che scadeva
il 31.12.1994, era rinnovabile, ma il Ministero, prima aveva dichiarato
risolto il contratto in data 7.3.1994, poi, riammesso in servizio il
(omissis) dal 21.7.1994, in esecuzione di provvedimento cautelare del
Tribunale amministrativo del Lazio, aveva rifiutato il rinnovo del
contratto con provvedimenti 72/1994 e 181/1994 (questo secondo
sostitutivo del primo). Sempre per effetto di provvedimento cautelare
del giudice amministrativo, il (omissis) era poi rimasto in servizio
fino al 14.2.1997.
Il
lavoratore aveva domandato l'accertamento dell'illegittimità del
licenziamento, con le conseguenze previste dall'art. 18 della legge n. 300 del 1970;
l'accertamento,
con diverse prospettazioni, della persistenza del rapporto di lavoro
oltre la scadenza del 31.12.1994 e la condanna dell'Amministrazione a
riammetterlo in servizio, nonchè al risarcimento dei danni.
Aveva altresì avanzato numerose pretese relative al servizio prestato, di carattere risarcitorio e retribuivo.
La
Corte di appello di Roma ha ritenuto fondate soltanto le pretese
risarcitone di cui sopra, riducendo però gli importi liquidati dal primo
giudice.
Contro
questa sentenza hanno proposto ricorso per Cassazione in via principale
l'amministrazione degli esteri e in via incidentale il (omissis), che
ha resistito con controricorso.
Rimessa la causa alle Sezioni unite ai sensi dell'art. 374, primo comma, c.p.c.,
per la preliminare qualificazione, ai fini della giurisdizione, di
alcune delle posizioni giuridiche affermate dalla parte privata nei
confronti della pubblica amministrazione, con sentenza 1 ottobre 2003,
n. 14625, previa riunione dei ricorsi, è stata dichiarata la
giurisdizione dell'autorità giudiziaria ordinaria con trasmissione degli
atti alla Sezione lavoro per Tesarne dei motivi non attinenti alla
giurisdizione.
Contro
questa sentenza il (omissis) ha proposto ricorso per revocazione,
dichiarato inammissibile con sentenza 16 novembre 2004, n. 21638.
Il
ricorrente incidentale ha depositato memoria per l'udienza dinanzi alle
Sezioni unite, altra memoria per l'udienza inizialmente fissata per il
giorno 25.2.2004, con rinvio a nuovo ruolo della causa in attesa della
decisione sul ricorso per revocazione, ulteriore memoria per l'udienza
odierna. Con ordinanza resa in udienza, il collegio ha respinto la
richiesta del (omissis) di rimettere la causa alle Sezioni unite, nonchè
di sostituzione del relatore designato.
Motivi della decisione
1.
Il ricorso principale è strutturato in cinque motivi; il controricorso
contenente il ricorso incidentale consta di 1061 pagine e i suoi motivi
non sono facilmente individuabili, risultando le censure distribuite tra
i diversi argomenti trattati, spesso ripresi identici nella sostanza in
diversi punti, taluni persino formalmente iscritti tra le deduzioni del
controricorso.
Per
queste ragioni, il metodo di esame dei ricorsi riuniti consisterà
dell'individuare, nell'ordine logico ritenuto più adeguato, le singole
statuizioni contenute nella sentenza impugnata e le censure relative. Va
ricordato anche che controversie di contenuto analogo sono già state
decise da questa Sezione della Corte di Cassazione (sentenze n. 10922,
12092 e 23925 del 2004), con la risoluzione di talune questioni poste in
termini identici nella presente controversia.
1.1.
Prima di procedere all'esame dei motivi dei ricorsi riuniti, la Corte
avverte che non terrà in alcuna considerazione (con particolare
riferimento al ricorso incidentale) la denuncia di vizi di motivazione
concernenti errores in procedendo o in iudicando.
Infatti, il vizio di motivazione denunciatole come motivo di ricorso per Cassazione ai sensi dell'art. 360, n. 5 c.p.c.,
può concernere esclusivamente l'accertamento e la valutazione dei fatti
rilevanti ai fini della decisione della controversia e dei quali la
Corte non possa conoscere direttamente (come avviene, al contrario, per
le vicende processuali che si traducono in errori di rito), non anche
l'interpretazione e l'applicazione delle norme giuridiche, atteso che,
in relazione a una questione la cui soluzione dipende esclusivamente
dall'interpretazione di atti normativi, la cognizione del giudice di
legittimità investe direttamente le disposizioni, senza il "filtro"
rappresentato dalla motivazione della sentenza impugnata. Ne discende,
come si argomenta agevolmente dal disposto dell'art. 384, secondo comma, c.p.c.,
che, ove il giudice del merito abbia correttamente deciso le questioni
di diritto sottoposte al suo esame, ancorchè difetti la motivazione o
questa sia comunque inadeguata, illogica o contraddittoria, la Corte di
Cassazione ha il potere di sostituirla, integrarla o emendarla, (vedi,
per tutte, Cass. 4593/2000,19/2002; Cass., sez. un., 261/2003).
1.2.
In questo ambito rientra anche la ricerca della regola di giudizio
mediante promovimento di questione incidentale di legittimità
costituzionale, ovvero mediante applicazione di norme comunitarie,
previa eventuale richiesta alla Corte di giustizia Cee di decidere una
questione pregiudiziale. Ne segue che le relative questioni, essendo
proponibili (e rilevabili di ufficio) anche per la prima volta nel
giudizio di legittimità se strumentali alla decisione del ricorso,
prescindono completamente dalle pronunce del giudice del merito e non
rivestono alcuna autonomia sul piano dei vizi imputati alla decisione
impugnata.
1.3.
Altra premessa di ordine generale è che gli eventuali errori del
giudice nell'interpretare il sistema difensivo di una parte concretano
errores in iudicando e, quindi, al riguardo non è consentito al giudice
di legittimità, se non sono in questione errores in procedendo, di
procedere all'esame diretto degli atti processuali, la cui
interpretazione è rimessa istituzionalmente al giudice di merito,
interpretazione censurabile in cassazione solo per vizi di motivazione
(Cass. 551/1997).
1.4.
Ed infine, la Corte non esaminerà specificamente tutte quelle deduzioni
che risulteranno giuridicamente e logicamente assorbite dalla soluzione
data ad altre questioni, logicamente pregiudiziali, nè darà risposte a
quelle denunce di errores in procedendo in relazione alle quali non
risultano precisate le statuizioni di cui si chiede la cassazione in
quanto inficiate dai detti vizi; più in generale, non potrà prendere in
considerazione tutte le articolazioni delle numerosissime censure
contenute nel ricorso incidentale, dovendo ottemperare all'obbligo di
"concisa esposizione...dei motivi della decisione" (art. 132, comma
primo, n. 4, c.p.c).
2.
E' indispensabile precisare, innanzi tutto, il quadro normativo entro
il quale la vicenda si svolge ed il complesso dei principi generali
applicabili al rapporto controverso.
2.1. La legge 26 febbraio 1987, n. 49
- Nuova disciplina della cooperazione dell'Italia con i paesi in via di
sviluppo - istituì e disciplinò, all'art. 12, una "Unità tecnica
centrale" a supporto dell'attività della Direzione generale per la
cooperazione allo sviluppo, disponendo, per le parti che interessano la
controversia:
"L'organico
dell'Unità tecnica centrale è costituito da esperti assunti con
contratto di diritto privato a termine entro un contingente massimo di
centoventi unità..."(comma 3); "Le caratteristiche del rapporto
contrattuale di diritto privato a termine - ivi compreso il trattamento
economico - sono fissate con decreto del Ministro degli affari esteri,
di concerto con il Ministro del tesoro, del bilancio e della
programmazione economica e con il Ministro della funzione pubblica,
previo parere del Comitato direzionale di cui all'articolo 9, tenuto
conto dei criteri e dei parametri osservati al riguardo dal Fondo
europeo dello sviluppo della Comunità economica europea, nonchè
dell'esperienza professionale di cui il personale interessato sarà in
possesso al momento della stipula del contratto. Il contratto avrà
durata quadriennale rinnovabile in costanza delle esigenze connesse
all'attuazione dei compiti di natura tecnica della cooperazione allo
sviluppo. Il decreto di cui al presente comma dovrà altresì prevedere le
procedure concorsuali per la immissione degli esperti di cui al comma 3
nell'Unità tecnica centrale" (comma 4).
L'art. 4 d.l. 28 dicembre 1993, n. 543 - Misure urgenti per il controllo della spesa nel settore degli interventi nei paesi in via di sviluppo - conv. in l. 17 febbraio 1994, n. 121,
stabilì nel primo comma: "I contratti stipulati con gli esperti
dell'Unita tecnica centrale possono essere rinnovati per periodi
quadriennali previa valutatone delle qualifiche ed esperienze acquisite,
sentita una commissione nominata dal Ministro degli affari esteri e
composta da cinque membri di cittadinanza anche non italiana. La
disposizione di cui al presente comma ha carattere transitorio e si
applica ai contratti in scadenza tra il 1 novembre 1993 ed il 31
dicembre 1994, nonchè a quelli che scadono nel 1995 unicamente per
effetto di atti aggiuntivi ai detti contratti. A tal fine i contratti
con scadenza tra il 1 novembre 1993 e il 31 dicembre 1994 sono prorogati
fino a tale ultima data". 2.2. La natura privatistica del rapporto di
lavoro in questione è stata affermata dalle Sezioni unite della Corte,
le quali hanno fatto riferimento alla sua derivazione contrattuale e
all'espressa qualificazione contenuta negli art. 12, commi 3 e 4, e 16,
comma 1, lett. c), l. n. 49 del 1987 (Cass, s.u. 10925/1995;l 101/1998;
14676/2000).
La
sentenza delle Sezioni unite pronunciata in questa controversia, poi,
ha risolto, ai fini della giurisdizione, la questione se, nella fase
diretta alla conclusione del contratto, l'eventuale discrezionalità
spettante alla pubblica amministrazione, in particolare quanto alla
decisione di rinnovare o no il contratto di lavoro, comporti l'esercizio
di una potestà pubblica, sottoponibile al sindacato della giurisdizione
generale di legittimità del giudice amministrativo, oppure debba essere
collocata in regime privatistico e sia perciò controllabile dal giudice
ordinario. La questione, con l'esame dei motivi di ricorso ad essa
attinente, è stata risolta nel secondo senso, qualificando la pretesa al
rinnovo del contratto come diritto soggettivo, non interesse legittimo
contrapposto a un potere pubblico discrezionale, potere che
l'amministrazione deve esercitare a tutela di interessi generali. Più in
particolare, ha ritenuto che, anche nella fase preordinata alla
costituzione del rapporto di diritto civile, la relazione tra le parti è
di natura paritetica, restando estranea ogni connotazione
pubblicistica, cosicchè le posizioni autoritative e discrezionali
dell'ente (futuro o attuale) datore di lavoro sono assimilate a quelle
del datore di lavoro privato e, correlativamente, la posizione
soggettiva spettante al privato e asseritamente lesa deve qualificarsi
come interesse legittimo di diritto privato, da riportare, quanto alla
tutela giudiziaria, nella più ampia categoria dei "diritti" di cui
all'art. 2907 c.c..
2.3.
La decisione sulla giurisdizione resa dalle Sezioni unite della Corte
di cassazione, che sia fondata sulla qualificazione del rapporto dedotto
in giudizio, comporta che il giudicato sulla giurisdizione si estenda
anche a tale qualificazione e sia, pertanto, definitivamente vincolante
nella risoluzione delle questioni di merito (Cass. 11839/2003).
Si
deve perciò escludere la presenza di procedimenti (e atti
amministrativi) di evidenza pubblica, diretti cioè ad individuare i
motivi di pubblico interesse per i quali si addiviene alla stipulazione
del contratto di diritto privato con una parte individuata all'esito del
procedimento, e, dunque, anche di una fattispecie di concorso pubblico
per l'assunzione al lavoro, dovendosi qualificare gli atti
dell'amministrazione siccome assunti con la capacità e i poteri del
privato datore di lavoro e di natura negoziale le sequenze
procedimentali.
2.4.
Dai principi enunciati dalle Sezioni unite discende l'esclusione della
presenza di procedimenti e atti amministrativi di evidenza pubblica,
diretti cioè ad individuare i motivi di pubblico interesse per i quali
si addiviene alla stipulazione di un contratto con una parte privata
individuata all'esito del procedimento, e, dunque, anche di una
fattispecie di concorso pubblico per l'assunzione al lavoro, dovendosi
qualificare gli atti dell'amministrazione siccome assunti con la
capacità e i poteri del privato datore di lavoro e di natura negoziale
le sequenze procedimentali.
2.5.
In ordine alla questione, strettamente di merito, del regime giuridico
degli atti e procedimenti di diritto privato posti in essere
dall'amministrazione ai fini della costituzione di rapporti finalizzati
al perseguimento di finalità istituzionali, va fatta applicazione alla
fattispecie del principio di diritto secondo il quale, a seguito della
cd. "privatizzazione" del lavoro pubblico, alla stregua delle norme ora
raccolte nel D. LGS. 30 marzo 2001, n. 165, attuata mediante la
contrattualizzazione della fonte dei rapporti di lavoro e l'adozione di
misure organizzative (escluse solo quelle espressamente riservate agli
atti di diritto pubblico) e gestionali con atti di diritto privato (art.
5, comma 2, del D. LGS. cit.), deve ritenersi che la conformità a legge
del comportamento dell'amministrazione - negli atti e procedimenti di
diritto privato posti in essere ai fini della costituzione, gestione e
organizzazione dei rapporti di lavoro finalizzati al perseguimento di
scopi istituzionali - deve essere valutata esclusivamente secondo gli
stessi parametri che si utilizzano per i privati datori di lavoro,
secondo una precisa scelta del legislatore (nel senso dell'adozione di
moduli privatistici dell'azione amministrativa) che la Corte
costituzionale ha ritenuto conforme al principio di buon andamento
dell'amministrazione di cui all'art. 97 Cost. (vedi Corte cost.
n. 275 del 2001, n. 11 del 2002). Ne discende che, esclusa la presenza
di procedimenti e atti amministrativi, non possono trovare applicazione i
principi e le regole proprie di questi e, in particolare, le
disposizioni dettate per i provvedimenti e gli atti amministrativi dalla
legge 7 agosto 1990, n. 241 (Cass. 6570/2004;
5565/2004;
11589/2003; 7704/2003). Questo stesso principio è stato applicato dalla
giurisprudenza della Corte anche agli atti di conferimento degli
incarichi dirigenziali - con riguardo alla disciplina contenuta
nell'art. 19 D. LGS. n. 165 del 2001, sia nel testo originario, sia in
quello modificato dall'art. 3 della legge n. 145 del 2002 - cui
si è riconosciuta natura di determinazione assunta dall'amministrazione
con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro, esulandosi
dall'ambito delle procedure concorsuali riservate al diritto pubblico
(Cass. S.U. 22990/2004; Cass. 5659/2004), con la conseguenza di
ricondurre le situazioni giuridiche dei dipendenti con qualifica
dirigenziale di fronte al potere di conferimento al novero dei cd.
interessi legittimi di diritto privato, ascrivibili pur sempre alla
categoria dei diritti di cui all'art. 2907 c.c. (cfr. Cass. S.u. 14625/2003; Cass. 9747/2003).
2.6.
Il discorso svolto, come è palese, rende manifesta l'infondatezza
giuridica di tutte le censure del ricorso incidentale che,
nell'articolazione dei diversi motivi, assumono a presupposto
l'applicabilità di regole e principi propri degli atti amministrativi e
dell'azione di diritto pubblico dell'amministrazione, sia nel denunciare
violazioni di legge e profili di eccesso di potere, sia nel prospettare
vizi di indagine, dovendo farsi applicazione della regola di giudizio
secondo cui la conformità a legge del comportamento dell'amministrazione
deve valutarsi secondo gli stessi parametri che valgono per i privati
datori di lavoro, non rilevando, ovviamente, che nella specie venga in
considerazione un rapporto di natura privata ab origine, cioè non
successivamente "privatizzato" ai sensi della richiamata normativa (e le
richiamate sentenze della Corte costituzionale escludono la fondatezza
dei dubbi di legittimità costituzionale avanzati dal ricorrente
incidentale al riguardo).
3.
In ordine di priorità logica, vanno esaminate per prime le tesi del
ricorrente incidentale, secondo le quali al rapporto di lavoro de quo
doveva riconoscersi natura di rapporto di lavoro a tempo indeterminato
fin dalla sua costituzione. Secondo queste tesi, a tanto i giudici del
merito avrebbero dovuto pervenire, in primo luogo, facendo applicazione
delle disposizioni della legge 18 aprile 1962, n. 230, in
particolare, dell'art. 2, siccome erano state disposte proroghe, sia
anteriormente al 31 dicembre 1994, sia successivamente a questa data,
dopo la scadenza del termine apposto al contratto e senza che fossero
intervenute interruzioni nelle prestazioni lavorative, dovendosi altresì
tenere conto del comportamento di mantenimento in servizio del
(omissis) fino al 14 febbraio 1997; in via gradata, la durata a tempo
indeterminato sarebbe derivata dalla disapplicazione, per contrasto con
la normativa dell'Unione europea, delle disposizioni legislative
applicabili alla fattispecie, ovvero con la mediazione del promovimento
di questione di legittimità costituzionale delle stesse disposizioni.
3.1.
Il primo ordine di censure è infondato, in applicazione del principio
di diritto assorbente di tutte le altre questioni prospettate, secondo
il quale, in tema di assunzioni temporanee alle dipendenze di pubbliche
amministrazioni con inserimento nell'organizzazione pubblicistica
dell'ente, trovano applicazione le discipline specifiche che escludono
la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato anche per i
rapporti di lavoro di diritto privato, avendo riguardo l'art. 97 Cost.
non già alla natura giuridica del rapporto ma a quella dei soggetti,
salvo che una fonte normativa non disponga diversamente per casi
particolari (Cass. 10453/2004; 5517/2004). Tale principio, del resto, è
stato ribadito in sede di disciplina generale del lavoro pubblico
dall'art. 36, comma 2, D. LGS. 30 marzo 2001, n. 165, nella parte in cui
dispone che "la violazione di disposizioni imperative riguardanti
l'assunzione o l'impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche
amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di
lavoro a tempo indeterminato ...", disposizione giudicata
costituzionalmente legittima (C. cost. n. 89 del 2003) sul rilievo che
"il principio fondamentale in materia di instaurazione del rapporto di
impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni è quello, del
tutto estraneo alla disciplina del lavoro privato, dell'accesso mediante
concorso...principio posto a presidio delle esigenze di imparzialità e
buon andamento dell'amministrazione, di cui al primo comma dello stesso art. 97 della Costituzione". La stessa sentenza aggiunge che "seppure lo stesso art. 97, terzo comma, della Costituzione,
contempla la possibilità di derogare per legge a miglior tutela
dell'interesse pubblico al principio del concorso, è tuttavia rimessa
alla discrezionalità del legislatore, nei limiti della non manifesta
irragionevolezza, l'individuazione di siffatti casi eccezionali" (in
linea con principi più volte affermati dalla stessa Corte: sentenze n.
320 del 1997, n. 205 del 1996).
3.2.
Il preteso contrasto con la normativa comunitaria delle leggi n. 49
1987 e n. 121 1994, nella parte in cui autorizzano il ricorso
dell'amministrazione degli esteri alla tipologia contrattuale del lavoro
a termine, anche reiteratamente in presenza di esigenze permanenti,
viene sostenuto con riferimento alla Direttiva 1990/70/CE del Consiglio
del 28 giugno 1999.
E'
sufficiente rilevare l'inapplicabilità ratione temporis al rapporto
dedotto in giudizio dell'indicata Direttiva, cui, peraltro, va aggiunto
il rilievo che è stato rimesso agli Stati membri a quali condizioni i
contratti a tempo determinato devono essere ritenuti a tempo
indeterminato (clausola 5, comma secondo, dell'accordo quadro
CES-UNICE-CEEP recepito dalla Direttiva).
3.3.
Il contrasto con la Costituzione delle stesse disposizioni legislative
va senz'altro escluso sulla base degli orientamenti della Corte
costituzionale richiamati al punto 3.1.. In ogni caso, il principio
secondo cui i contratti a tempo indeterminato rappresentano la forma
comune dei rapporti di lavoro, cosicchè l'apposizione di un termine deve
essere basata su ragioni oggettive, non è principio costituzionale,
atteso che non è costituzionalmente protetto neppure l'interesse del
dipendente ad una giustificazione della decisione del datore di lavoro
di porre fine al rapporto a tempo indeterminato (C. Cost. n. 2 del 1986 e
n. 225 del 1994).
4.
Nell'ambito delle stesse argomentazioni, nonchè in altri punti del
ricorso incidentale, sono prospettati ulteriori dubbi di legittimità
costituzionale manifestamente infondati: come già osservato, la scelta
del legislatore in favore di moduli di diritto privato dell'azione
amministrativa, con il conferimento all'amministrazione dei poteri
propri degli altri datori di lavoro, è stata ripetutamente ritenuta
conforme al principio di buon andamento di cui all'art. 97 Cost. (C. cost. 313/1996, 275/2001, 11/2002); le disposizioni dell'art. 4 d.l. 543/1993,
nella parte in cui hanno imposto limiti al potere dell'amministrazione
di decidere se rinnovare o no alcuni contratti a termine, hanno
aumentato, non certo diminuito, le garanzie dei soggetti interessati,
cosicchè una questione di disparità di trattamento potrebbe porsi semmai
per i lavoratori esclusi dalle garanzie del previsto procedimento di
rinnovo e alla valutazione secondo criteri aggettivi; la tipologia
contrattuale comporta necessariamente un regime giuridico diverso,
cosicchè la condizione di un lavoratore a termine non è suscettibile di
essere assimilata a quella di un lavoratore a tempo indeterminato,
ancorchè ciò si risolva indubbiamente in situazione di maggiore
debolezza nei confronti dei poteri del datore di lavoro;
non
si comprende per quali aspetti la regolamentazione della fattispecie
sarebbe contraria alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo: si fa
riferimento al diritto ad un processo equo in relazione alla situazione
di debolezza di un lavoratore a termine esposto alle decisione
arbitrarie del datore di lavoro, ma si tratta di considerazioni prive di
reale rilevanza nella controversia, mancando qualsiasi collegamento con
la denuncia di specifici vizi della sentenza.
5.
La natura di lavoro a tempo determinato del rapporto di lavoro assorte
tutte le censure relative alla mancata applicazione delle norme di
tutela contro i licenziamenti illegittimi (legge n. 604 del 1966 e art. 18 legge n. 300 del 1970),
che concernono i soli rapporti di lavoro a tempo indeterminato. In
merito, va anche detto, una volta per tutte, che il periodo di lavoro
prestato dopo la scadenza del contratto, va qualificato come lavoro di
fatto, come tale assoggettato alla sola tutela di cui all'art. 2126 c.c.,
siccome in nessuno degli atti invocati dal ricorrente incidentale
l'amministrazione ha manifestato l'intento negoziale di prorogare il
contratto e l'esecutività del provvedimento cautelare del Tar vale a
conferire ai comportamenti tenuti il significato di mera ottemperanza al
dictum del giudice.
6.
La sentenza impugnata reca, in primo luogo, la condanna
dell'amministrazione al pagamento di euro 6197,48, a fronte di
retribuzioni non percepite per un ammontare di L. 21.000.000 nel periodo
7.3.-21.7.1994, durante il quale non furono rese le prestazioni
lavorative per effetto del recesso dell'amministrazione.
Sulla
premessa che non era stato investito dall'impugnazione
dell'amministrazione l'accertamento del giudice di primo grado secondo
cui il recesso ante tempus non era sorretto da giusta causa, la sentenza
ha determinato il risarcimento tenendo conto del possibile impiego
delle energie lavorative quale professionista (ingegnere iscritto
all'albo professionale); ha escluso il diritto al versamento dei
contributi previdenziali, stante l'inapplicabilità dell'art. 18 della legge n. 300 del 1970
6.1. La statuizione è investita dal primo motivo del ricorso
principale, con il quale l'amministrazione denuncia violazione e falsa
applicazione dell'art. 12 della l. 49/1987 e dell'art. 4 l.
121/1994, anche in relazione agli art. 164 e 166 D.P.R. 11 del 1967, nonchè vizi della motivazione.
Sostiene
che non si era formato il giudicato interno sulla mancanza di una
giusta causa; che il (omissis) aveva contestato il recesso
esclusivamente sotto il profilo della violazione dell'art. 7 l.
300/1970,
inapplicabile ad un rapporto di lavoro retto da una normativa speciale;
che numerose ed articolate erano state le deduzioni del Ministero, non
esaminate dalla sentenza, circa i numerosi inadempimenti e
l'atteggiamento di non collaborazione del (omissis); che la
determinazione dell'importo attribuito a titolo risarcitorio non era
sorretta da idonea motivazione. Il tema della determinazione del quantum
del risarcimento del danno per la detta causale è investito anche dal
ricorso incidentale, che critica la sentenza impugnata per non avere
liquidato il danno con riferimento alle retribuzioni non percepite; ed
ancora per non avere affermato l'obbligo di versare i contributi
all'Inps.
6.2. Tutte le riferite censure non sono fondate.
La
sentenza impugnata ha rilevato che il recesso del 7.3.1994 era stato
accertato dalla sentenza di primo grado come privo di giusta causa,
senza che il punto fosse stato investito dall'appello del Ministero.
Il
ricorso principale afferma il contrario, ma, in violazione del
principio di autosufficienza del ricorso, non riporta il pertinente
contenuto dell'atto di appello, precludendo alla Corte la possibilità di
verificare se, ed in quali termini, la questione fosse stata riproposta
al giudice dell'impugnazione dalla parte vittoriosa in primo grado (la
sentenza di primo grado, pur dichiarando ingiustificato il recesso,
aveva poi respinto la pretesa risarcitoria per il motivo, non condiviso
dal giudice dell'appello, che era stata avanzata esclusivamente sulla
base dell'art. 18 l.
300/1970).
Pertanto, l'affermazione del giudice di appello di non essere stato
investito del compito di riesaminare la questione della giustificatezza
del recesso ante tempus non è stata validamente censurata.
6.3. Nessuna consistenza ha poi la deduzione secondo cui il (omissis) si era limitato a denunciare la violazione dell'art. 7 l. 300/1970:
il
dipendente aveva dedotto di essere stato destinatario di una
risoluzione ingiustificata del rapporto di lavoro prima della scadenza e
nessuna limitazione all'indagine del giudice poteva derivare
dall'invocazione di una norma in ipotesi non applicabile.
6.4. In ordine al danno, liquidato ai sensi dell'art. 1223 e 1226 c.c.,
non si riscontrano errori giuridici e logici nell'assumere a parametro
l'ammontare delle retribuzioni che sarebbero spettati al (omissis)
durante il periodo di rifiuto delle prestazioni da parte
dell'amministrazione, con detrazione dei risparmi di spesa e dei
guadagni che il lavoratore avrebbe potuto conseguire usando l'ordinaria
diligenza, come pure è conforme a legge l'affermazione, da sola
sufficiente a sorreggere la statuizione, circa la non configurabilità di
obbligazione contributiva verso l'ente previdenziale in relazione a
somme liquidate a titolo risarcitorio e non retributivo.
7.
Vanno poi esaminate le argomentazioni del ricorrente incidentale che
sono rivolte a sostenere la tesi che, nella fattispecie, il contratto a
termine con scadenza 31 dicembre 1994 si sarebbe automaticamente
rinnovato per ulteriori quattro anni. Si denuncia insufficiente
motivazione circa l'esclusione di una responsabilità contrattuale del
Ministero per violazione dell'obbligo di rinnovare il contratto scaduto
alla fine del 1994, obbligo nascente da questo medesimo contratto; in
alternativa, la ricorrente afferma di aver chiesto una sentenza di
accertamento dell'avvenuto rinnovo del contratto per avere accettato
"un'offerta al pubblico" rivolta dall'amministrazione a tutti gli
interessati al rinnovo mediante il bando di selezione; si denuncia
violazione dell'art. 1336 c.c. e vizio di motivazione perchè il
bando di concorso e la lettera di invito a presentare domanda di
partecipazione concretavano proposta di rinnovo del contratto; si deduce
l'omissione di pronuncia sulla richiesta di "annullare i provvedimenti
di mancato rinnovo contrattuale" e l'omesso accertamento dell'avvenuto
rinnovo del contratto mediante applicazione dell'art. 1359 c.c..
7.1. Il complesso di queste censure non ha fondamento.
Correttamente
la sentenza impugnata ha escluso che la normativa di settore potesse
interpretarsi nel senso di attribuire all'esperto assunto a termine il
diritto alla stipulazione del rinnovo del contratto scaduto o che, nella
fattispecie, tale rinnovo dovesse reputarsi intervenuto.
La possibilità di rinnovo è stata contemplata dall'art. 12, comma 4, l. 49/1987
al solo fine di consentire all'amministrazione, nella persistenza delle
esigenze istituzionali previste dalla stessa legge, di evitare la
procedura concorsuale per l'immissione degli esperti nell'Unità tecnica
centrale, costituendo un nuovo rapporto di lavoro con soggetto già
selezionato all'esito della predetta procedura, così derogando anche
alla rigidità che sarebbe derivata dall'applicazione delle disposizioni
generali in tema di lavoro temporaneo alle dipendenze di pubbliche
amministrazioni (secondo la disciplina delle assunzioni temporanee di
personale presso le amministrazioni dello Stato, dettata dal d.P.R. 31 marzo 1971, n. 276, emanato in forza dell'art. 25 della legge 28 ottobre 1970, n. 775).
7.2.
La disciplina legislativa del 1987, quindi, consentiva, almeno in linea
di principio e salva la possibilità di autolimitazione,
all'amministrazione degli esteri di decidere liberamente, sul piano del
potere di autonomia negoziale, se avvalersi di personale a termine in
numero inferiore rispetto al periodo precedente, ovvero di stipulare
alcuni contratti a termine ex novo, previo esperimento di procedura
concorsuale (nell'uno, come nell'altro caso, non procedendo al rinnovo
di alcuni contratti).
Questa
situazione di relativa libertà è in parte mutata, ma solo in forza di
una disposizione di carattere transitorio e applicabile esclusivamente
ai contratti in scadenza nel periodo 1 novembre 1993 - 31 dicembre 1994
(con le scadenze anteriori tutte prorogate a tale ultima data), ovvero
nel 1995 per effetto di atti aggiuntivi relativi a contratti già scaduti
in precedenza. Per i detti contratti, e solo per essi, si è stabilito,
dall'art. 4 d.l. 543/1993, conv. in l.
121/1994,
sempre nel presupposto che l'amministrazione decidesse di procedere al
rinnovo, che ciò potesse fare solo all'esito di "valutazione delle
qualifiche ed esperienze acquisite", sentita una commissione nominata
dal Ministero degli affari esteri. Resta, quindi, escluso, anche nel
nuovo quadro normativo, un diritto alla stipulazione del nuovo
contratto, ma l'amministrazione, nei confronti dei dipendenti ammessi
alla procedura di rinnovo, è stata obbligata dalla legge all'emanazione
di un giudizio, il cui esito può essere controllato, non certo
sostituito, dal giudice, sia sotto il profilo del rispetto delle regole
procedimentali che il datore di lavoro è obbligato a osservare, sia
sotto quello della conformità ai criteri di legge ed ai precetti di
buona fede e correttezza.
7.3.
La ricostruzione del dato normativo esclude la fondatezza della pretesa
del ricorrente di considerare avvenuto il rinnovo per aver accettato
l'interessato una proposta, nella sussistenza delle condizioni di legge.
Secondo la corretta ricostruzione del giudice di merito, la
formulazione del giudizio circa l'idoneità professionale del dipendente,
costituiva atto preparatorio della decisione di rinnovargli il
contratto e, dunque, il contratto sarebbe stato perfezionato solo con
l'esercizio del potere di autonomia negoziale, conformemente alla
lettera delle norme, che non recano espressioni quali "i contratti si
intendono rinnovati" o equivalenti, ma con l'uso del termine "possono"
palesano che l'intento era stato esclusivamente quello di porre vincoli
interni al potere in questione.
7.4.
La ricostruzione della fattispecie astratta, sopra operata, è
sufficiente per verificare la non conformità al diritto delle tesi del
ricorrente incidentale.
Va
comunque escluso che potesse configurarsi una procedura concorsuale. Il
concetto evoca una procedura caratterizzata dalla valutazione
comparativa dei candidati e dalla compilazione finale di una graduatoria
(cfr., da ultimo, Cass. S.U. 11404/2003). Nella specie, invece, si
trattava soltanto di acquisire gli elementi necessari per la
formulazione di un giudizio di idoneità ai fini della decisione di
rinnovo del contratto e il cd. "bando" si limitava a rendere noto, su di
un piano strettamente individuale, che ciascun aspirante al rinnovo
aveva l'onere di sottoporsi a determinate procedure preordinate a
consentire la valutatone, esclusa ogni comparazione di tipo
intersoggettivo.
Ne
discende la non riconducibilità della fattispecie allo schema bando di
concorso-promessa al pubblico di stipulazione del contratto con i
soggetti utilmente collocati in graduatoria (cfr. Cass. 13138/1999).
Va
aggiunto che le limitazioni dell'autonomia contrattuale che si
traducono nell'obbligo di procedere a valutazioni tecnico- discrezionali
secondo determinati procedimenti e nell'osservanza della buona fede e
correttezza, come meglio si dirà più avanti, conferiscono
all'interessato il diritto al risarcimento del danno per inadempimento
ovvero il diritto a pretendere che le operazioni siano ripetute
correttamente (che non risulta dalla sentenza impugnata che sia stato
fatto valere nella controversia), non certamente quello a una
valutazione favorevole, estraneo ai contenuti delle obbligazioni assunte
dal titolare del potere.
7.5.
Nè miglior successo può riconoscersi alla tesi secondo la quale
l'amministrazione avrebbe formulato una proposta di rinnovo
condizionata, accettata dal (omissis), e la condizione si sarebbe dovuta
ritenere avverata ai sensi dell'art. 1359 c.c..
La condizione, secondo la definizione contenuta nell'art. 1353 c.c., è l'avvenimento futuro e incerto, a cui è subordinata l'attuazione o la cessazione di efficacia di un contratto.
Quando
è stipulato un negozio sottoposto a condizione sospensiva, la
costituzione o il trasferimento del diritto avviene nel momento del
perfezionamento dell'atto, mentre il suo esercizio è sospeso fino
all'avveramento della condizione medesima.
E
quando tale avveramento si verifica, il diritto si considera costituito
o acquisito fin dal momento della stipulazione del contratto ( art. 1360 c.c.).
Ora, nel caso di specie è assolutamente improprio parlare, come fa il
ricorrente, di un contratto subordinato a eventi futuri e incerti,
perchè, se così fosse, avveratasi la condizione, il contratto dovrebbe
ritenersi stipulato fin dal momento dell'accettazione della proposta, il
che sarebbe palesemente in contrasto con i dati normativi, che
impongono all'amministrazione la valutazione di idoneità proprio ai fini
della decisione di stipulare il contratto.
Ne consegue che del tutto fuori luogo è il richiamo fatto dal ricorrente all'art. 1359 c.c., che regola il caso del mancato avveramento della condizione.
7.6.
Il complesso delle considerazioni svolte rende palesemente priva di
fondamento la doglianza relativa all'omissione di annullamento dei
provvedimenti di rifiuto del rinnovo: nel procedimento di diritto
privato che si è svolto, gli atti in questione si limitavano a
comunicare la valutazione negativa e quindi che il contratto non sarebbe
stato rinnovato; non si trattava, quindi di atti amministrativi o
negoziali, destinati a produrre autonomi effetti che sarebbe stato
necessario rimuovere mediante annullamento.
8.
Il ricorso incidentale critica la decisione di merito anche per aver
escluso che nella fattispecie ricorresse un'ipotesi di responsabilità
contrattuale, addebitandole di non aver argomentato in ordine alla
conformità ai precetti di correttezza e buona fede del rifiuto di
concludere il nuovo contratto; si denuncia vizio di motivazione e
violazione degli art. 113, 115, 132 c.p.c. e 118 disp. att.
c.p.c., asserendosi l'impossibilità di individuare il criterio
logico-giuridico in base al quale la sentenza impugnata aveva ravvisato
una responsabilità precontrattuale del Ministero invece che una
responsabilità contrattuale, nonchè l'errore di diritto consistito nella
riconduzione della fattispecie all'art. 1337 c.c..
8.1. Sulla questione sussiste indubbiamente il denunciato errore di qualificazione giuridica.
Secondo
l'avviso della prevalente giurisprudenza della Corte, la responsabilità
precontrattuale, configurabile per violazione del precetto posto dall'art. 1337 c.c.
- a norma del quale le parti, nello svolgimento delle trattative
contrattuali, debbono comportarsi secondo buona fede - costituisce una
forma di responsabilità extracontrattuale, che si collega alla
violazione della regola di condotta stabilita a tutela del corretto
svolgimento dell'iter di formazione del contratto, quale specificazione
del generico dovere del neminem laedere, sicchè la sua sussistenza, la
risarcibilità del danno e la valutazione di quest'ultimo debbono essere
vagliati alla stregua degli art. 2043 e 2056 c.c., tenendo
peraltro conto delle caratteristiche tipiche dell'illecito in questione
(cfr. Cass. s.u. 9645/2001). Ma, invece, allorchè nella fase di
formazione del contratto non operi il generico precetto della buona
fede, ma sia imposto ad una parte l'obbligo di rispettare regole
procedimentali e sostanziali per assumere la decisione di addivenire al
contratto, obbligo assunto negozialmente, oppure, come nella specie, di
fonte legale, si configura inadempimento in senso tecnico e la
responsabilità è di tipo contrattuale ai sensi dell'art. 1218 c.c. (cfr. Cass. 13922/2001; 13942/2002; 12069/2003).
La
fattispecie concreta doveva essere inquadrata in questi termini, atteso
che, esclusa la presenza di procedimenti e atti amministrativi
(rispetto ai quali, almeno secondo l'opinione largamente prevalente,
runica responsabilità configurabile è di tipo extracontrattuale), i
vincoli al potere contemplati dalla legge tutelavano direttamente gli
interessati, cui conferivano il diritto al puntuale rispetto di
obbligazioni strumentali rispetto all'utilità sperata (cd. interessi
legittimi di diritto privato, pur sempre riconducibili alla categoria
dei diritti di cui all'art. 2907 c.c.).
8.2.
Nondimeno, l'errore giuridico della Corte di appello è rimasto privo di
effettiva incidenza sulla decisione, che, sotto il profilo considerato,
è ugualmente conforme al diritto, dovendosi limitare la Corte a
correggere la motivazione ( art. 384, comma secondo, c.p.c.).
Infatti,
malgrado la qualificazione operata, il danno non è stato valutato con
riferimento al cd. interesse negativo (che non consente di tener conto
dei vantaggi che sarebbero derivati dalla conclusione del contratto:
Cass. 1399/1992; 1897/1994), ma secondo le regole proprie della
responsabilità contrattuale, collegando appunto all'inadempimento la
perdita della possibilità di concludere il contratto (chance).
9.
La statuizione di condanna del Ministero al risarcimento del danno per
perdita di chance è investita dal secondo, terzo e quarto motivo del
ricorso principale, che vanno perciò unitariamente esaminati.
Anche
il ricorrente incidentale domanda la cassazione della statuizione sotto
il profilo dell'asserita inadeguatezza della liquidazione del danno.
9.1.
La ricorrente principale, denunciando nei tre anzidetti motivi
violazione di norme di diritto e vizi della motivazione, afferma che il
giudice di primo grado aveva ritenuto che la perdita di chance derivasse
dai carichi di lavoro notevolmente inferiori rispetto a quelli
assegnati ad altri esperti, ma la questione era stata totalmente
ignorata dalla Corte di appello, che aveva altresì trascurato di
considerare che l'amministrazione aveva dedotto nell'impugnazione che
l'assegnazione del minor carico di lavoro era da addebitare ai ripetuti
rifiuti di assumerli da parte del (omissis), restando certamente escluso
che questi avesse un diritto soggettivo all'assunzione di determinati
incarichi e che, comunque, tale circostanza avesse rivestito un ruolo
causale in ordine al diniego di rinnovo del contratto (secondo motivo);
che il potere discrezionale di valutazione negativa ai fini del rinnovo
del contratto a termine non poteva esser oggetto di sindacato se non
sotto il profilo del rispetto dei parametri normativi, dai quali non si
era discostato il comportamento dell'amministrazione (il cd. gruppo
informale di valutazione era stato costituito per una migliore
valutatone) e non presentava aspetti contrastanti con il precetto di
buona fede e correttezza, mentre la pretesa illegittimità del criterio
relativo alla capacità di espressione, concentrazione e reazione
implicava un inammissibile sindacato di merito (terzo e quarto motivo);
in subordine si deduce che chance del 30% non poteva rappresentare il
risarcimento di un interesse soltanto negativo, nè trovava
giustificazione nelle risultanze processuali e in adeguata motivazione.
9.2. I suesposti motivi del ricorso principale non sono fondati.
Nel
ricorso introduttivo del giudizio erano stati contestati ampiamente sia
l'inserimento nel procedimento di valutazione del gruppo informale di
lavoro, sia i metodi seguiti; queste censure erano state riprese
nell'appello incidentale del (omissis), cosicchè non può dirsi che il
giudice non fosse stato investito del controllo del rispetto degli
obblighi di legge nella valutazione di idoneità al rinnovo del contratto
sotto tutti gli aspetti.
Il
giudice del merito ha, quindi, ritenuto la sussistenza di una
responsabilità dell'amministrazione, perchè, mentre la legge richiedeva,
per l'esercizio del potere di rinnovo, un imparziale giudizio positivo
sull'opera già prestata dall'esperto, ossia una verifica delle
qualifiche e delle esperienze acquisite ad opera di apposita
commissione, il Ministero aveva introdotto criteri di valutazione
incerti nella definizione e non verificabili, quale la "capacità di
esposizione, concentrazione e reazione, nonchè atteggiamento generale
del candidato nel corso del colloquio"; non aveva attribuito un
punteggio separato per ciascun criterio, in modo da agevolare il
controllo; aveva affidato in parte il giudizio ad un gruppo informale
che aveva, sostituendo la commissione, operato senza verbalizzazione, e
aveva concluso il lavoro in pochissimi giorni, malgrado il numero dei
candidati, anche sulla base della loro conoscenza personale; aveva
permesso al direttore generale di fissare una soglia minima di punteggio
solo dopo la conoscenza dei risultati delle prove. A giudizio della
Corte di appello, questo modo di procedere, contrario alla buona fede
oggettiva, aveva arrecato al (omissis) un danno risarcibile ai sensi dell'art. 1337 c.c.
e liquidabile equitativamente sulla base del trenta per cento delle
probabilità di superamento della valutazione e della durata quadriennale
(non superiore nè inferiore) del nuovo contratto, non stipulato. La
verifica della divergenza del procedimento di valutazione sia dalle
indicazioni della legge, sia dai canoni di buona fede e correttezza,
costituisce un accertamento di fatto censurabile in sede di legittimità
solo per vizi di motivazione:
vizi specifici non sono denunciati e comunque non si riscontrano nel ragionamento del giudice di merito.
Si
deve aggiungere che la qualificazione in termini di responsabilità
contrattuale (n. 8) comporta che il debitore della prestazione
(procedimentale) debba fornire la prova dell'esatto adempimento, a norma
dell'art. 1218 c.c..
9.3.
In ordine al quantum debeatur, infine, anche in questo caso si contesta
inammissibilmente un accertamento di fatto, accertamento che risulta
plausibilmente giustificato, tenuto conto della natura equitativa della
liquidazione del danno, con il richiamo del punteggio conseguito dal
(omissis) nel concorso per l'assunzione e di quello finale attribuito
dalla commissione ai fini del rinnovo del contratto, anche considerando
la situazione dei carichi di lavoro inferiori.
9.4.
Le stesse ragioni giustificano anche il rigetto del ricorso incidentale
nella parte in cui denuncia vizio di motivazione sul quantum da perdita
di chance, richiamando una serie di elementi di fatto, tra cui la
posizione di altri lavoratori, per affermare che la valutazione
equitativa avrebbe dovuto essere diversa e più favorevole. Il complesso
di questa deduzioni, infatti, non vale a dimostrare la non plausibilità
del ragionamento del giudice del merito, che rappresenta il limite del
sindacato di legittimità.
Manifestamente
infondata, poi, è l'ulteriore deduzione del ricorrente incidentale,
secondo cui si sarebbe dovuto considerare anche il danno derivante dalla
perdita della possibilità di rinnovo anche per ulteriori quattro anni,
successi al 1999. E' assorbente la considerazione che a questo ulteriore
rinnovo non sarebbero stati applicabili i criteri della legge del 1994 e
la possibilità di continuare a lavorare dopo il 1999 assumeva rilievo
di mero fatto, non costituendo l'evento una conseguenza immediata e
diretta dell'inadempimento ( art. 1223 c.c.) e comunque prevedibile al tempo della procedura di selezione ( art. 1225 c.c.).
Ugualmente destituita di fondamento, per le medesime ragioni, la
censura relativa all'omesso accoglimento della richiesta dei danni
successivi alla sentenza.
10.
La statuizione di parziale accoglimento della domanda di risarcimento
del danno da dequalificazione professionale (equitativamente determinato
in lire 36.933.900, pari al trenta per cento delle retribuzioni
relative al periodo 18.9.1991 - 31.12.1994) è impugnata con il quinto
motivo del ricorso principale e con molteplici argomentazioni del
ricorso incidentale.
L'amministrazione
denuncia violazione di norme di diritto e vizio della motivazione
perchè non vi era prova della colpa, anche considerando che un
professionista iscritto all'albo aveva l'onere di provvedere
autonomamente all'aggiornamento e alla conservazione dei livelli di
professionalità; ed ancora perchè non vi era prova del danno e del suo
ammontare. In relazione alla medesima statuizione, la parte privata si
duole che il risarcimento sia stato limitato al periodo indicato; che il
danno sia stato incongruamente liquidato in misura inferiore alle
retribuzioni.
10.1. Tutte le indicate censure sono infondate.
Il
ricorso principale trascura di considerare, sul piano delle regole
giuridiche, che l'obbligo di rispettare la professionalità del
lavoratore, sancito dall'art. 2103 c.c., è di natura
contrattuale e che, pertanto, è addossato al datore di lavoro l'onere di
provare che l'inadempimento è dipeso da causa a lui non imputabile
(art. 2118 c.c.); sostiene inoltre tesi non condivisibili, come quella
che vorrebbe far derivare dalla qualifica professionale elevata del
dipendente l'impossibilità di lesione del patrimonio professionale, o,
peggio, l'esclusione di una responsabilità del datore di lavoro, ovvero
desumere l'inesistenza del danno (per sua natura non direttamente
patrimoniale) dalla non variabilità dei compensi in funzione degli
incarichi affidati.
Correttamente,
perciò, la Corte di Roma ha affermato che, mentre era incontroverso il
ridotto numero degli incarichi affidati al (omissis), che ciò fosse
dipeso dai suoi atteggiamenti non collaborativi o da insufficienze
professionali sarebbe stato onere dell'amministrazione dimostrarlo, ma
non era stata neppure impugnata la statuizione di primo grado nella
parte in cui aveva escluso che il recesso del 7.3.1998 fosse sorretta da
giusta causa (secondo quanto già riferito al n. 6).
Del
pari non è censurabile la valutatone equitativa del danno da
inadempimento, in considerazione di tutte le peculiarità della vicenda,
nella misura del 30 per cento delle retribuzioni del periodo preso in
considerazione.
10.2.
Al pari del ricorso principale, non riesce al ricorso incidentale di
fornire precisi elementi che valgano a porre in discussione la
ragionevolezza della liquidazione equitativa, atteso la correlazione che
il giudice del merito ha ravvisato tra danno alla professionalità e
riduzione dei carichi di lavoro, la rilevata mancata allegazione (nel
ricorso introduttivo del giudizio) di ulteriori pregiudizi specifici.
Quanto
alla limitazione del danno al periodo di lavoro prestato fino al 31
dicembre 1994, il giudice di primo grado aveva giustificato tale
decisione sul rilievo che dopo la predetta data le prestazioni
lavorative era state rese solo di fatto. Il giudice dell'appello ha
rilevato la mancanza di specificità dell'appello sul punto, mancando una
censura di questa ratio decidendi. In realtà, il (omissis) aveva
insistito sulla tesi che il rapporto di lavoro doveva ritenersi a tempo
indeterminato o, comunque il contratto a termine rinnovato alla predetta
data, e dunque corretta deve ritenersi la decisione del giudice
dell'impugnazione.
11.
In relazione al demansionamento, ma anche, più in generale, con
riferimento all'intera vicenda lavorativa, il (omissis) aveva domandato
il risarcimento del danno alla personalità morale, alla vita di
relazione, alla generica capacità lavorativa, al danno biologico, con
riguardo anche a comportamenti di "mobbing".
Alcune di queste voci di danno sono certamente comprese nel danno da dequalificazione.
Per
il resto la domanda è stata rigettata in primo grado e la statuizione è
stata confermata dalla Corte di appello per mancanza di prova dei danni
lamentati.
Nel
giudizio di primo grado era stata disposta ed espletata consulenza
tecnica di ufficio, che aveva escluso qualsiasi nesso causale tra il
disturbo idiopatico della personalità del (omissis) e le vicende
lavorative. La sentenza di appello prende diffusamente in esame
l'elaborato peritale, la numerosa documentazione prodotta e i molteplici
rilievi critici dell'appellante incidentale e conclude nel senso che
l'infermità aveva origini remote e indipendenti dalle vicende
lavorative. Si tratta di un accertamento di fatto, sufficientemente e
logicamente motivato, contro il quale tutte le censure del ricorso
incidentale, sebbene numerosissime e illustrate con dovizia di
argomentazioni, sono rivolte a criticare direttamente il giudizio,
domandando in definitiva che la Corte lo sostituisca, il che non è
possibile in sede di legittimità, senza individuare fatti decisivi non
considerati, o non adeguatamente considerati, ovvero contraddizioni nel
ragionamento.
Pertanto, il ricorso incidentale va rigettato in relazione a tutte le censure mosse all'indicata statuizione.
12.
Il ricorso incidentale censura il rigetto della pretesa rivolta
all'accertamento che, a decorrere dal 5 maggio 1991, il (omissis) aveva
svolto funzioni proprie del 1^ livello e alla condanna
dell'amministrazione al pagamento delle conseguenti differenze
retributive.
La
sentenza impugnata ha ritenuto che non fosse comprovato lo svolgimento
di mansioni superiori, non potendo il (omissis) vantare un particolare
grado di esperienza all'atto di stipulazione del contratto individuale,
nè aveva espletato mansioni di coordinamento di altri esperti.
Secondo
il ricorrente incidentale, le argomentazioni della Corte di Roma non
giustificavano il rigetto della domanda, fondata su fatti acquisiti al
processo e non contestati: in particolare, l'amministrazione non aveva
mai specificato il contenuto delle mansioni dei diversi livelli e le
aveva assegnate in concreto in modo promiscuo e indipendentemente dagli
inquadramenti dei singoli esperti, nè assumeva rilievo il fatto che non
fossero stati attribuiti al ricorrente compiti di coordinamento, poichè
la stessa situazione si riscontrava per la maggioranza degli esperti di
primo livello.
12.1. Le censure non possono trovare accoglimento.
Ha
carattere assorbente il rilievo che, come riferisce lo stesso ricorso,
il decreto interministeriale 27 luglio 1988, emanato secondo le
previsioni del comma 4 dell'art. 12 l. 49/1987, si era limitato
a stabilire che, sulla base degli anni di esperienza professionale, gli
esperti erano inquadrati nel primo livello di funzioni (professionalità
particolarmente elevata), nel secondo (professionalità elevata) e nel
terzo (professionalità normale);
nè
erano state in altro modo specificate le mansioni proprie di ciascun
livello e, di fatto, i lavoratori erano stati utilizzati senza realmente
tenere conto del livello di inquadramento. Orbene, la decisione di
rigetto risulta, in primo luogo, conforme al principio secondo cui, ove
sia contemplata una medesima attività di base in tre distinte
qualifiche, in scala crescente, a seconda che tale attività sia svolta
in maniera più o meno complessa, il fatto costitutivo della pretesa del
lavoratore che richieda la qualifica superiore, il cui onere di
allegazione e di prova incombe sullo stesso lavoratore, non è solo lo
svolgimento della suddetta attività di base, ma anche l'espletamento
delle più complesse modalità di prestazione, alle quali la declaratoria
contrattuale collega il superiore inquadramento (Cass. 11925/2003). Ma,
più propriamente, deve riconoscersi che la disciplina normativa del
settore specifico (non del datore di lavoro, come sembra opinare
erroneamente il ricorrente) prevedeva, nell'ambito della categoria degli
esperti l'inquadramento nei diversi livelli in funzione della
professionalità posseduta in precedenza, e dunque un'equivalenza o
fungibilità di mansioni (cosiddetta mobilità verticale della categoria);
in detta ipotesi, il lavoratore appartenente a tale categoria non ha
diritto, a norma dell'art. 2103 c.c., al conferimento di un
grado superiore per il fatto di essere stato assegnato a mansioni
normalmente affidate a personale investito di tale grado, perchè, se al
grado non sono collegate specifiche mansioni, non è possibile da queste
risalire a quello, restando esclusa la possibilità di presupporre che il
contemplare diversi livelli comporti necessariamente il collegamento di
specifiche mansioni a ciascuno di essi (vedi Cass. 570/1989).
12.2.
Nelle argomentazioni svolte a sostegno dei motivi di ricorso sulla
questione, si contesta la conformità a legge di un simile assetto dei
rapporti di lavori, ma senza fondamento. L'art. 2103 c.c., ai
fini della cd. promozione automatica" presuppone che possano
configurarsi, sulla base delle regole del rapporto, normative o
contrattuali, mansioni superiori rispetto a quelle per le quali il
lavoratore è stato assunto, il che, come si è osservato sopra, deve
escludersi nel caso di specie. Sotto altro profilo, una regolamentazione
che contempli una retribuzione differenziata per mansioni uguali, in
funzione dell'attribuzione di diversi livelli di inquadramento ai soli
fini retributivi, non si pone in contrasto con disposizioni inderogabili
dell'ordinamento e principi costituzionali.
Nel
rapporto di lavoro subordinato di diritto privato, infatti, non opera
il principio della parità di trattamento, nè è possibile alcun controllo
di ragionevolezza da parte del giudice sugli atti, di autonomia
collettiva e individuale, o, come nella specie, normativa, allorchè la
diversità di trattamento non ricada in alcuna delle ipotesi legali (e
tipizzate) di discriminazione vietate (Cass., s.u., 4570/1996). Nè il
principio è derogato nel rapporto di lavoro pubblico, atteso che
l'obbligo di parità di trattamento a carico dell'amministrazione è posto
in relazione all'applicazione, dei trattamenti previsti dalla
contrattazione collettiva, cui non si può derogare con trattamenti
individuali di maggior favore. Più in particolare, nè l'art. 36 Cost., che si limita a porre il principio della retribuzione sufficiente e proporzionata all'attività svolta, nè l'art. 41 Cost.,
che afferma la libertà dell'iniziativa economica privata nei limiti
posti dalla legge a tutela della sicurezza, della libertà e della
dignità umana, nè l'art. 3 Cost., pongono un principio di
comparazione intersoggettiva, in base al quale ai lavoratori dipendenti
svolgenti identiche mansioni debba attribuirsi la stessa retribuzione o
il medesimo inquadramento (Cass. s.u. 6030/1993).
13.
Il ricorrente incidentale chiede la cassazione della decisione di
rigetto della domanda di pagamento delle differenze retributive
derivanti dall'allineamento del compenso iniziale e dei successivi
adeguamenti a quella dei funzionali Cee addetti al fondo europeo dello
sviluppo, come stabilito dalla legge n. 49 del 1987.
In
sostanza, si afferma che la legge avrebbe inteso equiparare il
trattamento retributivo degli esperti a quello dei funzionali Cee e che
non sarebbe conforme a tale regola il decreto interministeriale 27
luglio 1987 e gli atti recanti i successivi adeguamenti; che la sentenza
non avrebbe tenuto conto che i compensi netti, determinati dalla
normativa fiscale e previdenziale italiana, comportavano uno scostamento
notevolissimo dalle retribuzioni del funzionario europeo;
che
erroneamente aveva ritenuto non inerente al tema controverso il secondo
adeguamento retributivo, praticato con effetti dal 27 luglio 1995.
13.1. Anche questo motivo va rigettato.
La
fonte legislativa si è chiaramente espressa nel senso che la
determinazione del trattamento economico era rimessa alla successiva
sede regolamentare (decreto del Ministro degli affari esteri, di
concerto con il Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione
economica e con il Ministro della funzione pubblica, previo parere del
Comitato direzionale di cui all'articolo 9).
La
legge si è, quindi, limitata a fissare i principi e criteri direttivi
per l'esercizio del potere regolamentare (di tipo attuativo), stabilendo
che si sarebbe dovuto tenere conto dei criteri e dei parametri
osservati al riguardo dal Fondo europeo dello sviluppo della Comunità
economica europea, nonchè dell'esperienza professionale di cui il
personale interessato sarà in possesso al momento della stipula del
contratto. La pretesa di ricevere lo stesso trattamento economico dei
funzionari comunitari non ha, quindi, alcun fondamento giuridico.
13.2.
L'asserita non conformità a legge dell'art. 7 del regolamento
interministeriale 27 luglio 1987, nonchè dell'atto di adeguamento del
1991, a cagione della divaricazione da quello dei funzionari comunitari,
è priva di rilevanza (con assorbimento della denuncia di omesso esame
di altre questioni), siccome non potrebbe giovare al ricorrente la
constatazione dell'illegittimità degli atti amministrativi che hanno
determinato la retribuzione.
Si
è già detto che la legge ha rimesso alla sede regolamentare,
limitandosi a dettare criteri di massima per l'attuazione delle sue
disposizioni, la disciplina concreta dei rapporti di lavoro, compreso il
trattamento economico. Il regolamento, a sua volta, ha previsto un
adeguamento quadriennale mediante atti amministrativi.
Non
si tratta, quindi, di un potere spettante all'amministrazione come
datrice di lavoro, e dunque di un potere privato, ma di poteri pubblici
(normativi e amministrativi) diretti a conformare il rapporto di lavoro
di diritto privato. Orbene, nel nostro sistema di tutela
giurisdizionale, solo l'impugnazione dinanzi al giudice amministrativo, a
tutela di interesse legittimo, potrebbe comportare, mediante
l'annullamento dell'atto e il conseguente obbligo di conformarsi al
giudicato, il risultato di un nuovo esercizio del potere in senso
favorevole agli interessi sostanziale della parte privata. Ma il giudice
ordinario, a tutela del diritto soggettivo nascente dal contratto, ha
solo il potere di disapplicare l'atto con regime di diritto
amministrativo che il contratto stesso conforma, considerandolo tamquam
non esset ai soli fini della decisione controversia (ovvero, secondo una
diversa opinione, di individuare nella legge e non nel regolamento che
se ne discosti, la regola di giudizio applicabile).
Ne
discende che, ove si ritenesse non conforme a legge la determinazione
della retribuzione fatta in via amministrativa, dovendosi escludere la
fondatezza della tesi della ricorrente secondo cui la stessa legge l. 49/1987
conterebbe la determinazione del quantum debeatur, non resterebbe per
il giudice altra via che stabilire la retribuzione adeguata alla
quantità e qualità di lavoro ai sensi dell'art. 36 Cost..
Nessun
elemento introdotto nella causa induce però a ritenere che la
retribuzione di fatto attribuita sia ritenuta in contrasto con il
precetto costituzionale, senza contare che il parametro utilizzabile
(nell'impossibilità di riferirsi a una legge inapplicabile senza il
regolamento di attuazione) sarebbe costituito proprio dal trattamento
retribuivo dei dipendenti statali, parametro che la ricorrente contesta
possa in qualche modo concorrere a dare attuazione alla previsione
dell'art. 12, comma 4, l. 49/1987. 14. Il ricorso incidentale
chiede la cassazione della statuizione di rigetto della domanda diretta
all'attribuzione della retribuzione prevista per 1^ livello, perchè in
possesso di esperienza professionale sufficiente per tale inquadramento,
ovvero di una retribuzione superiore a quella prevista per il 2^
livello, in proporzione della maggiore esperienza posseduta rispetto a
quella minima richiesta per l'inquadramento in detto 2^ livello.
Si
sostiene la non conformità alla legge e l'irragionevolezza delle
disposizioni del decreto interministeriale emanato ai sensi dell'art.
12, comma 4, l. 49/1987, nella parte in cui aveva indicato le
esperienze professionali valutabili, il numero minimo di anni di
esperienza necessario per i diversi inquadramenti nei livelli, omesso di
riconoscere rilevanza ai tini del trattamento economico all'effettiva
esperienza posseduta al tempo di stipulazione del contratto (come
prescritto dalla norma).
14.1. Anche queste censure sono prive di fondamento.
Si
rinvia, da una parte, alle considerazioni già svolte e, in particolare,
al fatto che il giudice non può trovare le regole del rapporto di
lavoro in una legge che ne rinvia l'emanazione a un regolamento di
attuazione (la nozione di "esperienza professionale" è tutta da
precisare nei contenuti concreti); dall'altra, che dall'eventuale
illegittimità del regolamento, deriverebbe l'impossibilità di ritenere
operative le regole dettate dall'atto normativo, ma non certo il potere
del giudice di sostituirle con le diverse regole favorevoli alla
ricorrente.
15.
Il ricorso incidentale domanda la cassazione delle statuizioni di
rigetto di svariate pretese di ordine patrimoniale, ma le censure
risultano tutte prive di fondamento, o perchè contestano,
inammissibilmente, accertamenti di fatto o perchè sostengono tesi
destituite di fondamento giuridico:
a)
è stato accertato nel giudizio di merito che non era stato pattuito in
orario di lavoro per gli esperti di 2^ livello, equiparati a personale
direttivo o dirigenziale, nè vi erano elementi per ritenere che
l'impegno lavorativo avesse oltrepassato i limiti della ragionevolezza,
cosicchè non può dubitarsi della correttezza della decisione di rigetto
della pretesa a compensi a titolo di lavoro straordinario;
b)
sulla pretesa concernente il mancato guadagno che sarebbe derivato
dalla partecipazione alle missioni in Eritrea o in Etiopia, il giudice
del merito ha escluso che operassero vincoli al potere discrezionale di
scelta dell'amministrazione, nè risultavano violati i criteri di
correttezza e buona fede nella procedura di acquisizione degli elementi
utili di valutazione, essendo rimasta senza riscontri oggettivi
l'affermazione del (omissis), secondo cui le vere ragioni di esclusione
sarebbero state diverse da quelle formalmente espresse;
c)
il rigetto della pretesa al risarcimento per mancate missioni- progetto
e straordinarie brevi è fondata sull'assorbente considerazione della
mancanza di prova del nesso causale tra riduzione dei carichi di lavoro e
mancata attribuzione di un certo numero di missioni;
d)
il rigetto della domanda di rimborso delle quote annue di iscrizione
all'albo professionale degli ingegneri risulta correttamente motivato
con l'assenza di uno specifico titolo, legale o negoziale, in assenza
del quale opera l'estraneità dell'amministrazione al rapporto
contributivo iscritto-ordine, restando irrilevante che l'iscrizione
fosse necessaria per l'espletamento dell'attività lavorativa:
e)
il rigetto delle pretese relative a interessi legali e rivalutazione
monetaria trova fondamento nel rilievo che non erano state impugnate le
statuizioni del primo giudice circa le conseguenze dell'adempimento
tardivo di alcuni crediti retributivi, nè, come pretende il ricorrente, i
criteri di determinazione degli accessori assunti dal primo giudice ai
fini della liquidazione di alcuni crediti erano vincolanti per crediti
diversi, non estendendosi certamente a questi ultimi il vincolo del
giudicato interno relativo ai primi; quanto alla pretesa violazione dell'art. 1283 c.c.,
per aver omesso la sentenza di condannare l'amministrazione al
pagamento degli interessi sugli interessi dalla data della domanda
giudiziale, va rilevato che nel caso di specie sono state liquidate
esclusivamente obbligazioni di valore e non di valuta (crediti
risarcitori), con la conseguente inapplicabilità sia delle regole
dettate per i crediti retributivi dei dipendenti delle pubbliche
amministrazioni (art. 22, comma 36, l. n. 724 del 1994), sia di quelle dettate per le obbligazioni pecuniarie, tra le quali resta compreso l'art. 1283 cod. civ..
16.
La sentenza impugnata, infine, ha preso in esame una serie di
argomentazioni e domande formulate dal (omissis) in ordine alle quali ha
rilevato o l'assorbimento derivante da altre statuizioni, o la
genericità, tale da non consentire neppure l'individuazione
dell'interesse. Le censure mosse al riguardo dal ricorrente incidentale
sono tutte destituite di fondamento:
a)
non si precisa all'accoglimento di quali pretese sarebbe funzionale
l'accertamento che le modifiche contrattuali introdotte dalla delibera
22.4.1992 dovevano ritenersi operative limitatamente alle parti
migliorative della precedente regolamentazione;
b)
imprecisato anche l'interesse alla declaratoria della correlazione tra
compiti lavorativi e iscrizione all'albo professionale, stante comunque
l'accoglimento della domanda relativa al demansionamento;
c)
altre pretese presuppongono raccoglimento della domanda della
persistenza del rapporto del lavoro, che invece è stata respinta:
accertamento
di quali incarichi siano confacenti alla professionalità del (omissis);
versamenti contributivi, mentre nessuna somma è stata riconosciuta
spettare al ricorrente a titolo di retribuzione;
d)
altre questioni sono assorbite in altre statuizioni; natura
disciplinare di alcune contestazioni dell'amministrazione; omessa
considerazione di danni futuri; riserva di agire in futuri giudizi e
precisazioni sulle somme richieste; richiesta di condanna generica in
relazione a ulteriori pretese patrimoniali. e) vi sono poi censure
inammissibili in quanto lamentano errori del procedimento e, in
particolare, il non accoglimento di istanze istruttorie, senza che ne
risulti la correlazione con statuizioni determinate.
17. Conclusivamente, vanno rigettati sia il ricorso principale, sia il ricorso incidentale.
In
ordine alla regolazione delle spese del giudizio di Cassazione, la
Corte ritiene la sussistenza di giusti motivi, in considerazione
dell'esito della lite, per compensarle interamente.
P.Q.M.
La
Corte, pronunciando sui ricorsi riuniti, rigetta il ricorso principale e
il ricorso incidentale; compensa interamente le spese del giudizio di
Cassazione.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Lavoro, il 6 aprile 2005.
Depositato in Cancelleria il 24 maggio 2005
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