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martedì 2 aprile 2013

Cassazione - danno biologico, con riguardo anche a comportamenti di "mobbing".




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IMPIEGO PUBBLICO   -   LAVORO (RAPPORTO)
Cass. civ. Sez. lavoro, 24-05-2005, n. 10905
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MATTONE Sergio - Presidente
Dott. CUOCO Pietro - Consigliere
Dott. FOGLIA Raffaele - Consigliere
Dott. PICONE Pasquale - rel. Consigliere
Dott. DE MATTEIS Aldo - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso principale proposto da:
MINISTERO DEGLI AFFARI ESTERI, in persona del Ministro in carica, legalmente domiciliato in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, presso l'Avvocatura generale dello Stato che lo difende;
- ricorrente -
contro
-
- resistente -
e sul ricorso incidentale proposto da:(omissis) (omissis), come sopra rappresentato, domiciliato e difeso;
- ricorrente -
contro
MINISTERO DEGLI AFFARI ESTERI, come sopra rappresentato, domiciliato e difeso;
- intimato -
per la cassazione della sentenza della Corte di appello di Roma, n. 509 del 14 marzo 2002. (r.g. n. 4008/2000);
sentiti, nella pubblica udienza del 6.4.2005: il Cons. Dott. Pasquale Picone che ha svolto la relazione della causa;
l'avv. Tommaso Raccuglia;
il Pubblico ministero nella persona del sostituto procuratore generale Dr. APICE Umberto che ha concluso per il rigetto delle istanze preliminari di rimessione alle Sezioni unite e di sostituzione del relatore, e per il rigetto del ricorso principale e del ricorso incidentale.

Svolgimento del processo

Decidendo sull'impugnazione principale del Ministero degli affari esteri e sull'impugnazione incidentale di (omissis) (omissis) contro la sentenza del Tribunale della stessa sede, la Corte di appello di Roma ha parzialmente accolto le due impugnazioni, riducendo, a E. 25.822,84 la somma liquidata dal primo giudice a titolo di risarcimento del danno da perdita di chance e dichiarando che il versamento della somma di L. 36.933.900, in esecuzione dell'ordinanza cautelare 31.3.1999, costituiva adempimento dell'obbligo risarcitorio dell'amministrazione per il danno da dequalificazione professionale;
riconoscendo al (omissis) euro 6.197,48 a titolo di risarcimento del danno derivato dal recesso in data 7.3.1994, anteriore alla scadenza del contratto a tempo determinato, oltre interessi e rivalutazione dalla sentenza al saldo, con il rigetto per il resto dell'appello incidentale.
Il (omissis) era stato assunto dal Ministero degli affari esteri con contratto di lavoro di diritto privato della durata di quattro anni (1991-1994), ai sensi dell'art. 12 l. 26 febbraio 1987, n. 49, quale esperto di secondo livello operante nell'Unita" tecnica centrale di cooperazione allo sviluppo di paesi esteri. Il contratto, che scadeva il 31.12.1994, era rinnovabile, ma il Ministero, prima aveva dichiarato risolto il contratto in data 7.3.1994, poi, riammesso in servizio il (omissis) dal 21.7.1994, in esecuzione di provvedimento cautelare del Tribunale amministrativo del Lazio, aveva rifiutato il rinnovo del contratto con provvedimenti 72/1994 e 181/1994 (questo secondo sostitutivo del primo). Sempre per effetto di provvedimento cautelare del giudice amministrativo, il (omissis) era poi rimasto in servizio fino al 14.2.1997.
Il lavoratore aveva domandato l'accertamento dell'illegittimità del licenziamento, con le conseguenze previste dall'art. 18 della legge n. 300 del 1970;
l'accertamento, con diverse prospettazioni, della persistenza del rapporto di lavoro oltre la scadenza del 31.12.1994 e la condanna dell'Amministrazione a riammetterlo in servizio, nonchè al risarcimento dei danni.
Aveva altresì avanzato numerose pretese relative al servizio prestato, di carattere risarcitorio e retribuivo.
La Corte di appello di Roma ha ritenuto fondate soltanto le pretese risarcitone di cui sopra, riducendo però gli importi liquidati dal primo giudice.
Contro questa sentenza hanno proposto ricorso per Cassazione in via principale l'amministrazione degli esteri e in via incidentale il (omissis), che ha resistito con controricorso.
Rimessa la causa alle Sezioni unite ai sensi dell'art. 374, primo comma, c.p.c., per la preliminare qualificazione, ai fini della giurisdizione, di alcune delle posizioni giuridiche affermate dalla parte privata nei confronti della pubblica amministrazione, con sentenza 1 ottobre 2003, n. 14625, previa riunione dei ricorsi, è stata dichiarata la giurisdizione dell'autorità giudiziaria ordinaria con trasmissione degli atti alla Sezione lavoro per Tesarne dei motivi non attinenti alla giurisdizione.
Contro questa sentenza il (omissis) ha proposto ricorso per revocazione, dichiarato inammissibile con sentenza 16 novembre 2004, n. 21638.
Il ricorrente incidentale ha depositato memoria per l'udienza dinanzi alle Sezioni unite, altra memoria per l'udienza inizialmente fissata per il giorno 25.2.2004, con rinvio a nuovo ruolo della causa in attesa della decisione sul ricorso per revocazione, ulteriore memoria per l'udienza odierna. Con ordinanza resa in udienza, il collegio ha respinto la richiesta del (omissis) di rimettere la causa alle Sezioni unite, nonchè di sostituzione del relatore designato.

Motivi della decisione

1. Il ricorso principale è strutturato in cinque motivi; il controricorso contenente il ricorso incidentale consta di 1061 pagine e i suoi motivi non sono facilmente individuabili, risultando le censure distribuite tra i diversi argomenti trattati, spesso ripresi identici nella sostanza in diversi punti, taluni persino formalmente iscritti tra le deduzioni del controricorso.
Per queste ragioni, il metodo di esame dei ricorsi riuniti consisterà dell'individuare, nell'ordine logico ritenuto più adeguato, le singole statuizioni contenute nella sentenza impugnata e le censure relative. Va ricordato anche che controversie di contenuto analogo sono già state decise da questa Sezione della Corte di Cassazione (sentenze n. 10922, 12092 e 23925 del 2004), con la risoluzione di talune questioni poste in termini identici nella presente controversia.
1.1. Prima di procedere all'esame dei motivi dei ricorsi riuniti, la Corte avverte che non terrà in alcuna considerazione (con particolare riferimento al ricorso incidentale) la denuncia di vizi di motivazione concernenti errores in procedendo o in iudicando.
Infatti, il vizio di motivazione denunciatole come motivo di ricorso per Cassazione ai sensi dell'art. 360, n. 5 c.p.c., può concernere esclusivamente l'accertamento e la valutazione dei fatti rilevanti ai fini della decisione della controversia e dei quali la Corte non possa conoscere direttamente (come avviene, al contrario, per le vicende processuali che si traducono in errori di rito), non anche l'interpretazione e l'applicazione delle norme giuridiche, atteso che, in relazione a una questione la cui soluzione dipende esclusivamente dall'interpretazione di atti normativi, la cognizione del giudice di legittimità investe direttamente le disposizioni, senza il "filtro" rappresentato dalla motivazione della sentenza impugnata. Ne discende, come si argomenta agevolmente dal disposto dell'art. 384, secondo comma, c.p.c., che, ove il giudice del merito abbia correttamente deciso le questioni di diritto sottoposte al suo esame, ancorchè difetti la motivazione o questa sia comunque inadeguata, illogica o contraddittoria, la Corte di Cassazione ha il potere di sostituirla, integrarla o emendarla, (vedi, per tutte, Cass. 4593/2000,19/2002; Cass., sez. un., 261/2003).
1.2. In questo ambito rientra anche la ricerca della regola di giudizio mediante promovimento di questione incidentale di legittimità costituzionale, ovvero mediante applicazione di norme comunitarie, previa eventuale richiesta alla Corte di giustizia Cee di decidere una questione pregiudiziale. Ne segue che le relative questioni, essendo proponibili (e rilevabili di ufficio) anche per la prima volta nel giudizio di legittimità se strumentali alla decisione del ricorso, prescindono completamente dalle pronunce del giudice del merito e non rivestono alcuna autonomia sul piano dei vizi imputati alla decisione impugnata.
1.3. Altra premessa di ordine generale è che gli eventuali errori del giudice nell'interpretare il sistema difensivo di una parte concretano errores in iudicando e, quindi, al riguardo non è consentito al giudice di legittimità, se non sono in questione errores in procedendo, di procedere all'esame diretto degli atti processuali, la cui interpretazione è rimessa istituzionalmente al giudice di merito, interpretazione censurabile in cassazione solo per vizi di motivazione (Cass. 551/1997).
1.4. Ed infine, la Corte non esaminerà specificamente tutte quelle deduzioni che risulteranno giuridicamente e logicamente assorbite dalla soluzione data ad altre questioni, logicamente pregiudiziali, nè darà risposte a quelle denunce di errores in procedendo in relazione alle quali non risultano precisate le statuizioni di cui si chiede la cassazione in quanto inficiate dai detti vizi; più in generale, non potrà prendere in considerazione tutte le articolazioni delle numerosissime censure contenute nel ricorso incidentale, dovendo ottemperare all'obbligo di "concisa esposizione...dei motivi della decisione" (art. 132, comma primo, n. 4, c.p.c).
2. E' indispensabile precisare, innanzi tutto, il quadro normativo entro il quale la vicenda si svolge ed il complesso dei principi generali applicabili al rapporto controverso.
2.1. La legge 26 febbraio 1987, n. 49 - Nuova disciplina della cooperazione dell'Italia con i paesi in via di sviluppo - istituì e disciplinò, all'art. 12, una "Unità tecnica centrale" a supporto dell'attività della Direzione generale per la cooperazione allo sviluppo, disponendo, per le parti che interessano la controversia:
"L'organico dell'Unità tecnica centrale è costituito da esperti assunti con contratto di diritto privato a termine entro un contingente massimo di centoventi unità..."(comma 3); "Le caratteristiche del rapporto contrattuale di diritto privato a termine - ivi compreso il trattamento economico - sono fissate con decreto del Ministro degli affari esteri, di concerto con il Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione economica e con il Ministro della funzione pubblica, previo parere del Comitato direzionale di cui all'articolo 9, tenuto conto dei criteri e dei parametri osservati al riguardo dal Fondo europeo dello sviluppo della Comunità economica europea, nonchè dell'esperienza professionale di cui il personale interessato sarà in possesso al momento della stipula del contratto. Il contratto avrà durata quadriennale rinnovabile in costanza delle esigenze connesse all'attuazione dei compiti di natura tecnica della cooperazione allo sviluppo. Il decreto di cui al presente comma dovrà altresì prevedere le procedure concorsuali per la immissione degli esperti di cui al comma 3 nell'Unità tecnica centrale" (comma 4).
L'art. 4 d.l. 28 dicembre 1993, n. 543 - Misure urgenti per il controllo della spesa nel settore degli interventi nei paesi in via di sviluppo - conv. in l. 17 febbraio 1994, n. 121, stabilì nel primo comma: "I contratti stipulati con gli esperti dell'Unita tecnica centrale possono essere rinnovati per periodi quadriennali previa valutatone delle qualifiche ed esperienze acquisite, sentita una commissione nominata dal Ministro degli affari esteri e composta da cinque membri di cittadinanza anche non italiana. La disposizione di cui al presente comma ha carattere transitorio e si applica ai contratti in scadenza tra il 1 novembre 1993 ed il 31 dicembre 1994, nonchè a quelli che scadono nel 1995 unicamente per effetto di atti aggiuntivi ai detti contratti. A tal fine i contratti con scadenza tra il 1 novembre 1993 e il 31 dicembre 1994 sono prorogati fino a tale ultima data". 2.2. La natura privatistica del rapporto di lavoro in questione è stata affermata dalle Sezioni unite della Corte, le quali hanno fatto riferimento alla sua derivazione contrattuale e all'espressa qualificazione contenuta negli art. 12, commi 3 e 4, e 16, comma 1, lett. c), l. n. 49 del 1987 (Cass, s.u. 10925/1995;l 101/1998;
14676/2000).
La sentenza delle Sezioni unite pronunciata in questa controversia, poi, ha risolto, ai fini della giurisdizione, la questione se, nella fase diretta alla conclusione del contratto, l'eventuale discrezionalità spettante alla pubblica amministrazione, in particolare quanto alla decisione di rinnovare o no il contratto di lavoro, comporti l'esercizio di una potestà pubblica, sottoponibile al sindacato della giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo, oppure debba essere collocata in regime privatistico e sia perciò controllabile dal giudice ordinario. La questione, con l'esame dei motivi di ricorso ad essa attinente, è stata risolta nel secondo senso, qualificando la pretesa al rinnovo del contratto come diritto soggettivo, non interesse legittimo contrapposto a un potere pubblico discrezionale, potere che l'amministrazione deve esercitare a tutela di interessi generali. Più in particolare, ha ritenuto che, anche nella fase preordinata alla costituzione del rapporto di diritto civile, la relazione tra le parti è di natura paritetica, restando estranea ogni connotazione pubblicistica, cosicchè le posizioni autoritative e discrezionali dell'ente (futuro o attuale) datore di lavoro sono assimilate a quelle del datore di lavoro privato e, correlativamente, la posizione soggettiva spettante al privato e asseritamente lesa deve qualificarsi come interesse legittimo di diritto privato, da riportare, quanto alla tutela giudiziaria, nella più ampia categoria dei "diritti" di cui all'art. 2907 c.c..
2.3. La decisione sulla giurisdizione resa dalle Sezioni unite della Corte di cassazione, che sia fondata sulla qualificazione del rapporto dedotto in giudizio, comporta che il giudicato sulla giurisdizione si estenda anche a tale qualificazione e sia, pertanto, definitivamente vincolante nella risoluzione delle questioni di merito (Cass. 11839/2003).
Si deve perciò escludere la presenza di procedimenti (e atti amministrativi) di evidenza pubblica, diretti cioè ad individuare i motivi di pubblico interesse per i quali si addiviene alla stipulazione del contratto di diritto privato con una parte individuata all'esito del procedimento, e, dunque, anche di una fattispecie di concorso pubblico per l'assunzione al lavoro, dovendosi qualificare gli atti dell'amministrazione siccome assunti con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro e di natura negoziale le sequenze procedimentali.
2.4. Dai principi enunciati dalle Sezioni unite discende l'esclusione della presenza di procedimenti e atti amministrativi di evidenza pubblica, diretti cioè ad individuare i motivi di pubblico interesse per i quali si addiviene alla stipulazione di un contratto con una parte privata individuata all'esito del procedimento, e, dunque, anche di una fattispecie di concorso pubblico per l'assunzione al lavoro, dovendosi qualificare gli atti dell'amministrazione siccome assunti con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro e di natura negoziale le sequenze procedimentali.
2.5. In ordine alla questione, strettamente di merito, del regime giuridico degli atti e procedimenti di diritto privato posti in essere dall'amministrazione ai fini della costituzione di rapporti finalizzati al perseguimento di finalità istituzionali, va fatta applicazione alla fattispecie del principio di diritto secondo il quale, a seguito della cd. "privatizzazione" del lavoro pubblico, alla stregua delle norme ora raccolte nel D. LGS. 30 marzo 2001, n. 165, attuata mediante la contrattualizzazione della fonte dei rapporti di lavoro e l'adozione di misure organizzative (escluse solo quelle espressamente riservate agli atti di diritto pubblico) e gestionali con atti di diritto privato (art. 5, comma 2, del D. LGS. cit.), deve ritenersi che la conformità a legge del comportamento dell'amministrazione - negli atti e procedimenti di diritto privato posti in essere ai fini della costituzione, gestione e organizzazione dei rapporti di lavoro finalizzati al perseguimento di scopi istituzionali - deve essere valutata esclusivamente secondo gli stessi parametri che si utilizzano per i privati datori di lavoro, secondo una precisa scelta del legislatore (nel senso dell'adozione di moduli privatistici dell'azione amministrativa) che la Corte costituzionale ha ritenuto conforme al principio di buon andamento dell'amministrazione di cui all'art. 97 Cost. (vedi Corte cost. n. 275 del 2001, n. 11 del 2002). Ne discende che, esclusa la presenza di procedimenti e atti amministrativi, non possono trovare applicazione i principi e le regole proprie di questi e, in particolare, le disposizioni dettate per i provvedimenti e gli atti amministrativi dalla legge 7 agosto 1990, n. 241 (Cass. 6570/2004;
5565/2004; 11589/2003; 7704/2003). Questo stesso principio è stato applicato dalla giurisprudenza della Corte anche agli atti di conferimento degli incarichi dirigenziali - con riguardo alla disciplina contenuta nell'art. 19 D. LGS. n. 165 del 2001, sia nel testo originario, sia in quello modificato dall'art. 3 della legge n. 145 del 2002 - cui si è riconosciuta natura di determinazione assunta dall'amministrazione con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro, esulandosi dall'ambito delle procedure concorsuali riservate al diritto pubblico (Cass. S.U. 22990/2004; Cass. 5659/2004), con la conseguenza di ricondurre le situazioni giuridiche dei dipendenti con qualifica dirigenziale di fronte al potere di conferimento al novero dei cd. interessi legittimi di diritto privato, ascrivibili pur sempre alla categoria dei diritti di cui all'art. 2907 c.c. (cfr. Cass. S.u. 14625/2003; Cass. 9747/2003).
2.6. Il discorso svolto, come è palese, rende manifesta l'infondatezza giuridica di tutte le censure del ricorso incidentale che, nell'articolazione dei diversi motivi, assumono a presupposto l'applicabilità di regole e principi propri degli atti amministrativi e dell'azione di diritto pubblico dell'amministrazione, sia nel denunciare violazioni di legge e profili di eccesso di potere, sia nel prospettare vizi di indagine, dovendo farsi applicazione della regola di giudizio secondo cui la conformità a legge del comportamento dell'amministrazione deve valutarsi secondo gli stessi parametri che valgono per i privati datori di lavoro, non rilevando, ovviamente, che nella specie venga in considerazione un rapporto di natura privata ab origine, cioè non successivamente "privatizzato" ai sensi della richiamata normativa (e le richiamate sentenze della Corte costituzionale escludono la fondatezza dei dubbi di legittimità costituzionale avanzati dal ricorrente incidentale al riguardo).
3. In ordine di priorità logica, vanno esaminate per prime le tesi del ricorrente incidentale, secondo le quali al rapporto di lavoro de quo doveva riconoscersi natura di rapporto di lavoro a tempo indeterminato fin dalla sua costituzione. Secondo queste tesi, a tanto i giudici del merito avrebbero dovuto pervenire, in primo luogo, facendo applicazione delle disposizioni della legge 18 aprile 1962, n. 230, in particolare, dell'art. 2, siccome erano state disposte proroghe, sia anteriormente al 31 dicembre 1994, sia successivamente a questa data, dopo la scadenza del termine apposto al contratto e senza che fossero intervenute interruzioni nelle prestazioni lavorative, dovendosi altresì tenere conto del comportamento di mantenimento in servizio del (omissis) fino al 14 febbraio 1997; in via gradata, la durata a tempo indeterminato sarebbe derivata dalla disapplicazione, per contrasto con la normativa dell'Unione europea, delle disposizioni legislative applicabili alla fattispecie, ovvero con la mediazione del promovimento di questione di legittimità costituzionale delle stesse disposizioni.
3.1. Il primo ordine di censure è infondato, in applicazione del principio di diritto assorbente di tutte le altre questioni prospettate, secondo il quale, in tema di assunzioni temporanee alle dipendenze di pubbliche amministrazioni con inserimento nell'organizzazione pubblicistica dell'ente, trovano applicazione le discipline specifiche che escludono la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato anche per i rapporti di lavoro di diritto privato, avendo riguardo l'art. 97 Cost. non già alla natura giuridica del rapporto ma a quella dei soggetti, salvo che una fonte normativa non disponga diversamente per casi particolari (Cass. 10453/2004; 5517/2004). Tale principio, del resto, è stato ribadito in sede di disciplina generale del lavoro pubblico dall'art. 36, comma 2, D. LGS. 30 marzo 2001, n. 165, nella parte in cui dispone che "la violazione di disposizioni imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato ...", disposizione giudicata costituzionalmente legittima (C. cost. n. 89 del 2003) sul rilievo che "il principio fondamentale in materia di instaurazione del rapporto di impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni è quello, del tutto estraneo alla disciplina del lavoro privato, dell'accesso mediante concorso...principio posto a presidio delle esigenze di imparzialità e buon andamento dell'amministrazione, di cui al primo comma dello stesso art. 97 della Costituzione". La stessa sentenza aggiunge che "seppure lo stesso art. 97, terzo comma, della Costituzione, contempla la possibilità di derogare per legge a miglior tutela dell'interesse pubblico al principio del concorso, è tuttavia rimessa alla discrezionalità del legislatore, nei limiti della non manifesta irragionevolezza, l'individuazione di siffatti casi eccezionali" (in linea con principi più volte affermati dalla stessa Corte: sentenze n. 320 del 1997, n. 205 del 1996).
3.2. Il preteso contrasto con la normativa comunitaria delle leggi n. 49 1987 e n. 121 1994, nella parte in cui autorizzano il ricorso dell'amministrazione degli esteri alla tipologia contrattuale del lavoro a termine, anche reiteratamente in presenza di esigenze permanenti, viene sostenuto con riferimento alla Direttiva 1990/70/CE del Consiglio del 28 giugno 1999.
E' sufficiente rilevare l'inapplicabilità ratione temporis al rapporto dedotto in giudizio dell'indicata Direttiva, cui, peraltro, va aggiunto il rilievo che è stato rimesso agli Stati membri a quali condizioni i contratti a tempo determinato devono essere ritenuti a tempo indeterminato (clausola 5, comma secondo, dell'accordo quadro CES-UNICE-CEEP recepito dalla Direttiva).
3.3. Il contrasto con la Costituzione delle stesse disposizioni legislative va senz'altro escluso sulla base degli orientamenti della Corte costituzionale richiamati al punto 3.1.. In ogni caso, il principio secondo cui i contratti a tempo indeterminato rappresentano la forma comune dei rapporti di lavoro, cosicchè l'apposizione di un termine deve essere basata su ragioni oggettive, non è principio costituzionale, atteso che non è costituzionalmente protetto neppure l'interesse del dipendente ad una giustificazione della decisione del datore di lavoro di porre fine al rapporto a tempo indeterminato (C. Cost. n. 2 del 1986 e n. 225 del 1994).
4. Nell'ambito delle stesse argomentazioni, nonchè in altri punti del ricorso incidentale, sono prospettati ulteriori dubbi di legittimità costituzionale manifestamente infondati: come già osservato, la scelta del legislatore in favore di moduli di diritto privato dell'azione amministrativa, con il conferimento all'amministrazione dei poteri propri degli altri datori di lavoro, è stata ripetutamente ritenuta conforme al principio di buon andamento di cui all'art. 97 Cost. (C. cost. 313/1996, 275/2001, 11/2002); le disposizioni dell'art. 4 d.l. 543/1993, nella parte in cui hanno imposto limiti al potere dell'amministrazione di decidere se rinnovare o no alcuni contratti a termine, hanno aumentato, non certo diminuito, le garanzie dei soggetti interessati, cosicchè una questione di disparità di trattamento potrebbe porsi semmai per i lavoratori esclusi dalle garanzie del previsto procedimento di rinnovo e alla valutazione secondo criteri aggettivi; la tipologia contrattuale comporta necessariamente un regime giuridico diverso, cosicchè la condizione di un lavoratore a termine non è suscettibile di essere assimilata a quella di un lavoratore a tempo indeterminato, ancorchè ciò si risolva indubbiamente in situazione di maggiore debolezza nei confronti dei poteri del datore di lavoro;
non si comprende per quali aspetti la regolamentazione della fattispecie sarebbe contraria alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo: si fa riferimento al diritto ad un processo equo in relazione alla situazione di debolezza di un lavoratore a termine esposto alle decisione arbitrarie del datore di lavoro, ma si tratta di considerazioni prive di reale rilevanza nella controversia, mancando qualsiasi collegamento con la denuncia di specifici vizi della sentenza.
5. La natura di lavoro a tempo determinato del rapporto di lavoro assorte tutte le censure relative alla mancata applicazione delle norme di tutela contro i licenziamenti illegittimi (legge n. 604 del 1966 e art. 18 legge n. 300 del 1970), che concernono i soli rapporti di lavoro a tempo indeterminato. In merito, va anche detto, una volta per tutte, che il periodo di lavoro prestato dopo la scadenza del contratto, va qualificato come lavoro di fatto, come tale assoggettato alla sola tutela di cui all'art. 2126 c.c., siccome in nessuno degli atti invocati dal ricorrente incidentale l'amministrazione ha manifestato l'intento negoziale di prorogare il contratto e l'esecutività del provvedimento cautelare del Tar vale a conferire ai comportamenti tenuti il significato di mera ottemperanza al dictum del giudice.
6. La sentenza impugnata reca, in primo luogo, la condanna dell'amministrazione al pagamento di euro 6197,48, a fronte di retribuzioni non percepite per un ammontare di L. 21.000.000 nel periodo 7.3.-21.7.1994, durante il quale non furono rese le prestazioni lavorative per effetto del recesso dell'amministrazione.
Sulla premessa che non era stato investito dall'impugnazione dell'amministrazione l'accertamento del giudice di primo grado secondo cui il recesso ante tempus non era sorretto da giusta causa, la sentenza ha determinato il risarcimento tenendo conto del possibile impiego delle energie lavorative quale professionista (ingegnere iscritto all'albo professionale); ha escluso il diritto al versamento dei contributi previdenziali, stante l'inapplicabilità dell'art. 18 della legge n. 300 del 1970 6.1. La statuizione è investita dal primo motivo del ricorso principale, con il quale l'amministrazione denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 12 della l. 49/1987 e dell'art. 4 l.
121/1994, anche in relazione agli art. 164 e 166 D.P.R. 11 del 1967, nonchè vizi della motivazione.
Sostiene che non si era formato il giudicato interno sulla mancanza di una giusta causa; che il (omissis) aveva contestato il recesso esclusivamente sotto il profilo della violazione dell'art. 7 l.
300/1970, inapplicabile ad un rapporto di lavoro retto da una normativa speciale; che numerose ed articolate erano state le deduzioni del Ministero, non esaminate dalla sentenza, circa i numerosi inadempimenti e l'atteggiamento di non collaborazione del (omissis); che la determinazione dell'importo attribuito a titolo risarcitorio non era sorretta da idonea motivazione. Il tema della determinazione del quantum del risarcimento del danno per la detta causale è investito anche dal ricorso incidentale, che critica la sentenza impugnata per non avere liquidato il danno con riferimento alle retribuzioni non percepite; ed ancora per non avere affermato l'obbligo di versare i contributi all'Inps.
6.2. Tutte le riferite censure non sono fondate.
La sentenza impugnata ha rilevato che il recesso del 7.3.1994 era stato accertato dalla sentenza di primo grado come privo di giusta causa, senza che il punto fosse stato investito dall'appello del Ministero.
Il ricorso principale afferma il contrario, ma, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso, non riporta il pertinente contenuto dell'atto di appello, precludendo alla Corte la possibilità di verificare se, ed in quali termini, la questione fosse stata riproposta al giudice dell'impugnazione dalla parte vittoriosa in primo grado (la sentenza di primo grado, pur dichiarando ingiustificato il recesso, aveva poi respinto la pretesa risarcitoria per il motivo, non condiviso dal giudice dell'appello, che era stata avanzata esclusivamente sulla base dell'art. 18 l.
300/1970). Pertanto, l'affermazione del giudice di appello di non essere stato investito del compito di riesaminare la questione della giustificatezza del recesso ante tempus non è stata validamente censurata.
6.3. Nessuna consistenza ha poi la deduzione secondo cui il (omissis) si era limitato a denunciare la violazione dell'art. 7 l. 300/1970:
il dipendente aveva dedotto di essere stato destinatario di una risoluzione ingiustificata del rapporto di lavoro prima della scadenza e nessuna limitazione all'indagine del giudice poteva derivare dall'invocazione di una norma in ipotesi non applicabile.
6.4. In ordine al danno, liquidato ai sensi dell'art. 1223 e 1226 c.c., non si riscontrano errori giuridici e logici nell'assumere a parametro l'ammontare delle retribuzioni che sarebbero spettati al (omissis) durante il periodo di rifiuto delle prestazioni da parte dell'amministrazione, con detrazione dei risparmi di spesa e dei guadagni che il lavoratore avrebbe potuto conseguire usando l'ordinaria diligenza, come pure è conforme a legge l'affermazione, da sola sufficiente a sorreggere la statuizione, circa la non configurabilità di obbligazione contributiva verso l'ente previdenziale in relazione a somme liquidate a titolo risarcitorio e non retributivo.
7. Vanno poi esaminate le argomentazioni del ricorrente incidentale che sono rivolte a sostenere la tesi che, nella fattispecie, il contratto a termine con scadenza 31 dicembre 1994 si sarebbe automaticamente rinnovato per ulteriori quattro anni. Si denuncia insufficiente motivazione circa l'esclusione di una responsabilità contrattuale del Ministero per violazione dell'obbligo di rinnovare il contratto scaduto alla fine del 1994, obbligo nascente da questo medesimo contratto; in alternativa, la ricorrente afferma di aver chiesto una sentenza di accertamento dell'avvenuto rinnovo del contratto per avere accettato "un'offerta al pubblico" rivolta dall'amministrazione a tutti gli interessati al rinnovo mediante il bando di selezione; si denuncia violazione dell'art. 1336 c.c. e vizio di motivazione perchè il bando di concorso e la lettera di invito a presentare domanda di partecipazione concretavano proposta di rinnovo del contratto; si deduce l'omissione di pronuncia sulla richiesta di "annullare i provvedimenti di mancato rinnovo contrattuale" e l'omesso accertamento dell'avvenuto rinnovo del contratto mediante applicazione dell'art. 1359 c.c..
7.1. Il complesso di queste censure non ha fondamento.
Correttamente la sentenza impugnata ha escluso che la normativa di settore potesse interpretarsi nel senso di attribuire all'esperto assunto a termine il diritto alla stipulazione del rinnovo del contratto scaduto o che, nella fattispecie, tale rinnovo dovesse reputarsi intervenuto.
La possibilità di rinnovo è stata contemplata dall'art. 12, comma 4, l. 49/1987 al solo fine di consentire all'amministrazione, nella persistenza delle esigenze istituzionali previste dalla stessa legge, di evitare la procedura concorsuale per l'immissione degli esperti nell'Unità tecnica centrale, costituendo un nuovo rapporto di lavoro con soggetto già selezionato all'esito della predetta procedura, così derogando anche alla rigidità che sarebbe derivata dall'applicazione delle disposizioni generali in tema di lavoro temporaneo alle dipendenze di pubbliche amministrazioni (secondo la disciplina delle assunzioni temporanee di personale presso le amministrazioni dello Stato, dettata dal d.P.R. 31 marzo 1971, n. 276, emanato in forza dell'art. 25 della legge 28 ottobre 1970, n. 775).
7.2. La disciplina legislativa del 1987, quindi, consentiva, almeno in linea di principio e salva la possibilità di autolimitazione, all'amministrazione degli esteri di decidere liberamente, sul piano del potere di autonomia negoziale, se avvalersi di personale a termine in numero inferiore rispetto al periodo precedente, ovvero di stipulare alcuni contratti a termine ex novo, previo esperimento di procedura concorsuale (nell'uno, come nell'altro caso, non procedendo al rinnovo di alcuni contratti).
Questa situazione di relativa libertà è in parte mutata, ma solo in forza di una disposizione di carattere transitorio e applicabile esclusivamente ai contratti in scadenza nel periodo 1 novembre 1993 - 31 dicembre 1994 (con le scadenze anteriori tutte prorogate a tale ultima data), ovvero nel 1995 per effetto di atti aggiuntivi relativi a contratti già scaduti in precedenza. Per i detti contratti, e solo per essi, si è stabilito, dall'art. 4 d.l. 543/1993, conv. in l.
121/1994, sempre nel presupposto che l'amministrazione decidesse di procedere al rinnovo, che ciò potesse fare solo all'esito di "valutazione delle qualifiche ed esperienze acquisite", sentita una commissione nominata dal Ministero degli affari esteri. Resta, quindi, escluso, anche nel nuovo quadro normativo, un diritto alla stipulazione del nuovo contratto, ma l'amministrazione, nei confronti dei dipendenti ammessi alla procedura di rinnovo, è stata obbligata dalla legge all'emanazione di un giudizio, il cui esito può essere controllato, non certo sostituito, dal giudice, sia sotto il profilo del rispetto delle regole procedimentali che il datore di lavoro è obbligato a osservare, sia sotto quello della conformità ai criteri di legge ed ai precetti di buona fede e correttezza.
7.3. La ricostruzione del dato normativo esclude la fondatezza della pretesa del ricorrente di considerare avvenuto il rinnovo per aver accettato l'interessato una proposta, nella sussistenza delle condizioni di legge. Secondo la corretta ricostruzione del giudice di merito, la formulazione del giudizio circa l'idoneità professionale del dipendente, costituiva atto preparatorio della decisione di rinnovargli il contratto e, dunque, il contratto sarebbe stato perfezionato solo con l'esercizio del potere di autonomia negoziale, conformemente alla lettera delle norme, che non recano espressioni quali "i contratti si intendono rinnovati" o equivalenti, ma con l'uso del termine "possono" palesano che l'intento era stato esclusivamente quello di porre vincoli interni al potere in questione.
7.4. La ricostruzione della fattispecie astratta, sopra operata, è sufficiente per verificare la non conformità al diritto delle tesi del ricorrente incidentale.
Va comunque escluso che potesse configurarsi una procedura concorsuale. Il concetto evoca una procedura caratterizzata dalla valutazione comparativa dei candidati e dalla compilazione finale di una graduatoria (cfr., da ultimo, Cass. S.U. 11404/2003). Nella specie, invece, si trattava soltanto di acquisire gli elementi necessari per la formulazione di un giudizio di idoneità ai fini della decisione di rinnovo del contratto e il cd. "bando" si limitava a rendere noto, su di un piano strettamente individuale, che ciascun aspirante al rinnovo aveva l'onere di sottoporsi a determinate procedure preordinate a consentire la valutatone, esclusa ogni comparazione di tipo intersoggettivo.
Ne discende la non riconducibilità della fattispecie allo schema bando di concorso-promessa al pubblico di stipulazione del contratto con i soggetti utilmente collocati in graduatoria (cfr. Cass. 13138/1999).
Va aggiunto che le limitazioni dell'autonomia contrattuale che si traducono nell'obbligo di procedere a valutazioni tecnico- discrezionali secondo determinati procedimenti e nell'osservanza della buona fede e correttezza, come meglio si dirà più avanti, conferiscono all'interessato il diritto al risarcimento del danno per inadempimento ovvero il diritto a pretendere che le operazioni siano ripetute correttamente (che non risulta dalla sentenza impugnata che sia stato fatto valere nella controversia), non certamente quello a una valutazione favorevole, estraneo ai contenuti delle obbligazioni assunte dal titolare del potere.
7.5. Nè miglior successo può riconoscersi alla tesi secondo la quale l'amministrazione avrebbe formulato una proposta di rinnovo condizionata, accettata dal (omissis), e la condizione si sarebbe dovuta ritenere avverata ai sensi dell'art. 1359 c.c..
La condizione, secondo la definizione contenuta nell'art. 1353 c.c., è l'avvenimento futuro e incerto, a cui è subordinata l'attuazione o la cessazione di efficacia di un contratto.
Quando è stipulato un negozio sottoposto a condizione sospensiva, la costituzione o il trasferimento del diritto avviene nel momento del perfezionamento dell'atto, mentre il suo esercizio è sospeso fino all'avveramento della condizione medesima.
E quando tale avveramento si verifica, il diritto si considera costituito o acquisito fin dal momento della stipulazione del contratto ( art. 1360 c.c.). Ora, nel caso di specie è assolutamente improprio parlare, come fa il ricorrente, di un contratto subordinato a eventi futuri e incerti, perchè, se così fosse, avveratasi la condizione, il contratto dovrebbe ritenersi stipulato fin dal momento dell'accettazione della proposta, il che sarebbe palesemente in contrasto con i dati normativi, che impongono all'amministrazione la valutazione di idoneità proprio ai fini della decisione di stipulare il contratto.
Ne consegue che del tutto fuori luogo è il richiamo fatto dal ricorrente all'art. 1359 c.c., che regola il caso del mancato avveramento della condizione.
7.6. Il complesso delle considerazioni svolte rende palesemente priva di fondamento la doglianza relativa all'omissione di annullamento dei provvedimenti di rifiuto del rinnovo: nel procedimento di diritto privato che si è svolto, gli atti in questione si limitavano a comunicare la valutazione negativa e quindi che il contratto non sarebbe stato rinnovato; non si trattava, quindi di atti amministrativi o negoziali, destinati a produrre autonomi effetti che sarebbe stato necessario rimuovere mediante annullamento.
8. Il ricorso incidentale critica la decisione di merito anche per aver escluso che nella fattispecie ricorresse un'ipotesi di responsabilità contrattuale, addebitandole di non aver argomentato in ordine alla conformità ai precetti di correttezza e buona fede del rifiuto di concludere il nuovo contratto; si denuncia vizio di motivazione e violazione degli art. 113, 115, 132 c.p.c. e 118 disp. att. c.p.c., asserendosi l'impossibilità di individuare il criterio logico-giuridico in base al quale la sentenza impugnata aveva ravvisato una responsabilità precontrattuale del Ministero invece che una responsabilità contrattuale, nonchè l'errore di diritto consistito nella riconduzione della fattispecie all'art. 1337 c.c..
8.1. Sulla questione sussiste indubbiamente il denunciato errore di qualificazione giuridica.
Secondo l'avviso della prevalente giurisprudenza della Corte, la responsabilità precontrattuale, configurabile per violazione del precetto posto dall'art. 1337 c.c. - a norma del quale le parti, nello svolgimento delle trattative contrattuali, debbono comportarsi secondo buona fede - costituisce una forma di responsabilità extracontrattuale, che si collega alla violazione della regola di condotta stabilita a tutela del corretto svolgimento dell'iter di formazione del contratto, quale specificazione del generico dovere del neminem laedere, sicchè la sua sussistenza, la risarcibilità del danno e la valutazione di quest'ultimo debbono essere vagliati alla stregua degli art. 2043 e 2056 c.c., tenendo peraltro conto delle caratteristiche tipiche dell'illecito in questione (cfr. Cass. s.u. 9645/2001). Ma, invece, allorchè nella fase di formazione del contratto non operi il generico precetto della buona fede, ma sia imposto ad una parte l'obbligo di rispettare regole procedimentali e sostanziali per assumere la decisione di addivenire al contratto, obbligo assunto negozialmente, oppure, come nella specie, di fonte legale, si configura inadempimento in senso tecnico e la responsabilità è di tipo contrattuale ai sensi dell'art. 1218 c.c. (cfr. Cass. 13922/2001; 13942/2002; 12069/2003).
La fattispecie concreta doveva essere inquadrata in questi termini, atteso che, esclusa la presenza di procedimenti e atti amministrativi (rispetto ai quali, almeno secondo l'opinione largamente prevalente, runica responsabilità configurabile è di tipo extracontrattuale), i vincoli al potere contemplati dalla legge tutelavano direttamente gli interessati, cui conferivano il diritto al puntuale rispetto di obbligazioni strumentali rispetto all'utilità sperata (cd. interessi legittimi di diritto privato, pur sempre riconducibili alla categoria dei diritti di cui all'art. 2907 c.c.).
8.2. Nondimeno, l'errore giuridico della Corte di appello è rimasto privo di effettiva incidenza sulla decisione, che, sotto il profilo considerato, è ugualmente conforme al diritto, dovendosi limitare la Corte a correggere la motivazione ( art. 384, comma secondo, c.p.c.).
Infatti, malgrado la qualificazione operata, il danno non è stato valutato con riferimento al cd. interesse negativo (che non consente di tener conto dei vantaggi che sarebbero derivati dalla conclusione del contratto: Cass. 1399/1992; 1897/1994), ma secondo le regole proprie della responsabilità contrattuale, collegando appunto all'inadempimento la perdita della possibilità di concludere il contratto (chance).
9. La statuizione di condanna del Ministero al risarcimento del danno per perdita di chance è investita dal secondo, terzo e quarto motivo del ricorso principale, che vanno perciò unitariamente esaminati.
Anche il ricorrente incidentale domanda la cassazione della statuizione sotto il profilo dell'asserita inadeguatezza della liquidazione del danno.
9.1. La ricorrente principale, denunciando nei tre anzidetti motivi violazione di norme di diritto e vizi della motivazione, afferma che il giudice di primo grado aveva ritenuto che la perdita di chance derivasse dai carichi di lavoro notevolmente inferiori rispetto a quelli assegnati ad altri esperti, ma la questione era stata totalmente ignorata dalla Corte di appello, che aveva altresì trascurato di considerare che l'amministrazione aveva dedotto nell'impugnazione che l'assegnazione del minor carico di lavoro era da addebitare ai ripetuti rifiuti di assumerli da parte del (omissis), restando certamente escluso che questi avesse un diritto soggettivo all'assunzione di determinati incarichi e che, comunque, tale circostanza avesse rivestito un ruolo causale in ordine al diniego di rinnovo del contratto (secondo motivo); che il potere discrezionale di valutazione negativa ai fini del rinnovo del contratto a termine non poteva esser oggetto di sindacato se non sotto il profilo del rispetto dei parametri normativi, dai quali non si era discostato il comportamento dell'amministrazione (il cd. gruppo informale di valutazione era stato costituito per una migliore valutatone) e non presentava aspetti contrastanti con il precetto di buona fede e correttezza, mentre la pretesa illegittimità del criterio relativo alla capacità di espressione, concentrazione e reazione implicava un inammissibile sindacato di merito (terzo e quarto motivo); in subordine si deduce che chance del 30% non poteva rappresentare il risarcimento di un interesse soltanto negativo, nè trovava giustificazione nelle risultanze processuali e in adeguata motivazione.
9.2. I suesposti motivi del ricorso principale non sono fondati.
Nel ricorso introduttivo del giudizio erano stati contestati ampiamente sia l'inserimento nel procedimento di valutazione del gruppo informale di lavoro, sia i metodi seguiti; queste censure erano state riprese nell'appello incidentale del (omissis), cosicchè non può dirsi che il giudice non fosse stato investito del controllo del rispetto degli obblighi di legge nella valutazione di idoneità al rinnovo del contratto sotto tutti gli aspetti.
Il giudice del merito ha, quindi, ritenuto la sussistenza di una responsabilità dell'amministrazione, perchè, mentre la legge richiedeva, per l'esercizio del potere di rinnovo, un imparziale giudizio positivo sull'opera già prestata dall'esperto, ossia una verifica delle qualifiche e delle esperienze acquisite ad opera di apposita commissione, il Ministero aveva introdotto criteri di valutazione incerti nella definizione e non verificabili, quale la "capacità di esposizione, concentrazione e reazione, nonchè atteggiamento generale del candidato nel corso del colloquio"; non aveva attribuito un punteggio separato per ciascun criterio, in modo da agevolare il controllo; aveva affidato in parte il giudizio ad un gruppo informale che aveva, sostituendo la commissione, operato senza verbalizzazione, e aveva concluso il lavoro in pochissimi giorni, malgrado il numero dei candidati, anche sulla base della loro conoscenza personale; aveva permesso al direttore generale di fissare una soglia minima di punteggio solo dopo la conoscenza dei risultati delle prove. A giudizio della Corte di appello, questo modo di procedere, contrario alla buona fede oggettiva, aveva arrecato al (omissis) un danno risarcibile ai sensi dell'art. 1337 c.c. e liquidabile equitativamente sulla base del trenta per cento delle probabilità di superamento della valutazione e della durata quadriennale (non superiore nè inferiore) del nuovo contratto, non stipulato. La verifica della divergenza del procedimento di valutazione sia dalle indicazioni della legge, sia dai canoni di buona fede e correttezza, costituisce un accertamento di fatto censurabile in sede di legittimità solo per vizi di motivazione:
vizi specifici non sono denunciati e comunque non si riscontrano nel ragionamento del giudice di merito.
Si deve aggiungere che la qualificazione in termini di responsabilità contrattuale (n. 8) comporta che il debitore della prestazione (procedimentale) debba fornire la prova dell'esatto adempimento, a norma dell'art. 1218 c.c..
9.3. In ordine al quantum debeatur, infine, anche in questo caso si contesta inammissibilmente un accertamento di fatto, accertamento che risulta plausibilmente giustificato, tenuto conto della natura equitativa della liquidazione del danno, con il richiamo del punteggio conseguito dal (omissis) nel concorso per l'assunzione e di quello finale attribuito dalla commissione ai fini del rinnovo del contratto, anche considerando la situazione dei carichi di lavoro inferiori.
9.4. Le stesse ragioni giustificano anche il rigetto del ricorso incidentale nella parte in cui denuncia vizio di motivazione sul quantum da perdita di chance, richiamando una serie di elementi di fatto, tra cui la posizione di altri lavoratori, per affermare che la valutazione equitativa avrebbe dovuto essere diversa e più favorevole. Il complesso di questa deduzioni, infatti, non vale a dimostrare la non plausibilità del ragionamento del giudice del merito, che rappresenta il limite del sindacato di legittimità.
Manifestamente infondata, poi, è l'ulteriore deduzione del ricorrente incidentale, secondo cui si sarebbe dovuto considerare anche il danno derivante dalla perdita della possibilità di rinnovo anche per ulteriori quattro anni, successi al 1999. E' assorbente la considerazione che a questo ulteriore rinnovo non sarebbero stati applicabili i criteri della legge del 1994 e la possibilità di continuare a lavorare dopo il 1999 assumeva rilievo di mero fatto, non costituendo l'evento una conseguenza immediata e diretta dell'inadempimento ( art. 1223 c.c.) e comunque prevedibile al tempo della procedura di selezione ( art. 1225 c.c.). Ugualmente destituita di fondamento, per le medesime ragioni, la censura relativa all'omesso accoglimento della richiesta dei danni successivi alla sentenza.
10. La statuizione di parziale accoglimento della domanda di risarcimento del danno da dequalificazione professionale (equitativamente determinato in lire 36.933.900, pari al trenta per cento delle retribuzioni relative al periodo 18.9.1991 - 31.12.1994) è impugnata con il quinto motivo del ricorso principale e con molteplici argomentazioni del ricorso incidentale.
L'amministrazione denuncia violazione di norme di diritto e vizio della motivazione perchè non vi era prova della colpa, anche considerando che un professionista iscritto all'albo aveva l'onere di provvedere autonomamente all'aggiornamento e alla conservazione dei livelli di professionalità; ed ancora perchè non vi era prova del danno e del suo ammontare. In relazione alla medesima statuizione, la parte privata si duole che il risarcimento sia stato limitato al periodo indicato; che il danno sia stato incongruamente liquidato in misura inferiore alle retribuzioni.
10.1. Tutte le indicate censure sono infondate.
Il ricorso principale trascura di considerare, sul piano delle regole giuridiche, che l'obbligo di rispettare la professionalità del lavoratore, sancito dall'art. 2103 c.c., è di natura contrattuale e che, pertanto, è addossato al datore di lavoro l'onere di provare che l'inadempimento è dipeso da causa a lui non imputabile (art. 2118 c.c.); sostiene inoltre tesi non condivisibili, come quella che vorrebbe far derivare dalla qualifica professionale elevata del dipendente l'impossibilità di lesione del patrimonio professionale, o, peggio, l'esclusione di una responsabilità del datore di lavoro, ovvero desumere l'inesistenza del danno (per sua natura non direttamente patrimoniale) dalla non variabilità dei compensi in funzione degli incarichi affidati.
Correttamente, perciò, la Corte di Roma ha affermato che, mentre era incontroverso il ridotto numero degli incarichi affidati al (omissis), che ciò fosse dipeso dai suoi atteggiamenti non collaborativi o da insufficienze professionali sarebbe stato onere dell'amministrazione dimostrarlo, ma non era stata neppure impugnata la statuizione di primo grado nella parte in cui aveva escluso che il recesso del 7.3.1998 fosse sorretta da giusta causa (secondo quanto già riferito al n. 6).
Del pari non è censurabile la valutatone equitativa del danno da inadempimento, in considerazione di tutte le peculiarità della vicenda, nella misura del 30 per cento delle retribuzioni del periodo preso in considerazione.
10.2. Al pari del ricorso principale, non riesce al ricorso incidentale di fornire precisi elementi che valgano a porre in discussione la ragionevolezza della liquidazione equitativa, atteso la correlazione che il giudice del merito ha ravvisato tra danno alla professionalità e riduzione dei carichi di lavoro, la rilevata mancata allegazione (nel ricorso introduttivo del giudizio) di ulteriori pregiudizi specifici.
Quanto alla limitazione del danno al periodo di lavoro prestato fino al 31 dicembre 1994, il giudice di primo grado aveva giustificato tale decisione sul rilievo che dopo la predetta data le prestazioni lavorative era state rese solo di fatto. Il giudice dell'appello ha rilevato la mancanza di specificità dell'appello sul punto, mancando una censura di questa ratio decidendi. In realtà, il (omissis) aveva insistito sulla tesi che il rapporto di lavoro doveva ritenersi a tempo indeterminato o, comunque il contratto a termine rinnovato alla predetta data, e dunque corretta deve ritenersi la decisione del giudice dell'impugnazione.
11. In relazione al demansionamento, ma anche, più in generale, con riferimento all'intera vicenda lavorativa, il (omissis) aveva domandato il risarcimento del danno alla personalità morale, alla vita di relazione, alla generica capacità lavorativa, al danno biologico, con riguardo anche a comportamenti di "mobbing".
Alcune di queste voci di danno sono certamente comprese nel danno da dequalificazione.
Per il resto la domanda è stata rigettata in primo grado e la statuizione è stata confermata dalla Corte di appello per mancanza di prova dei danni lamentati.
Nel giudizio di primo grado era stata disposta ed espletata consulenza tecnica di ufficio, che aveva escluso qualsiasi nesso causale tra il disturbo idiopatico della personalità del (omissis) e le vicende lavorative. La sentenza di appello prende diffusamente in esame l'elaborato peritale, la numerosa documentazione prodotta e i molteplici rilievi critici dell'appellante incidentale e conclude nel senso che l'infermità aveva origini remote e indipendenti dalle vicende lavorative. Si tratta di un accertamento di fatto, sufficientemente e logicamente motivato, contro il quale tutte le censure del ricorso incidentale, sebbene numerosissime e illustrate con dovizia di argomentazioni, sono rivolte a criticare direttamente il giudizio, domandando in definitiva che la Corte lo sostituisca, il che non è possibile in sede di legittimità, senza individuare fatti decisivi non considerati, o non adeguatamente considerati, ovvero contraddizioni nel ragionamento.
Pertanto, il ricorso incidentale va rigettato in relazione a tutte le censure mosse all'indicata statuizione.
12. Il ricorso incidentale censura il rigetto della pretesa rivolta all'accertamento che, a decorrere dal 5 maggio 1991, il (omissis) aveva svolto funzioni proprie del 1^ livello e alla condanna dell'amministrazione al pagamento delle conseguenti differenze retributive.
La sentenza impugnata ha ritenuto che non fosse comprovato lo svolgimento di mansioni superiori, non potendo il (omissis) vantare un particolare grado di esperienza all'atto di stipulazione del contratto individuale, nè aveva espletato mansioni di coordinamento di altri esperti.
Secondo il ricorrente incidentale, le argomentazioni della Corte di Roma non giustificavano il rigetto della domanda, fondata su fatti acquisiti al processo e non contestati: in particolare, l'amministrazione non aveva mai specificato il contenuto delle mansioni dei diversi livelli e le aveva assegnate in concreto in modo promiscuo e indipendentemente dagli inquadramenti dei singoli esperti, nè assumeva rilievo il fatto che non fossero stati attribuiti al ricorrente compiti di coordinamento, poichè la stessa situazione si riscontrava per la maggioranza degli esperti di primo livello.
12.1. Le censure non possono trovare accoglimento.
Ha carattere assorbente il rilievo che, come riferisce lo stesso ricorso, il decreto interministeriale 27 luglio 1988, emanato secondo le previsioni del comma 4 dell'art. 12 l. 49/1987, si era limitato a stabilire che, sulla base degli anni di esperienza professionale, gli esperti erano inquadrati nel primo livello di funzioni (professionalità particolarmente elevata), nel secondo (professionalità elevata) e nel terzo (professionalità normale);
nè erano state in altro modo specificate le mansioni proprie di ciascun livello e, di fatto, i lavoratori erano stati utilizzati senza realmente tenere conto del livello di inquadramento. Orbene, la decisione di rigetto risulta, in primo luogo, conforme al principio secondo cui, ove sia contemplata una medesima attività di base in tre distinte qualifiche, in scala crescente, a seconda che tale attività sia svolta in maniera più o meno complessa, il fatto costitutivo della pretesa del lavoratore che richieda la qualifica superiore, il cui onere di allegazione e di prova incombe sullo stesso lavoratore, non è solo lo svolgimento della suddetta attività di base, ma anche l'espletamento delle più complesse modalità di prestazione, alle quali la declaratoria contrattuale collega il superiore inquadramento (Cass. 11925/2003). Ma, più propriamente, deve riconoscersi che la disciplina normativa del settore specifico (non del datore di lavoro, come sembra opinare erroneamente il ricorrente) prevedeva, nell'ambito della categoria degli esperti l'inquadramento nei diversi livelli in funzione della professionalità posseduta in precedenza, e dunque un'equivalenza o fungibilità di mansioni (cosiddetta mobilità verticale della categoria); in detta ipotesi, il lavoratore appartenente a tale categoria non ha diritto, a norma dell'art. 2103 c.c., al conferimento di un grado superiore per il fatto di essere stato assegnato a mansioni normalmente affidate a personale investito di tale grado, perchè, se al grado non sono collegate specifiche mansioni, non è possibile da queste risalire a quello, restando esclusa la possibilità di presupporre che il contemplare diversi livelli comporti necessariamente il collegamento di specifiche mansioni a ciascuno di essi (vedi Cass. 570/1989).
12.2. Nelle argomentazioni svolte a sostegno dei motivi di ricorso sulla questione, si contesta la conformità a legge di un simile assetto dei rapporti di lavori, ma senza fondamento. L'art. 2103 c.c., ai fini della cd. promozione automatica" presuppone che possano configurarsi, sulla base delle regole del rapporto, normative o contrattuali, mansioni superiori rispetto a quelle per le quali il lavoratore è stato assunto, il che, come si è osservato sopra, deve escludersi nel caso di specie. Sotto altro profilo, una regolamentazione che contempli una retribuzione differenziata per mansioni uguali, in funzione dell'attribuzione di diversi livelli di inquadramento ai soli fini retributivi, non si pone in contrasto con disposizioni inderogabili dell'ordinamento e principi costituzionali.
Nel rapporto di lavoro subordinato di diritto privato, infatti, non opera il principio della parità di trattamento, nè è possibile alcun controllo di ragionevolezza da parte del giudice sugli atti, di autonomia collettiva e individuale, o, come nella specie, normativa, allorchè la diversità di trattamento non ricada in alcuna delle ipotesi legali (e tipizzate) di discriminazione vietate (Cass., s.u., 4570/1996). Nè il principio è derogato nel rapporto di lavoro pubblico, atteso che l'obbligo di parità di trattamento a carico dell'amministrazione è posto in relazione all'applicazione, dei trattamenti previsti dalla contrattazione collettiva, cui non si può derogare con trattamenti individuali di maggior favore. Più in particolare, nè l'art. 36 Cost., che si limita a porre il principio della retribuzione sufficiente e proporzionata all'attività svolta, nè l'art. 41 Cost., che afferma la libertà dell'iniziativa economica privata nei limiti posti dalla legge a tutela della sicurezza, della libertà e della dignità umana, nè l'art. 3 Cost., pongono un principio di comparazione intersoggettiva, in base al quale ai lavoratori dipendenti svolgenti identiche mansioni debba attribuirsi la stessa retribuzione o il medesimo inquadramento (Cass. s.u. 6030/1993).
13. Il ricorrente incidentale chiede la cassazione della decisione di rigetto della domanda di pagamento delle differenze retributive derivanti dall'allineamento del compenso iniziale e dei successivi adeguamenti a quella dei funzionali Cee addetti al fondo europeo dello sviluppo, come stabilito dalla legge n. 49 del 1987.
In sostanza, si afferma che la legge avrebbe inteso equiparare il trattamento retributivo degli esperti a quello dei funzionali Cee e che non sarebbe conforme a tale regola il decreto interministeriale 27 luglio 1987 e gli atti recanti i successivi adeguamenti; che la sentenza non avrebbe tenuto conto che i compensi netti, determinati dalla normativa fiscale e previdenziale italiana, comportavano uno scostamento notevolissimo dalle retribuzioni del funzionario europeo;
che erroneamente aveva ritenuto non inerente al tema controverso il secondo adeguamento retributivo, praticato con effetti dal 27 luglio 1995. 13.1. Anche questo motivo va rigettato.
La fonte legislativa si è chiaramente espressa nel senso che la determinazione del trattamento economico era rimessa alla successiva sede regolamentare (decreto del Ministro degli affari esteri, di concerto con il Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione economica e con il Ministro della funzione pubblica, previo parere del Comitato direzionale di cui all'articolo 9).
La legge si è, quindi, limitata a fissare i principi e criteri direttivi per l'esercizio del potere regolamentare (di tipo attuativo), stabilendo che si sarebbe dovuto tenere conto dei criteri e dei parametri osservati al riguardo dal Fondo europeo dello sviluppo della Comunità economica europea, nonchè dell'esperienza professionale di cui il personale interessato sarà in possesso al momento della stipula del contratto. La pretesa di ricevere lo stesso trattamento economico dei funzionari comunitari non ha, quindi, alcun fondamento giuridico.
13.2. L'asserita non conformità a legge dell'art. 7 del regolamento interministeriale 27 luglio 1987, nonchè dell'atto di adeguamento del 1991, a cagione della divaricazione da quello dei funzionari comunitari, è priva di rilevanza (con assorbimento della denuncia di omesso esame di altre questioni), siccome non potrebbe giovare al ricorrente la constatazione dell'illegittimità degli atti amministrativi che hanno determinato la retribuzione.
Si è già detto che la legge ha rimesso alla sede regolamentare, limitandosi a dettare criteri di massima per l'attuazione delle sue disposizioni, la disciplina concreta dei rapporti di lavoro, compreso il trattamento economico. Il regolamento, a sua volta, ha previsto un adeguamento quadriennale mediante atti amministrativi.
Non si tratta, quindi, di un potere spettante all'amministrazione come datrice di lavoro, e dunque di un potere privato, ma di poteri pubblici (normativi e amministrativi) diretti a conformare il rapporto di lavoro di diritto privato. Orbene, nel nostro sistema di tutela giurisdizionale, solo l'impugnazione dinanzi al giudice amministrativo, a tutela di interesse legittimo, potrebbe comportare, mediante l'annullamento dell'atto e il conseguente obbligo di conformarsi al giudicato, il risultato di un nuovo esercizio del potere in senso favorevole agli interessi sostanziale della parte privata. Ma il giudice ordinario, a tutela del diritto soggettivo nascente dal contratto, ha solo il potere di disapplicare l'atto con regime di diritto amministrativo che il contratto stesso conforma, considerandolo tamquam non esset ai soli fini della decisione controversia (ovvero, secondo una diversa opinione, di individuare nella legge e non nel regolamento che se ne discosti, la regola di giudizio applicabile).
Ne discende che, ove si ritenesse non conforme a legge la determinazione della retribuzione fatta in via amministrativa, dovendosi escludere la fondatezza della tesi della ricorrente secondo cui la stessa legge l. 49/1987 conterebbe la determinazione del quantum debeatur, non resterebbe per il giudice altra via che stabilire la retribuzione adeguata alla quantità e qualità di lavoro ai sensi dell'art. 36 Cost..
Nessun elemento introdotto nella causa induce però a ritenere che la retribuzione di fatto attribuita sia ritenuta in contrasto con il precetto costituzionale, senza contare che il parametro utilizzabile (nell'impossibilità di riferirsi a una legge inapplicabile senza il regolamento di attuazione) sarebbe costituito proprio dal trattamento retribuivo dei dipendenti statali, parametro che la ricorrente contesta possa in qualche modo concorrere a dare attuazione alla previsione dell'art. 12, comma 4, l. 49/1987. 14. Il ricorso incidentale chiede la cassazione della statuizione di rigetto della domanda diretta all'attribuzione della retribuzione prevista per 1^ livello, perchè in possesso di esperienza professionale sufficiente per tale inquadramento, ovvero di una retribuzione superiore a quella prevista per il 2^ livello, in proporzione della maggiore esperienza posseduta rispetto a quella minima richiesta per l'inquadramento in detto 2^ livello.
Si sostiene la non conformità alla legge e l'irragionevolezza delle disposizioni del decreto interministeriale emanato ai sensi dell'art. 12, comma 4, l. 49/1987, nella parte in cui aveva indicato le esperienze professionali valutabili, il numero minimo di anni di esperienza necessario per i diversi inquadramenti nei livelli, omesso di riconoscere rilevanza ai tini del trattamento economico all'effettiva esperienza posseduta al tempo di stipulazione del contratto (come prescritto dalla norma).
14.1. Anche queste censure sono prive di fondamento.
Si rinvia, da una parte, alle considerazioni già svolte e, in particolare, al fatto che il giudice non può trovare le regole del rapporto di lavoro in una legge che ne rinvia l'emanazione a un regolamento di attuazione (la nozione di "esperienza professionale" è tutta da precisare nei contenuti concreti); dall'altra, che dall'eventuale illegittimità del regolamento, deriverebbe l'impossibilità di ritenere operative le regole dettate dall'atto normativo, ma non certo il potere del giudice di sostituirle con le diverse regole favorevoli alla ricorrente.
15. Il ricorso incidentale domanda la cassazione delle statuizioni di rigetto di svariate pretese di ordine patrimoniale, ma le censure risultano tutte prive di fondamento, o perchè contestano, inammissibilmente, accertamenti di fatto o perchè sostengono tesi destituite di fondamento giuridico:
a) è stato accertato nel giudizio di merito che non era stato pattuito in orario di lavoro per gli esperti di 2^ livello, equiparati a personale direttivo o dirigenziale, nè vi erano elementi per ritenere che l'impegno lavorativo avesse oltrepassato i limiti della ragionevolezza, cosicchè non può dubitarsi della correttezza della decisione di rigetto della pretesa a compensi a titolo di lavoro straordinario;
b) sulla pretesa concernente il mancato guadagno che sarebbe derivato dalla partecipazione alle missioni in Eritrea o in Etiopia, il giudice del merito ha escluso che operassero vincoli al potere discrezionale di scelta dell'amministrazione, nè risultavano violati i criteri di correttezza e buona fede nella procedura di acquisizione degli elementi utili di valutazione, essendo rimasta senza riscontri oggettivi l'affermazione del (omissis), secondo cui le vere ragioni di esclusione sarebbero state diverse da quelle formalmente espresse;
c) il rigetto della pretesa al risarcimento per mancate missioni- progetto e straordinarie brevi è fondata sull'assorbente considerazione della mancanza di prova del nesso causale tra riduzione dei carichi di lavoro e mancata attribuzione di un certo numero di missioni;
d) il rigetto della domanda di rimborso delle quote annue di iscrizione all'albo professionale degli ingegneri risulta correttamente motivato con l'assenza di uno specifico titolo, legale o negoziale, in assenza del quale opera l'estraneità dell'amministrazione al rapporto contributivo iscritto-ordine, restando irrilevante che l'iscrizione fosse necessaria per l'espletamento dell'attività lavorativa:
e) il rigetto delle pretese relative a interessi legali e rivalutazione monetaria trova fondamento nel rilievo che non erano state impugnate le statuizioni del primo giudice circa le conseguenze dell'adempimento tardivo di alcuni crediti retributivi, nè, come pretende il ricorrente, i criteri di determinazione degli accessori assunti dal primo giudice ai fini della liquidazione di alcuni crediti erano vincolanti per crediti diversi, non estendendosi certamente a questi ultimi il vincolo del giudicato interno relativo ai primi; quanto alla pretesa violazione dell'art. 1283 c.c., per aver omesso la sentenza di condannare l'amministrazione al pagamento degli interessi sugli interessi dalla data della domanda giudiziale, va rilevato che nel caso di specie sono state liquidate esclusivamente obbligazioni di valore e non di valuta (crediti risarcitori), con la conseguente inapplicabilità sia delle regole dettate per i crediti retributivi dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni (art. 22, comma 36, l. n. 724 del 1994), sia di quelle dettate per le obbligazioni pecuniarie, tra le quali resta compreso l'art. 1283 cod. civ..
16. La sentenza impugnata, infine, ha preso in esame una serie di argomentazioni e domande formulate dal (omissis) in ordine alle quali ha rilevato o l'assorbimento derivante da altre statuizioni, o la genericità, tale da non consentire neppure l'individuazione dell'interesse. Le censure mosse al riguardo dal ricorrente incidentale sono tutte destituite di fondamento:
a) non si precisa all'accoglimento di quali pretese sarebbe funzionale l'accertamento che le modifiche contrattuali introdotte dalla delibera 22.4.1992 dovevano ritenersi operative limitatamente alle parti migliorative della precedente regolamentazione;
b) imprecisato anche l'interesse alla declaratoria della correlazione tra compiti lavorativi e iscrizione all'albo professionale, stante comunque l'accoglimento della domanda relativa al demansionamento;
c) altre pretese presuppongono raccoglimento della domanda della persistenza del rapporto del lavoro, che invece è stata respinta:
accertamento di quali incarichi siano confacenti alla professionalità del (omissis); versamenti contributivi, mentre nessuna somma è stata riconosciuta spettare al ricorrente a titolo di retribuzione;
d) altre questioni sono assorbite in altre statuizioni; natura disciplinare di alcune contestazioni dell'amministrazione; omessa considerazione di danni futuri; riserva di agire in futuri giudizi e precisazioni sulle somme richieste; richiesta di condanna generica in relazione a ulteriori pretese patrimoniali. e) vi sono poi censure inammissibili in quanto lamentano errori del procedimento e, in particolare, il non accoglimento di istanze istruttorie, senza che ne risulti la correlazione con statuizioni determinate.
17. Conclusivamente, vanno rigettati sia il ricorso principale, sia il ricorso incidentale.
In ordine alla regolazione delle spese del giudizio di Cassazione, la Corte ritiene la sussistenza di giusti motivi, in considerazione dell'esito della lite, per compensarle interamente.

P.Q.M.

La Corte, pronunciando sui ricorsi riuniti, rigetta il ricorso principale e il ricorso incidentale; compensa interamente le spese del giudizio di Cassazione.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Lavoro, il 6 aprile 2005.
Depositato in Cancelleria il 24 maggio 2005

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