fonte: Ficiesse
QUATTRO FINANZIERI SI SUICIDANO IN POCO PIU’ DI UN MESE. INTERVISTA AD UN IMPORTANTE DOCENTE DI PSICOLOGIA PRESSO LA POLIZIA U.S.A. SU COME VIENE AFFRONTATO IL FENOMENO IN QUEL PAESE E QUALI POSSIBILI RIMEDI - di Pasquale Striano
lunedì 07 aprile 2014
17 febbraio 2014: FINANZIERE SI SUICIDA CON UN COLPO DI PISTOLA ERA IN CRISI DEPRESSIVA (La Repubblica).
08 marzo 2014: SUICIDIO DI UN APPARTENENTE ALLA GDF A BARI (forum ficiesse – suicidi in Gdf.).
28 marzo 2014: GIOVANE FINANZIERE SUICIDA NELLA CASERMA DI CHIVASSO (Ansa).
31 marzo 2014: FINANZIERE SI SPARA IN RIVA AL TICINO (La Provincia Pavese).
http://www.ficiesse.it/home-page/8279/finanziere-si-suicida-con-un-colpo-di-pistola-era-in-crisi-depressiva-_la-repubblica_
http://www.ficiesse.it/f_messaggi.php?id_topic=3956&&page=169
http://www.ficiesse.it/home-page/8429/giovane-finanziere-suicida-nella-caserma-di-chivasso---spending-review_-alfano-taglia-le-scorte_-silp-cgil_-ragionare-su-unificazione-polizie---obama_-in-3_200-operatori-forze-polizia-per-sua-sicurezza
http://www.ficiesse.it/home-page/8439/finanziere-si-spara-in-riva-al-ticino-_la-provincia-pavese_
Parlare oggi di suicidi non è casuale,
nasce dalle innumerevoli discussioni che si affrontano ogni qualvolta
si legge (o direttamente si assiste) alla morte di un appartenente alle
forze di polizia, soprattutto se avviene per sua mano, senza riuscire a
darsi una spiegazione al riguardo.
Già nel lontano fine 1800, il
sociologo Durkheim, individuò nel livello di coesione fra individui e
società, la causa predominante di produzione della perdita di stabilità,
meglio denominata anomia, cioè mancanza di norme in grado di provocare
nei singoli individui sentimenti d’angoscia e insoddisfazione.
La mancanza di integrazione fra gli
individui nella società, secondo lo studioso francese, era una delle
cause fondamentali del suicidio, non più mero fatto individuale ma vero e
proprio fatto sociale.
L’interazione fra l’uomo e l’ambiente
in cui esso vive, può determinare talvolta la causa che induce un
soggetto a compiere l’atto estremo per antonomasia, cioè togliersi la
vita, contravvenendo a qualsiasi regola materiale, morale e/o
spirituale.
Le cause concatenate a malattie
fisiche o psichiche, a perdite economiche, problemi lavorativi, rottura
di rapporti sentimentali o legate alle diverse combinazioni fra questi
fattori, sono capaci di minare la stima che un soggetto ha in sé,
producendo inevitabilmente la percezione di qualcosa di irreparabile e
che in soggetti predisposti e in determinate situazioni favoriscono
l’atto suicidario.
In Italia un passo avanti rispetto a
qualche anno fa c’è stato. E mi riferisco al fenomeno dei suicidi
nell’ambito delle FF. PP.. Regole scritte e una figura professionale
quale quella dello psicologo, magari scelto con un concorso interno,
sono sicuramente proficui alla prevenzione. Ma la strada è ancora
terribilmente in salita, almeno se consideriamo che l’operatore di
polizia, investito da svariati problemi, è ancora visto come un malato
da mettere da parte e, nello stesso tempo, la struttura di polizia di
cui fa parte, sembra ancora troppo rigida nell’attuazione di tutte
quelle procedure che contemplano la gestione della situazione a rischio
che coinvolge il soggetto in difficoltà; poca conoscenza del fenomeno,
poca concretezza delle disposizioni impartite in circolari interne che
sembrano essere state emanate solo per garantire una c.d. messa a posto
della propria coscienza, mancanza di adeguata sensibilizzazione del
personale con il quale chi svolge un lavoro di polizia si trova per
forza di cose a condividere gran parte del suo tempo, ruolo dello
psicologo talvolta poco attento alle implicazioni che derivano dal
lavoro che il soggetto svolge ma più preoccupato a dare risposte ad una
gerarchia che tende a minimizzare la problematica.
Mancano, cioè, tutti quelli accorgimenti che gli americani racchiudono nella locuzione officer friendly, di cui si dirà.
Il proposito di sapere come viene
affrontato il fenomeno altrove, in particolare negli USA, dove gli studi
del settore sono più avanzati, ci ha indotti ad intervistare autorevoli
psicologi che da decenni seguono il lavoro delle più svariate agenzie
di polizia del variegato territorio americano.
A partire dal dott. Gerald SERAFINO,
ultra sessantenne docente di psicologia nello Stato del New Messico,
Presidente della Società per la polizia e psicologia criminale (SPCP),
il cui contributo scientifico fornitoci è altamente qualificante e ci
induce a porci una serie di domande, contribuendo nello stesso tempo,
alla conoscenza di una problematica che oramai non può più lasciarci
indifferenti.
D. Prof Serafino, questa
intervista tratta dei casi di suicidio di appartenenti alle forze di
polizia in Italia, volevamo un suo autorevole parere. Cosa dovrebbe fare
un Dipartimento di polizia per aiutare a prevenire depressioni,
ansietà, stress ed altri fattori che potrebbero contribuire ad
alimentare pensieri di suicidio in un poliziotto? Il suicidio in genere e
quello di un operatore di polizia in particolare, si puo’ prevenire?
R. La mia opinione è che si possano
prevenire parte dei suicidi sebbene non sia possibile prevenirli tutti.
Il vero problema da affrontare è quello di esaminare il ruolo dello
psicologo nell’ambito del lavoro di polizia, nonché, chiaramente,
valutare gli stessi poliziotti e tutto quello che ruota intorno al
proprio universo, sia lavorativo che strettamente personale.
Inizio subito con una serie di
risposte/domande provocatorie: sono stati attuati dei programmi
adeguati, politiche di prevenzione e procedure che contribuiscono a
creare un luogo di lavoro sano psicologicamente? Se un poliziotto inizia
un periodo di cura, questo può incidere ed influenzare nello stesso
tempo il suo lavoro? La cura è effettivamente efficace per il
poliziotto? E’confidenziale?
Questo è molto importante ed è da
affrontare nei suoi più svariati dettagli. Ma la mia risposta è che
molti suicidi in polizia possono essere evitati se ci sono programmi
adeguati.
Fondamentale considerare come gli
psicologi della vostra polizia e come la linea di comando nella propria
Agenzia di appartenenza dovrebbe comportarsi, individuando, in primis,
l’Ufficio (uno staff) in grado di aiutare a prevenire la depressione,
l'ansia, lo stress e altri fattori che potrebbero contribuire ad
alimentare pensieri che conducono al suicidio.
D. Se un poliziotto ha bisogno di assistenza psicologica, ci sono conseguenze per la sua occupazione e la carriera futura?
R. Questo dipende dalla riservatezza del
trattamento, dalla diagnosi da applicare e se il poliziotto presenta e
mostra sintomi che potrebbero esprimere pericolosità per sé e gli altri.
Nel caso di pericolosità, potrebbe essere un dovere mettere in guardia
la potenziale vittima proteggendola (collega/familiare) o un dovere ad
indurre il poliziotto ad un trattamento ospedaliero (o terapeutico)
obbligatorio per evitare che lo stesso si suicidi. Tuttavia è raro avere
un self control cioè essere in grado di cercare una giusta
cura che si concretizza nel bisogno di informazione, di consulto, capire
la strada giusta da percorrere, non essere costretti ad un ricovero
forzato.
D. Un poliziotto che chiede una vostra assistenza, può essere emarginato da parte dei suoi colleghi?
R. In America, la cultura della polizia è
cambiata drammaticamente dal 1974, ricordo da quando ho iniziato la mia
consulenza presso il Dipartimento di polizia della Pennsylvania. Allora i
poliziotti che volevano andare in consulto erano ritenuti dei deboli,
non in grado di gestire lo stress correlato al lavoro di polizia, o
instabili mentalmente e/o emotivamente. Quindi, se gli altri poliziotti o
supervisori conoscevano del problema che il collega stava
attraversando, essi potevano ostacolarlo, provando, per esempio, ad
evitare di lavorarci insieme.
Ho appurato che i poliziotti che
volontariamente ricercavano una cura non erano mai pericolosi per loro
stessi e per gli altri. Piuttosto, essi (uomini/donne) si mostravano
normali con i tipici problemi che molti giovani manifestano: problemi di
relazione, problemi con il proprio partners, difficoltà di
adattamento ai turni di lavoro, condizioni di stress associato alla loro
vita quotidiana, e altri e più svariati problemi. Quando la cura era
ricercata volontariamente ed in maniera strettamente confidenziale, i
poliziotti non mostravano problemi con chi li ostacolava. Difatti, nella
mia carriera, ho curato poliziotti con problemi di stress poi divenuti
comandanti e in due dei casi, capi del proprio Dipartimento senza essere
schiavi della propria carriera.
D. Il fenomeno dei suicidi tra
i poliziotti in America è trattato in modo riservato o è affrontato
parlandone apertamente, con competenza, tra i collaboratori?
R. Attualmente, in più parti negli USA, i
poliziotti possono ottenere trattamenti confidenziali senza essere
stigmatizzati o trattati con ostracismo. Generalmente c’è un vasto
accordo fra gli agenti federali, statali e i Dipartimenti di polizia
locali mettendo in condizione l’agente di scegliere in massima libertà,
con la massima confidenzialità ed in assenza di pericolosità. E’ mia
opinione che i Dipartimenti di polizia dovrebbero essere sempre in grado
di provvedere alla cura degli agenti che hanno problemi, formando
poliziotti e supervisori nel riconoscere e prevenire i fattori di
rischio, organizzando servizi consultivi per provare a sviluppare
psicologicamente ambienti di lavoro sani. Mi piacerebbe vedere che tutti
i Dipartimenti obbligano i poliziotti ad un vero e proprio dovere di
curare se stessi. Quindi, la cura dovrebbe essere in grado di incidere
proficuamente sul poliziotto che ne ha bisogno ed il programma
terapeutico deve essere gestito da un psicologo competente che capisca
cosa sia il lavoro in polizia.
D. Potrebbe spiegarci cosa indente circa la rilevanza della psicologia applicata al lavoro di polizia?
Certamente. E’ importante, è vitale per lo psicologo essere educato circa la cultura di polizia (police culture),
come quel Dipartimento funziona, l’essenzialità e la diversità della
funzione lavorativa sia del poliziotto che dei supervisori, le procedure
necessarie per gestire il lavoro e lo stress che quotidianamente
investe il poliziotto in servizio ed inevitabilmente, nella sua sfera
personale. Lo psicologo che lavora con la polizia deve essere disposto
ad imparare dal poliziotto e sentirsi come lo stesso, “cavalcando insieme”
allo stesso, osservandolo nel proprio lavoro, in grado di accettare
feedback e trasmettere le proprie competenze; lo psicologo deve essere
effettivo nel corpo di polizia per comprenderne cultura e compiti,
partendo dalla base e studiando l’intera catena di comando. Ho trascorso
molte ore con i poliziotti. Il capo mi chiedeva di indossare un
giubbotto antiproiettile ma di non interferire nelle funzioni della
polizia. I poliziotti sembravano abbastanza soddisfatti che io ero così
interessato ad imparare il loro lavoro prima che io ho provato ad
aiutare gli stessi. Credetemi, io ho imparato più dai poliziotti circa
il loro lavoro che quello che ho studiato all’università. Solo dopo che
io ho mostrato alla polizia quando avevo cura di loro, essi hanno voluto
sapere delle mie conoscenze.
D. Le sue opinioni sull’argomento sono generalmente accettate da altri suoi colleghi?
R. Buona domanda. Le opinioni che esprimo
qui, in questa intervista sono mie e si fondano su oltre 30 anni di
esperienza come psicologo, docente e consulente di oltre 30 agenzie di
polizia locali, statali e federali, Dipartimenti di polizia negli Stati
Uniti (e una volta anche in Italia, esattamente ad Orvieto, nel 2006).
Ho insegnato presso la New Mexico State Police Academy, la New Mexico
Law Enforcement Academy, la Federal Law Enforcement Training Center e
molti altri servizi. Ho valutato più di 1.000 ufficiali e candidati per
le agenzie di polizia e ho fatto la ricerca di follow-up in
combinazione con altri psicologi della polizia. Mentre ci saranno sempre
alcune differenze di opinione su come rendere questi servizi, vi è
accordo, direi universale, della necessità ed esigenza di riservatezza
per chi in maniera volontaria chiede aiuto.
Ci sono anche organizzazioni negli USA che
sono state utili al lavoro dello psicologo in polizia. La Società per
la polizia e psicologia criminale (SPCP), la Sezione di Psicologia della
International Association of Chiefs of Police (IACP), gli psicologi in
servizio pubblico della American Psychological Association (APA), e il
Consorzio di Polizia Servizi Psicologici (COPPS), sono alcune delle
organizzazioni che hanno aderito a questo servizio e che ho seguito
durante la mia carriera. Essi promulgano ricerca, pubblicano
orientamenti, educano gli psicologi, promuovono l'accesso ai servizi per
tutti i poliziotti.
D. Queste organizzazioni
parlano apertamente del fenomeno dei suicidi in polizia o esso può
ritenersi ancora un argomento tabù, da nascondere?
Fortunatamente le Agenzie di polizia sono
ora disposte a parlarne apertamente (come le agenzie militari
statunitensi stanno iniziando a fare), perché negare la sua esistenza o
minimizzare la frequenza del numero di suicidi, sarebbe disonesto e
controproducente. Noi tutti riconosciamo che il lavoro della polizia è
altamente stressante. Diversi studi stimano che tra il 7 e il 35% dei
poliziotti sperimentano e mostrano sintomi che potrebbero interferire
con le loro funzioni lavorative. Ho insegnato in corsi su come
riconoscere i sintomi sulla propria persona ed in chi hai vicino, una
sorta di alert. Questo è il motivo per cui è così importante
riconoscere il fenomeno dei suicidi in polizia, parlarne apertamente,
attuare un vero e proprio dovere di diligenza ed operosità in capo a chi
ha il potere di decidere.
I datori di lavoro nel settore privato
forniscono ai loro dipendenti la possibilità di essere formati al
riguardo, creando una sorta di dispositivi di sicurezza. I Dipartimenti
di polizia in USA sono cambiati nella loro mentalità e stanno ancora
cambiando in meglio. Ho partecipato ad incontri con i capi della polizia
e con diversi comandanti di uomini, e l’argomento suicidi fra
poliziotti è stato discusso apertamente, giungendo ad una seria
conclusione della necessità di attivare/implementare servizi riservati
di volontariato per prevenire concretamente i suicidi, con la
responsabilità in capo ai Dipartimenti di sviluppare politiche e
procedure che possono essere racchiuse nelle parole "officer-friendly", letteralmente poliziotto amico.
D. Potrebbe spiegare cosa intende per politiche e procedure definite "officer-friendly"?
R. Sì. Molti anni fa ho lavorato presso
una grande Agenzia di polizia che ha deciso, dopo il suicidio di alcuni
poliziotti, di sviluppare un programma di consulenza gratuita e
volontaria per i proprio personale. Tuttavia, le procedure richiedevano
che il poliziotto doveva chiedere prima al superiore diretto il permesso
di cercare consulenza. Poi il supervisore avrebbe notificato il tutto
al Comandante del Distretto, che a sua volta avrebbe quindi notificato
al vice Capo che avrebbe poi ottenuto l'approvazione finale da parte del
Capo! Quando mi hanno detto che questa era la procedura da seguire, mi
sono opposto giudicandola non sicura perché totalmente priva di
riservatezza per il poliziotto. Tutta la catena di comando sapeva del
problema, questa non è una procedura "officer-friendly". Molti
anni più tardi, questa procedura è stata rivista, dopo le ennesime morti
per propria mano. Tale procedura, in buona sostanza, dovrebbe includere
una presa di coscienza da parte di chi chiede aiuto, ma nello stesso
tempo, rispetto attraverso la confidenzialità del servizio da fornire e
non essere inteso come un pericolo per se stesso e per gli altri.
D. Ci sono casi dove i poliziotti con problemi non sono disposti ad avere un trattamento volontario?
R. In questi casi potrebbe essere necessario per il Dipartimento richiedere un Fitness For Duty
(FFD), cioè un dovere di avere cura di se stesso su base obbligatoria.
Questo di solito dopo che il poliziotto ha dimostrato di essere
pericoloso o di non essere in grado di attuare, nel suo lavoro, i suoi
compiti essenziali. Cioè, una inabilità ad avere buone performance
nel proprio lavoro. Per questo un trattamento obbligatorio del tipo
FFD, potrebbe rendersi necessario e, per questo, lo psicologo deve
essere pienamente informato circa le ragioni per un suo deferimento,
valutare effettivamente le performance del poliziotto prima che i
problemi iniziano, la frequenza e gli effetti dei suoi comportamenti. In
aggiunta all’intervista ed a dei test da somministrare, lo psicologo
deve essere in grado di parlare ai collaboratori, ai supervisori e ai
membri della propria famiglia (se indicati), e avere accesso pienamente
ai file personali. Lo psicologo deve anche avere bisogno di consultare
l’eventuale cartella medica o colloquiare con il dottore che lo tiene in
cura (se necessario). Naturalmente, il poliziotto deve essere
pienamente informato della valutazione che l’amico psicologo fornirà e dei limiti della confidenzialità del trattamento (tenuto conto che una sorta di report
dovrà ritornare al Dipartimento). Il poliziotto che chiede aiuto deve
comprendere che le informazioni sul proprio stato di salute, potrebbero
essere rilevanti per un programma di valutazione FFD in ordine al fatto
che lo psicologo possa rendere una fedele opinione basata non sul
sentito dire, come spesso accade.
La mia opinione è che un report finale dovrebbe indicare:
a) se il poliziotto è
psicologicamente idoneo per ritornare full time o part time ai suoi
compiti quotidiani o se addirittura ha bisogno di cambiare compito;
b) se continuare a prestare servizio potrebbe aiutare il poliziotto;
c) quali circostanze dovrebbero essere necessarie per far si che il poliziotto ritorni alla sua quotidianità.
Occorre che il report riporti tutte le
informazioni rilevanti ma non di carattere personale o private non
specificatamente rilevanti per questioni di idoneità al servizio.
Queste, per converso, potrebbero creare pregiudizi che sarebbero ancora
più devastanti per il poliziotto.
La IACP ha pubblicato una linea guida per
aiutare psicologi ed appartenenti alla polizia per implementare in
meglio questo tipo di valutazione.
D. Pensa che tutti i poliziotti dovrebbero essere regolarmente esaminati da uno psicologo?
R. No, non ho mai sostenuto questa tesi,
cioè sottoporre periodicamente il poliziotto ad uno screening
preventivo, per un numero svariato di ragioni: la mia opinione è che è
meglio limitare le risorse nel più efficiente dei modi. Se possiamo
prevenire i problemi attraverso la formazione, meglio così. Se noi
possiamo risolvere i problemi fornendo liberamente competenza, ascolti
confidenziali, lasciamo che le cose vadano così, ma non guardiamo a
problemi che potrebbero non esserci. Anche se il poliziotto vede lo
psicologo ogni anno per uno screening test o per una intervista, essi
potrebbero divenire cavie e sarebbero in grado di imparare come
nascondere i loro problemi davanti allo psicologo. Alla fine, un
regolare screening potrebbe portare il poliziotto ed il Dipartimento a
risentirsi invece di apprezzare la disponibilità dei servizi offerti
dallo psicologo.
D. I cinque Corpi di
polizia presenti in Italia hanno avuto negli ultimi anni, continui
episodi di suicidio. In quest’ultimo periodo, nel Corpo della Guardia di
Finanza ben quattro colleghi si sono tolti la vita. Cosa suggerirebbe
al nostro Paese per affrontare questo triste fenomeno?
R. A mio parere, il primo passo sarebbe
quello di iniziare da una valutazione globale iniziando ad indagare su
ciò che attualmente viene fatto nel reclutamento, nella selezione, nella
somministrazione dei test iniziali, poi a seguire la formazione,
guardando la supervisione ed un follow-up dei poliziotti in servizio. In
secondo luogo, le politiche e le procedure attuali devono essere
esaminate: hanno facilitato o inibiscono il poliziotto che cerca
volontariamente un aiuto? Sono i supervisori sufficientemente addestrati
a riconoscere i problemi legati al lavoro di poliziotto? Le procedure
sono scritte o non coerenti per la gestione di queste situazioni? Sono i
poliziotti timorosi della loro gerarchia, vista come un pericolo,
quindi un ostacolo? In terzo luogo, il requisito che gli psicologi,
medici o altri che hanno l’obbligo di segnalare il poliziotto che cerca
un trattamento (pericolosità assente) deve essere eliminato. Poliziotti
che si sentono in pericolo perché assorti nei loro problemi devono
sapere che possono cercare un trattamento confidenziale, e solo un certo
grado di pericolosità (per sé o per gli altri) deve costituire l’unico
criterio che autorizza il medico a rompere la riservatezza. Questa è la
cosa più semplice e veloce da fare, anche con l'accordo dei vostri
vertici dei rispettivi Corpi di polizia, tutti riconoscendo l'importanza
della riservatezza per il poliziotto che volontariamente cerca cura. Il
trattamento può essere in grado di prevenire il suicidio e nello stesso
tempo rendere meglio sul lavoro.
D. C'è qualcos'altro che vorreste condividere con noi?
R. Non sono sicuro che la mia esperienza,
formazione e risposte su quest’argomento possono essere così efficaci
per la vostra polizia e corpi militari. Ho trascorso un po’ di tempo nel
vostro paese, ed altri miei colleghi come te, Dr. Riccardo Fenici, Dr.
Maila Venturi, Dr. Donatella Brisinda, e molti altri possono avere la
loro opinione circa questo argomento, ma condividono la tesi di fondo
che le norme scritte sono importanti per definire le regole da seguire
ma occorrono i fatti che nel caso specifico si concretizzano nella
riservatezza dei casi da trattare, nella sensibilizzazione di tutto il
personale di polizia, in grado di allettarsi per prevenire l’atto
estremo. Capitolo a parte è il ruolo dello psicologo che deve
necessariamente essere uno che vive nell’ambiente di polizia,
acquisendone cultura ed emozioni. Questi sono i giusti ingredienti per
fronteggiare un male che oltre a seminare morte, riduce le nostre
coscienze a pezzi, interrogandosi su quello che si poteva fare e
continua a non essere fatto. Inoltre, ho incontrato un numero di undercover in una conferenza tenutasi in Orvieto nel 2006, altri poliziotti a Roma nella SPCP conference
nel 2004, ed ho continuato a mantenere relazioni con poliziotti in
Italia. Fra queste persone c’è un universale consenso che l’obbligo di
una segnalazione obbligatoria di agenti in cerca di consulenza deve
essere rimosso. Grazie, Pasquale, per questa opportunità condividendo
con te i miei pensieri ed alcune delle mie esperienze circa questo
problema. Se tu hai altre future domande prego sentiti libero di
contattarmi in ogni tempo.
Intervista a cura di Pasquale Striano*
*direttivo Sezione Ficiesse Roma-Anagnina
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