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Mobbing nella PA : Tar Bari, I ,n. 1571/07, Pres. Allegretta- Est. Inastasi
REPUBBLICA ITALIANA
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N. 1571
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IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
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Reg. Sent. 2007
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IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE PER LA PUGLIA
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N. 366
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Sede di Bari - Sezione Prima
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Reg. Ric. 2005
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ha pronunciato la seguente
S E N T E N Z A
sul
ricorso n. 366 del 2005, proposto dalla dott.ssa *** .. rappresentata e
difesa dall’avv. Emma Leone e dall’avv. Pietro Moschetti, con domicilio
eletto presso lo studio della prima, in Bari, via Abate Gimma, n. 198;
C O N T R O
il
Ministero dell’Interno, in persona del Ministro in carica; il Questore
di .., dott. ...*; il Capo di Gabinetto presso la Questura di .., dott.
.. il I Dirigente del Commissariato di P.S. dott. *** ...; il dott.
*** ed il dott. ..... ***; tutti rappresentati e difesi dall'Avvocatura
Distrettuale dello Stato di Bari, presso i cui uffici, in Bari, via
Melo, n. 97, domiciliano ex lege;
per il risarcimento
dei danni patrimoniali e morali, del danno biologico e del danno esistenziale.
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visti gli atti tutti della causa;
Relatore il Consigliere Concetta Anastasi;
Uditi alla pubblica udienza del 21 marzo 2007 gli avvocati presenti, come da relativo verbale di udienza;
Ritenuto in fatto e in diritto quanto segue:
FATTO
omissis
DIRITTO
1.
La ricorrente assume nell’atto introduttivo del giudizio che una serie
di comportamenti discriminatori e vessatori dettagliatamente indicati,
attuati dall'Amministrazione nei suoi confronti, avrebbero determinato
nella sua sfera giuridica danni di natura patrimoniale, biologica,
morale ed esistenziale, per i quali chiede un risarcimento, sembrerebbe
sia a titolo di responsabilità contrattuale che extracontrattuale.
Alla
stregua di siffatta rappresentazione dei fatti di causa, il Collegio
ritiene preliminarmente che l’introdotta domanda, concernente il
risarcimento del danno per l’ingiusto ed arbitrario comportamento
costantemente osservato dall’Amministrazione nei confronti dell’istante e
pertanto, sussumibile nell’odierna definizione di “mobbing”, rientri
nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
Sotto
questo preliminare profilo, è sufficiente precisare che, in virtù
dell'art. 68 del Decreto Legislativo 3.2.1993 n. 29 (modificato
dall’art. 29 del Decreto Legislativo 31.2.1998 n. 80), “restano devolute
alla giurisdizione del giudice amministrativo le … controversie
relative ai rapporti di lavoro di cui all'articolo 2, commi 4 e 5” (tra
le quali vi sono quelle che riguardano il personale della Polizia di
Stato), “ivi comprese quelle attinenti ai diritti patrimoniali connessi”
(conf.: T.A.R. Veneto, Sez. I, 8 gennaio 2004, n. 2; Consiglio di
Stato, Sez. V, 9.10.2002 n. 5414).
2.
Con particolare riferimento alla dinamica dei rapporti di lavoro, per
“mobbing” si intende una serie reiterata di comportamenti vessatori e
prevaricatori posti in essere o dal datore di lavoro (cosiddetto
“mobbing verticale”) o dai colleghi e, comunque, tollerati dal datore di
lavoro (cosiddetto “mobbing orizzontale”), aventi la finalità di
emarginare il lavoratore, pubblico o privato e, in definitiva, di
estrometterlo dalla struttura organizzativa dell'impresa o dell'ente.
Il
fenomeno non ha ancora ricevuto, nel nostro ordinamento giuridico, una
piena tipizzazione normativa di rango legislativo primario, nonostante
varie iniziative avviate al riguardo.
La
sua configurabilità è stata recentemente sancita anche dalla Corte
Costituzionale (cfr. Corte Cost.: 27 gennaio 2006 n. 22; 22.6.2006 n.
238 e n.239; 19.12.2003 n. 359) che ha evidenziato (particolarmente con
la sentenza 359/2003) come la figura risulti conosciuta sia in atti
interni statali (cfr.: punto 4.9 DPR 22/5/2003, con il quale è stato
approvato il piano sanitario nazionale 2003-2005; punto BS11 delibera
22/5/2003, contenente l'accordo tra il Ministero della salute, le
Regioni e le province autonome, etc.), che in atti comunitari (cfr.
Risoluzione Parlamento Europeo AS-0283/01 del 21/9/2000 al punto 13).
Per
la Corte Costituzionale, dunque, "la disciplina del mobbing, valutata
nella sua complessità e sotto il profilo della regolazione degli effetti
sul rapporto di lavoro, rientra nell'ordinamento civile (articolo 117
comma 2 Cost.) e, comunque, non può non mirare a salvaguardare sul luogo
di lavoro la dignità ed i diritti fondamentali del lavoratore (artt. 2 e
3 Cost.)" (Corte Costituzionale, sentenza n. 359/2003).
Una
definizione di “mobbing”, suscettibile di poter assumere una portata di
principio generale, è contenuta nel contratto collettivo nazionale di
lavoro delle regioni e degli enti locali, dove si precisa che trattasi
di una "forma di violenza morale o psichica in occasione di lavoro,
attuata dal datore di lavoro o da altri dipendenti, nei confronti di un
lavoratore. Esso è caratterizzato da una serie di atti, atteggiamenti o
comportamenti, diversi e ripetuti nel tempo in modo sistematico ed
abituale, aventi connotazioni aggressive, denigratorie e vessatorie,
tali da comportare un degrado delle condizioni di lavoro e idonei a
compromettere la salute o la professionalità o la dignità del lavoratore
stesso nell'ambito dell'ufficio di appartenenza o, addirittura, tali da
escluderlo dal contesto lavorativo di riferimento".
Successivamente,
il “mobbing” è stato normato anche dall'art. 6 CCNL comparto ministeri
del 28/2/2003; dalla direttiva della Presidenza del Consiglio -
Dipartimento Funzione Pubblica 24/3/2004; nonché da leggi regionali
quali quelle delle regioni Abruzzo 11/8/2004 n. 26, Umbria 28/2/2005 n.
18, Friuli Venezia Giulia 8/4/2005 n. 7, tutte ritenute non illegittime,
rispettivamente, dalle precitate sentenze della Corte Costituzionale 27
gennaio 2006 n. 22; 22.6.2006 nn. 238 e 239.
La
figura è stata poi pacificamente recepita dalla Corte di Cassazione,
che ha chiarito come il “mobbing” si riferisca ad ogni ipotesi di
pratiche vessatorie e persecutorie, sistematiche e protratte nel tempo,
poste in essere con comportamenti materiali o provvedimentali da uno o
più soggetti, per danneggiare in modo sistematico un lavoratore nel suo
ambiente di lavoro, finalizzate all'emarginazione del dipendente (Cass.
Sez. Un. 4.5.2004 n. 8438; Cass. Lav. 6 marzo 2006 n. 4774; Cass. Lav.
23 marzo 2005 n. 6326; Cass. Lav. 29 settembre 2005 n. 19053).
Risponde
del “mobbing”, in aggiunta all'autore materiale del fatto per
responsabilità extracontrattuale, anche contrattualmente il datore di
lavoro ex art. 2087 c.c., per violazione del dovere di tutelare la
personalità morale del prestatore di lavoro (Cass. Lav. n. 4774/2006,
Cass. Lav. n. 8438/2004, Cass. Lav. n. 15749/2002), anche nel caso in
cui le condotte siano state poste in essere da colleghi di pari grado
della vittima e siano state meramente tollerate dal datore di lavoro
(“mobbing orizzontale”), in quanto quel che rileva unicamente è che il
datore sapesse o potesse sapere quanto accadeva (Cass. Lav. n. 23 marzo
2005 n. 6326).
Va
precisato che, nonostante alcuni riferimenti dell'istituto si
rinvengano anche in atti regolamentari statali, tuttavia, la disciplina
dell'istituto viene desunta dalle categorie dogmatiche di carattere
generale, specie sul piano della tutela giurisdizionale accordata ai
soggetti destinatari delle attività vessatorie e persecutorie
conseguenti al “mobbing”.
In
proposito, ai fini della caratterizzazione della natura della
responsabilità indotta dall'attività “mobizzante”, rilevano sotto il
profilo civilistico, gli artt. 2043 c.c. (responsabilità
extracontrattuale), 2087 c.c. (tutela delle condizioni di lavoro) e 2103
c.c. (divieto di dequalificazione professionale) e si contendono il
campo due opzioni interpretative variamente concludenti nel senso della
responsabilità aquiliana ovvero contrattuale, con conseguenti riflessi
sostanziali sull'onere della prova.
Sullo
specifico tema della responsabilità, possono, comunque, concorrere sia
la responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c. che la responsabilità
contrattale ex art. 2087 c.c., nella parte in cui obbliga il datore di
lavoro ad adottare tutte le cautele idonee a prevenire un pregiudizio
per l'integrità psico-fisica del prestatore di lavoro.
Conclusivamente,
alla luce di tutti i principi e le indicazioni rivenienti dagli atti
normativi e dalla giurisprudenza precitata, si può, in sintesi,
affermare che la condizione di “mobbing” presuppone i seguenti elementi:
a)
una pluralità di comportamenti e di azioni a carattere persecutorio
(illeciti o anche leciti, se isolatamente considerati), sistematicamente
e durevolmente diretti contro il dipendente;
b) un evento dannoso;
c) il nesso di causalità tra la condotta e il danno;
d) la prova dell'elemento soggettivo.
Invero,
al fine di accreditare un’ipotesi di “mobbing”, non è sufficiente
dimostrare che l’interessato sia stato destinatario di mutamenti delle
mansioni assegnate, di richiami, di sanzioni disciplinari nonché di
altri fatti soggettivamente avvertiti come ingiusti e dannosi, ma
occorre che tali fatti, oltre ad essere stati ripetuti per un
apprezzabile lasso di tempo, siano anche legati da un preciso intento
del datore di lavoro, inteso a vessare e perseguitare il dipendente, al
mero scopo di demolirne la personalità e la professionalità.
Ciò
va dimostrato in giudizio secondo l’ordinaria regola dell’onere della
prova, che governa la richiesta di accertamento dei diritti soggettivi,
non essendo sufficiente la mera soggettiva percezione da parte
dell’interessato, che abbia, su tale scorta, maturato un proprio
convincimento personale, quanto alla “congiura” ordita dal datore di
lavoro ai suoi danni.
4.
Orbene, nella specie, la valutazione complessiva delle doglianze svolte
dalla ricorrente, in esito all’esame degli atti prodotti in giudizio ed
alle repliche della difesa erariale, non consentono di individuare in
modo certo ed univoco la sussistenza di tutti gli elementi sintomatici
riconducibili al fenomeno di “mobbing”, non risultando pienamente
dimostrati né quella imprescindibile pluralità di comportamenti ed
azioni a carattere persecutorio in danno dell’istante, né il nesso di
causalità tra tali ipotetiche condotte e l’evento dannoso prospettato.
Seppure
possa convenirsi sul fatto che i molteplici episodi denunciati, possano
far emergere condizioni di obiettiva difficoltà, anche di relazione, in
cui è venuta a trovarsi la ricorrente nell’ambiente di lavoro, essi non
appaiono, tuttavia, inequivocabilmente suscettibili di poter essere
ricondotti ad un unitario e sistematico atteggiamento vessatorio e
preconcetto.
Del
resto, la Polizia di Stato è un’organizzazione di tipo fortemente
gerarchico, all’interno della quale il rapporto interpersonale tra i
vari appartenenti al Corpo è contrassegnato dalle rigide regole
dell’ordinamento di settore contenute nel D.P.R. 24.4.1982, n. 335
“Ordinamento del personale della Polizia di Stato che espleta funzioni
di polizia”, nel “regolamento di servizio” di cui al D.P.R. 28.10.1985,
n. 782 ed, infine, nel “regolamento di disciplina” di cui al D.P.R.
25.10.1981, n. 737.
Ed invero, è sotto questo peculiare aspetto che vanno anche letti ed interpretati i singoli fatti denunziati.
Anche
a voler ritenere, infatti, che il “mobbing” possa integrare un'ipotesi
di responsabilità contrattuale (Cfr. Cass. Civ. Sez. Lav., 23 marzo
2005, n. 6326) e che, di conseguenza, debba essere il datore di lavoro a
dimostrare di essere esente da colpa nell'inadempimento, è, però, certo
che il fatto illecito debba essere rigorosamente provato dalla parte
ricorrente, fornendo gli elementi da cui desumere che gli episodi in cui
si è stigmatizzata l'esecuzione del rapporto siano indici di un disegno
unitario.
In
effetti, il tratto strutturante della fattispecie all'esame, tale da
attrarre nell'area del “mobbing” comportamenti che, altrimenti,
rimarrebbero nell'ordinaria dinamica, ancorché conflittuale, dei
rapporti di lavoro, è la sussistenza di una condotta volutamente
prevaricatoria, volta ad emarginare o estromettere il lavoratore dalla
struttura organizzativa.
Non
devesi, infatti, trattare di mere posizioni divergenti e/o
conflittuali, fisiologiche allo svolgimento di un rapporto lavorativo,
ma di atteggiamenti offensivi caratterizzati da un unico disegno ai
danni del dipendente.
Nella
specie, la prospettazione dettagliata dei singoli comportamenti ed
atti, intesi a rivelare l'asserito intento persecutorio di
emarginazione, pur evidenziando elementi di conflittualità e di
obiettiva difficoltà, non consentono di ritenere pienamente dimostrato
un intento vessatorio dell’Amministrazione nei confronti della
ricorrente.
Non
sono, invero, significativi, ai fini della configurabilità in concreto
della fattispecie illecita, né il fatto che l’asserito demansionamento
della ricorrente sia perdurato nel tempo né il fatto che le
determinazioni amministrative contestate abbiano conferito incarichi e
supplenze ad altri funzionari.
Peraltro,
giova osservare che i provvedimenti asseritamente lesivi della
posizione della ricorrente e le attività provvedimentali denunciate
avevano trovato causa nelle scelte discrezionali e nelle diverse
esperienze maturate dai funzionari nominati per lo svolgimento di
delicati compiti di polizia, in aree caratterizzate da alta densità
criminale.
Conseguentemente,
in difetto della rigorosa dimostrazione della loro attitudine
prevaricatoria, non può non concludersi che le condotte censurate non
siano suscettibili di essere ascritte a situazioni certe di
comportamenti “mobizzanti”, nel senso più volte chiarito.
L’insussistenza
dell'illecito, sotto il profilo oggettivo, rende superflua la necessità
di accertare la produzione in concreto dei danni lamentati, nonché il
nesso causale tra la condotta e l'evento dannoso.
Sotto
altro aspetto, non va sottaciuto che, quanto al danno morale soggettivo
lamentato, parte ricorrente non ha nemmeno dedotto l'esistenza di una
fattispecie di reato, che comunque deve essere accertata incidentalmente
per potere liquidare tale forma di danno, ancorché il mobbing ben possa
essere integrato da comportamenti non costituenti reato.
Parimenti,
quanto al danno esistenziale o morale in senso ampio, parte ricorrente
non ha dedotto l'esistenza di specifiche sofferenze diverse e distinte
da quelle rientranti nel danno biologico o nel danno patrimoniale.
Per tutte le considerazioni che precedono, il ricorso va respinto.
Attesa
la natura della controversia, si ravvisano giustificati motivi per
disporre l’integrale compensazione fra le parti in causa delle spese e
degli onorari del giudizio, ai sensi dell’art. 92, ult. cpv. c.p.c..
P. Q. M.
il
Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia, Bari, Sezione Prima,
definitivamente pronunciando sul ricorso di cui in epigrafe, lo rigetta.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
Così deciso in Bari, nella camera di consiglio del 21 marzo 2007, con l'intervento dei Signori:
Corrado Allegretta - Presidente
Vito Mangialardi - Componente
Concetta Anastasi - Componente, Est.
L’ESTENSORE IL PRESIDENTE
Pubblicata mediante deposito
in Segreteria il 20 giugno 2007
(Art. 55, Legge 27 aprile 1982 n.186)
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