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venerdì 28 giugno 2013

Cassazione: Se lo sportello automatico "cattura" il bancomat, da quel momento ne risponde (anche) la banca L'istituto bancario non può chiamarsi fuori, neppure se il cliente non ha chiesto il blocco della "card" perchè convinto dalle spiegazioni (l'emissione contemporanea di un'altra carta) verbalmente fornite in banca da un impiegato




Se lo sportello automatico "cattura" il bancomat, da quel momento ne risponde (anche) la banca
L'istituto bancario non può chiamarsi fuori,
neppure se il cliente non ha chiesto il blocco della "card" perchè
convinto dalle spiegazioni (l'emissione contemporanea di un'altra
carta) verbalmente fornite in banca da un impiegato
 (Sezione prima,
sentenza n. 13777/07; depositata il 12 giugno)

CASSAZIONE CIVILE  
-   OBBLIGAZIONI E CONTRATTI
Cass. civ. Sez. I, 12-06-2007, n. 13777


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA
DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri
Magistrati:

Dott. MORELLI Mario Rosario - Presidente

Dott. CECCHERINI
Aldo - Consigliere

Dott. GIULIANI Paolo - Consigliere

Dott. DEL CORE
Sergio - rel. Consigliere

Dott. PETITTI Stefano - Consigliere

ha
pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

...omissisvld...,
elettivamente domiciliato in ROMA VIA GIUSEPPE PALUMBO 12, presso
l'avvocato CRISCI SIMONETTA, che lo rappresenta e difende, giusta
procura speciale per Notaio Laura Gregori di Roma, rep. n. 31207
dell'8.5.07;

- ricorrente -

contro

BANCA MONTE DEI PASCHI DI SIENA S.
P.A., in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata
in ROMA CORSO VITTORIO EMANUELE II 326, presso l'avvocato SCOGNAMIGLIO
RENATO, che la rappresenta e difende, giusta procura in calce al
controricorso;

- controricorrente -

avverso la sentenza n. 34322/02
del Tribunale di ROMA, depositata il 11/09/02;

udita la relazione
della causa svolta nella Pubblica udienza del 11/05/2007 dal
Consigliere Dott. Sergio DEL CORE;

udito, per il ricorrente,
l'Avvocato CRISCI che ha chiesto l'accoglimento del ricorso;

udito,
per il resistente, l'avvocato CLAUDIO SCOGNAMIGLIO, con delega, che ha
chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M., in persona del
Sostituto Procuratore Generale Dott. GAMBARDELLA Vincenzo, che ha
concluso per l'accoglimento del ricorso per quanto di ragione.


--------------------------------------------------------------------------------
Fatto Diritto P.Q.M.
Svolgimento del processo
Con citazione del
febbraio 1999 ...omissisvld... espose che, il 19 marzo 1998, la propria carta
bancomat, utilizzata presso lo sportello automatico (ATM) del Monte dei
Paschi di Siena agenzia n. (OMISSIS) per effettuare un prelievo di
contante a valere sul proprio conto corrente, era stata trattenuta
dall'apparecchio sul cui display era comparsa la scritta "fuori
servizio". Il giorno dopo, un funzionario della predetta banca lo aveva
rassicurato, spiegandogli che il ritiro della carta era conseguente
all'emissione della Mondocard da esso citante richiesta per potere
prelevare anche all'estero e della quale gli venne consegnata in quella
stessa occasione il regolamento contrattuale e il codice PIN; il 3
aprile 1998 aveva constatato la registrazione di operazioni di prelievo
per circa L. cinque milioni da lui non eseguite e la banca cui si era
rivolto gli aveva suggerito di bloccare immediatamente la nuova tessera
in suo possesso, sennonchè il successivo giorno 6 si era appurato che i
prelievi abusivi erano stati effettuati con la vecchia carta bancomat;
nella stessa giornata aveva denunciato l'accaduto ai Carabinieri. Tanto
premesso, convenne in giudizio avanti il giudice di pace di Roma il
Monte dei Paschi di Siena, chiedendone la condanna al risarcimento
della somma di L. 4.984.389, prelevata fraudolentemente dal proprio
conto corrente.

La banca convenuta contestò che un proprio funzionario
potesse avere fornito al R. le informazioni erronee in ordine al motivo
per cui la carta era stata trattenuta dallo sportello automatico e che
l'emissione della Mondocard avrebbe comportato la disabilitazione,
prima della scadenza, della precedente carta. Addebitò al R. il difetto
di diligenza per non avere, tra l'altro, denunciato lo smarrimento
della vecchia carta.

L'adito giudice respinse la domanda e stessa
sorte riservò all'appello del R. il Tribunale di Roma sulla base dei
seguenti argomenti. Nella custodia della carta bancomat, l'appellante
aveva omesso quegli accorgimenti doverosi alla stregua del criterio di
diligenza, che deve informare la condotta del titolare. In particolare,
poichè la scritta "fuori servizio" apparsa sul display dello sportello
automatico ne segnalava un guasto e non poteva avere alcuna relazione
con una eventuale disabilitazione della carta, il R. avrebbe dovuto
esigere dalla banca la restituzione della carta medesima o
un'attestazione della sua disattivazione cui non era equiparabile la
dichiarazione asseritamente fattagli da un funzionario della banca e
comunque da questi smentite. La frase contenuta nel regolamento
descrittivo del funzionamento della Mondocard ("nel caso in cui Lei sia
già titolare di una carta bancomat o in scadenza, la nuova carta che le
inviamo andrà a sostituire quella ora in suo possesso") non implicava
che la vecchia carta sarebbe stata automaticamente disabilitata con
l'emissione della nuova. Analogamente, una volta avvedutosi dei
prelevamenti abusivi, il R. avrebbe dovuto richiedere il blocco della
carta scomparsa e non certo di quella di nuova emissione, in suo
possesso e non utilizzabile da altri. Non avevano trovato riscontro in
sede istruttoria, le assicurazioni asseritamente date al R. da
direttore e funzionari della banca successivamente alla scoperta di
quei prelievi in ordine alla impossibilità di coesistenza di due carte
bancomat relative allo stesso conto corrente.

La cassazione di tale
sentenza è stata chiesta dal R. con ricorso contenente sei motivi.

Resiste con controricorso il Monte dei Paschi di Siena.

Entrambe le
parti hanno presentato memoria.

Motivi della decisione
Con il primo
motivo, il ricorrente denunzia omessa, insufficiente o contraddittoria
motivazione circa un punto decisivo della controversia prospettato
dalle parti o rilevabile d'ufficio.

Contrariamente a quanto si legge
in sentenza, il R. ha sempre affermato che, non appena inserita la
carta bancomat, era apparsa sul display la scritta "carta non abilitata
al servizio" e che aveva atteso inutilmente per circa 25 minuti la
riconsegna della carta, quando era apparsa la scritta "sportello fuori
servizio". Inoltre, era stato confermato in sede di esame testimoniale
che il 3 aprile 1998 un funzionario della banca, G.C., al quale erano
stati segnalati i prelievi abusivi, aveva consigliato al R. di bloccare
immediatamente la carta in suo possesso, poichè probabilmente clonata.
Il R. non poteva pensare che si intendesse bloccare una carta che aveva
ragionevolmente ritenuto già disabilitata e distrutta.
L'interpretazione letterale della locuzione contenuta nel "regolamento
del servizio bancomat" ("la nuova carta che le inviarne andrà a
sostituire quella ora in suo possesso") postula con certezza la
cessazione di validità della vecchia tessera dal momento in cui la
nuova entra in funzione, attraverso la consegna del codice PIN, nella
specie avvenuta il 20 marzo 1998, quando il R. si era recato presso
l'agenzia n. (OMISSIS) a denunciare quanto accaduto la sera prima. La
corte ha attribuito a tale decisivo elemento un significato fuori dal
senso comune con motivazione chiaramente inadeguata sotto il profilo
della coerenza e della logicità.

Con i successivi tre motivi, il
ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione di norme di diritto
con riferimento all'interpretazione data dal giudice dell'appello al
"regolamento del servizio bancomat". Si ascrive al giudice di non
essersi attenuto al criterio letterale e agli altri criteri ermeneutici
indicati dalla legge non consentendo peraltro il controllo del
procedimento logico seguito per giungere alla decisione (secondo
motivo); di non avere applicato la regola dell'art. 1370 c.c. secondo
cui le clausole inserite nelle condizioni generali di contratto o in
moduli o formulari predisposti da una parte devono interpretarsi, nel
dubbio, nel senso più favorevole all'aderente e contro il
predisponente, sul duale grava conseguentemente l'onere di evitare
ambiguità nel testo del contratto (terzo motivo); di non avere
applicato l'art. 1366 c.c., a tenore del quale il contratto deve essere
interpretato secondo buona fede, in particolare al fine di preservare
il ragionevole affidamento di ciascuna parte sul significato
dell'accordo in relazione a quanto l'altra abbia lasciato intendere
mediante le proprie dichiarazioni e il proprio comportamento, valutati
secondo un metro di normale diligenza (quarto motivo).

Con il quinto
motivo, il ricorrente denunzia la violazione e la falsa applicazione di
norme di diritto (art. 1176 c.c., comma 2). Svolgendo attività
professionale, la banca deve adempiere tutte le obbligazioni assunte
nei confronti dei propri clienti con la diligenza particolarmente
qualificata dell'accorto banchiere, non solo con riguardo all'attività
di esecuzione di contratti bancari in senso stretto, ma anche in
relazione ad ogni tipo di atto o di operazione oggettivamente
esplicati. Quindi, la banca emittente della carta bancomat è
responsabile, fino a prova contraria, dell'approntamento dei mezzi
meccanici, della loro idoneità e del loro funzionamento e, comunque,
degli errori dovuti a dolo o colpa grave. Sul cliente ricade
contrattualmente l'onere, in caso di furto o di smarrimento della carta
bancomat, di informare tempestivamente la banca; ma, anche nel caso che
tale obbligo non sia adempiuto, questa non può dirsi liberata dal
proprio obbligo di adempiere con la diligenza dell'accorto banchiere.

Con il sesto motivo, il ricorrente ascrive al tribunale la violazione e
la falsa applicazione dell'art. 2051 c.c., per il quale ciascuno è
responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo
che provi il caso fortuito. La banca è responsabile per i danni causati
dallo sportello ATM, non avendo dimostrato che la truffa subita dal R.
rivesta i caratteri di imprevedibilità ed assoluta eccezionalità. Anzi,
più volte la stessa banca, in corso di causa, ha affermato la notorietà
e frequenza di una simile truffa costituita dall'introduzione
all'interno dell'ATM di un retino, cioè di una sorta di pellicola che
impedisce all'apparecchiatura di leggere la tessera bancomat e ne
determina il blocco e il successivo ritiro della carta quando poi
l'intestatario si allontana. La banca non ha provveduto a strutturare
gli sportelli ATM per evitare le ripetute truffe agli utenti e non ha,
quindi, adempiuto gli obblighi di vigilanza di sua pertinenza.

La
prima parte del primo motivo addebita al tribunale di non avere tenuto
conto che sul display dello sportello automatico era dapprima apparsa
la scritta "carta non abilitata al servizio", in realtà, il ricorso non
indica, nè tampoco emerge dalla sentenza, in quale atto del processo
sia stata ammannita una tale versione. Ma quand'anche sia stato
prospettato in giudizio detto singolare succedersi di scritte sul
display - dell'ATM, va rilevato che il R. non ha colto la reale ratio
decidendi illustrata al riguardo dal tribunale per rimarcarne la
negligenza. Il giudice a quo ha, infatti, sottolineato che la scritta
finale "fuori servizio" (che nessuna relazione ha con il trattenimento
della carta disabilitata o scaduta) aveva comunque segnalato la
disattivazione del servizio dello sportello per probabile guasto del
relativo dispositivo automatico, sicchè il R., il giorno successivo,
"avrebbe dovuto esigere la restituzione della carta - se effettivamente
trattenuta dall'apparecchio - o una formale attestazione della sua
disabilitazione". Il tribunale, quindi, ha implicitamente tenuto conto
della prospettazione attorea, ritenendo la eventuale scritta "carta
disabilitata" in un certo senso superata, sul piano della rilevanza
causale, dalla successiva "sportello fuori servizio".

Contro tale
argomentare, logicamente idoneo a sorreggere il formulato giudizio di
negligenza del R., il ricorrente non ha svolto alcuna specifica
censura.

Analogamente, il tribunale ascrive a negligenza del R. il
fatto che questi, una volta avvedutosi dei prelevamenti illegittimi,
chiese il blocco del tesserino magnetico di nuova emissione in suo
possesso, e non utilizzabile perciò da altri, anzichè di quello
trattenuto dallo sportello. Nel censurare siffatta argomentazione, il
ricorrente assume che in sede di deposizione testimoniale un
funzionario della banca avrebbe confermato di avergli suggerito il
blocco della carta in suo possesso, in quanto probabilmente donata.
Epperò la doglianza è inammissibile costituendo principio consolidato
presso la giurisprudenza di questa Corte che nel giudizio di
legittimità il ricorrente il quale deduca omessa o insufficiente
motivazione della sentenza impugnata per mancata, erronea o illegittima
valutazione di alcune risultanze probatorie (un documento, deposizioni
testimoniali, dichiarazioni di parte, accertamenti del consulente
tecnico) ha l'onere, in considerazione del principio di autosufficienza
del ricorso per cassazione, di specificare - ove occorra,
trascrivendole integralmente - le prove non o mal valutate; ciò al fine
al fine di consentire il controllo del contenuto e della decisività
della risultanza non valutata (o insufficientemente valutata), dato che
Questo controllo, in ragione dell'autosufficienza del ricorso per
cassazione, deve poter essere compiuto dalla Corte di cassazione sulla
base delle deduzioni contenute nell'atto impugnatorio, alle cui lacune
non è consentito sopperire con indagini integrative (cfr.

Cass. nn.
12080/2000, 7434/2001, 8388/2002, 15751/2003, 4405/2006, 11886/2006).
Tanto più era importante nella specie leggere la integrale deposizione,
data l'equivocità del riferimento alla carta "in possesso" del R.;
occorrerebbe, invero, sapere se il funzionario era al corrente del
fatto che all'odierno ricorrente era stata consegnata da poco tempo una
nuova tessera, laddove i prelievi illegittimi erano stati effettuati
con una vecchia carta non donata, ma fraudolentemente sottratta.

Tranciante è comunque il fatto, su cui si impernia il discorso
giustificativo della sentenza impugnata, e frutto di accertamento
insindacabile del giudice a quo, che il R. non ha mai denunciato, come
suo onere, nei modi regolamentari e con tempestività alla banca la
sottrazione della carta bancomat in sua dotazione.

La restante parte
del primo motivo e i motivi secondo, terzo e quarto vanno esaminati
congiuntamente in quanto vertono tutti sulla interpretazione del
regolamento contrattuale relativo all'uso del bancomat consegnato al
R., unitamente alla carta Mondocard e al PIN, e, in particolare, della
frase ivi contenuta ("nel caso in cui Lei sia già titolare di una carta
bancomat o in scadenza, la nuova carta che le inviamo andrà a
sostituire quella ora in suo possesso"). Essi esprimono censure
all'evidenza inammissibili.

In tema di interpretazione del contratto,
l'accertamento della volontà dei contraenti in relazione al contenuto
del negozio si traduce in una indagine di fatto, affidata al giudice
del merito e censurabile in sede di legittimità solo nei casi di
inadeguatezza della motivazione, tale da non consentire la
ricostruzione dell'iter logico seguito per giungere alla decisione,
ovvero di violazione dei canoni legali di interpretazione contrattuale
stabiliti dall'art. 1362 c.c. e ss.. Sia la denuncia della violazione
delle regole di ermeneutica, sia la denuncia del vizio di motivazione
esigono una specifica indicazione, e cioè la precisazione del modo in
cui si è realizzata la violazione anzidetta e delle ragioni
dell'obiettiva deficienza e contraddittorietà del ragionamento del
giudice, non potendo le censure risolversi, in contrasto con la
qualificazione loro attribuita dalla parte ricorrente, nella mera
contrapposizione di un'interpretazione diversa da quella criticata. In
diversi termini, l'interpretazione del contratto è riservata al giudice
del merito, le cui valutazioni soggiacciono, in sede di legittimità, a
un sindacato limitato alla verifica del rispetto dei canoni legali di
ermeneutica contrattuale e al riscontro di una motivazione coerente e
logica. Per sottrarsi al sindacato di legittimità, quella data dal
giudice al contratto non deve essere l'unica interpretazione possibile,
o la migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili,
interpretazioni. Sicchè, quando di una clausola contrattuale sono
possibili due o più interpretazioni (plausibili), non è consentito alla
parte che aveva proposto l'interpretazione poi disattesa dal giudice di
merito - dolersi in sede di legittimità del fatto che sia stata
privilegiata l'altra. Specularmente, il vizio di motivazione deve
emergere dall'esame del ragionamento e degli argomenti svolti dal
giudice del merito e non dalla possibilità di un diverso significato
attribuibile al contratto. In buona sostanza, il vizio motivatorio non
deve incingere l'apprezzamento del significato delle clausole del
contratto, ma solo la coerenza formale, ossia l'equilibrio dei vari
elementi che costituiscono la struttura argomentativa (vedi Cass. nn.
4178/2007, 10131/2006, 1886/2000, 15381/2004, 7242/2001, 1045/2000,
4832/1998, 3142/1998, 2190/1998, 11334/1997, 3623/1996, 2008/1996,
1092/1995, 551/1995).

Inoltre, è principio costantemente affermato da
questa Corte Quello per cui le regole legali di ermeneutica
contrattuale sono elencate negli artt. 1362 e 1371 c.c. secondo un
ordine gerarchico:

conseguenza immediata è che le norme cosiddette
strettamente interpretative, dettate dagli artt. 1362 e 1365 c.c.,
precedono quelle cosiddette interpretative integrative, esposte dagli
artt. 1366 e 1371 c.c., e ne escludono la concreta operatività quando
la loro applicazione renda palese la comune volontà dei contraenti. Da
questo principio di ordinazione gerarchica (o gradualismo) delle regole
ermeneutiche, nel cui ambito il criterio primario è quello esposto
dall'art. 1362 c.c., comma 1 vale a dire il criterio
dell'interpretazione letterale, consegue ulteriormente che qualora il
giudice del merito abbia ritenuto che il senso letterale delle
espressioni impiegate dagli stipulanti riveli con chiarezza ed
univocità la loro volontà comune, così che non sussistano residue
ragioni di divergenza tra il tenore letterale del negozio e l'intento
effettivo dei contraenti, l'operazione ermeneutica deve ritenersi
utilmente compiuta. Ai criteri interpretativi sussidiare si deve far
ricorso solo quando i criteri principali (significato letterale delle
espressioni adoperate dai contraenti, collegamento logico tra le varie
clausole) siano insufficienti alla identificazione della comune
intenzione (cfr., sentt. nn. 26690/2006, 9438/2000, 4671/2000,
5635/2002, 13351/1999, 8590/1999, 8584/1999, 6176/1999, 4241/1999,
4811/1998, 1940/1998, 2372/1996, 5893/1996, 4563/1995). Se è vero,
quindi, che compito del giudice deve essere quello di indagare quale
sia stata la comune intenzione delle parti, senza limitarsi al senso
letterale delle parole, è altresì vero che, qualora la lettera della
convenzione riveli, per le espressioni usate con chiarezza e univocità,
la volontà dei contraenti e non vi sia divergenza tra la lettera e lo
spirito delle convenzioni, il ricorso a qualsiasi altro criterio
interpretativo deve considerarsi inammissibile, in quanto condurrebbe
il giudice a sostituire la propria soggettiva opinione all'effettiva
volontà dei contraenti. Solo nel caso in cui la comune intenzione delle
parti non risulti in modo certo e immediato dalla dizione letterale del
contratto, quando cioè le espressioni adoperate dai paciscenti si
presentino lacunose o plurivoche, il giudice (non potrà limitarsi al
senso letterale delle parole ma) avrà il potere - dovere di ricercare
quali siano le finalità realmente perseguite dai contraenti, mediante
il ricorso alla valutazione del comportamento complessivo delle parti,
o agli altri criteri ermeneutici sussidiari.

Attenendosi al tenore
testuale della clausola del regolamento, il tribunale ha ritenuto che
nella intenzione delle parti la nuova carta avrebbe avuto funzione
sostitutiva della precedente, non anche che quest'ultima sarebbe stata
disabilitata automaticamente con l'emissione della nuova.

Si tratta,
all'evidenza, di opzione ermeneutica rigorosamente basata sul tenore
letterale delle clausole, intrinsecamente plausibile e sorretta da
catena argomentativa priva di smagliature logiche.

Come risulta in
maniera palese dalla loro prospettazione, le doglianze, lungi dal
delineare una violazione di legge, mirano ad accreditare un criterio
interpretativo più confacente alla tesi difensiva del ricorrente.

Addirittura azzardando una disquisizione etimologica sul termine
"sostituire", il R., in ultima analisi, ripropone la sua
interpretazione della clausola contrattuale, indicando come violata,
anzitutto, la norma contenuta nell'art. 1362 c.c.. In tale deduzione è
tuttavia insito l'errore di non considerare che, come si è dianzi
premesso, allorquando di una clausola contrattuale sono possibili due
interpretazioni, non è consentito - alla parte che aveva proposto
quella poi disattesa dal giudice di merito - dolersi in sede di
legittimità del fatto che sia stata privilegiata l'altra (pur
possibile) interpretazione.

L'indagine esperita dai giudici del merito
appare invece non solo rispettosa delle regole poste dagli artt. 1362 e
1363 c.c., ma altresì idonea ad assicurare compiutezza di rilievi e di
argomenti all'iter logico seguito per giungere alle conclusioni
contestate dal ricorrente; al quale, poi, non giova invocare il
disposto dell'art. 1370 c.c., secondo cui le clausole inserite nelle
condizioni generali di contratto o in moduli o formulari predisposti da
uno dei contraenti si interpretano, nel dubbio, a favore dell'altro. Il
criterio previsto dalla suddetta norma è, come si è detto,
caratterizzato da una funzione ermeneutica esclusivamente vicariante,
che serve a esplicare una volontà espressa da una dichiarazione ambigua
e plurivoca, come tale inidonea a rispecchiare la comune intenzione
delle parti; sicchè, Quante volte l'effettiva volontà dei contraenti
risulti, come nella specie, determinata e determinabile attraverso
l'adozione della regola ermeneutica prioritaria, quale è quella (art.
1362 c.c., comma 1) fondata sul significato letterale delle parole,
all'interprete non è consentito ricorrere, in assenza di residui
margini di dubbio, agli altri strumenti interpretativi, meramente
sussidiari, indicati dallo stesso art. 1362 c.c. (comma 2) e dalle
disposizioni successive, superando il senso fatto palese dal
significato letterale delle parole.

Considerazioni non dissimili
valgono per quanto riguarda la dedotta violazione dell'art. 1366 c.c.,
che impone l'interpretazione del contratto secondo buona fede. Tale
principio, rappresentando un punto di sutura tra la ricerca della reale
volontà contrattuale, costituente il primo momento del processo
interpretativo, ed il persistere del dubbio sul preciso contenuto della
stessa, in base ad un criterio obiettivo, avente per fondamento un
canone di reciproca lealtà di condotta fra le parti, è pur sempre un
mezzo sussidiario di interpretazione, al quale il giudice deve
ricorrere solo se persista un dubbio sul reale significato delle
dichiarazioni contrattuali; esso non è invocabile allorchè il giudice
stesso, attraverso il preminente criterio dell'interpretazione
letterale, abbia già accertato, come nella specie, l'effettiva volontà
delle parti (vedi, in termini, Cass. nn. 5663/1984, 2209/1984, 70/1979,
1695/1976, 1418/1975, 3058/1973).

E, del resto, come l'interpretazione
della volontà delle parti in relazione al contenuto di un contratto, o
di una qualsiasi clausola negoziale, importa indagini o valutazioni di
fatto affidate al potere discrezionale del giudice del merito,
insindacabile in sede di legittimità, ove non sussista un vizio di
attività dello stesso, influente sulla logicità, congruità e
compiutezza della motivazione, così rientra in tale potere
l'accertamento relativo alla chiarezza delle clausole contrattuali e,
in definitiva, alla necessità di procedere all'uso di strumenti
interpretativi sussidiari, quali sono Quelli dinanzi menzionati.

Valutate alla stregua di siffatte prospettazioni, le censure svolte dal
ricorrente in punto di motivazione si appalesano del tutto inidonee a
individuare i "vizi della motivazione" della sentenza impugnata; lungi
dal porre in luce punti "decisivi", in ordine ai Quali la motivazione
sarebbe stata emessa o insufficiente o contraddittoria, esse si
sostanziano nella delineazione di un'interpretazione delle clausole
possibile, ma inammissibilmente contrapposta a quella operata dalla
corte territoriale e in un soggettivo e autonomo ordine di
considerazioni ed apprezzamenti circa l'iter logico seguito dal giudice
a quo per pervenire al suo convincimento, esposto esaurientemente e con
proposizioni internamente e reciprocamente coerenti.

Concludendo
l'esame dei motivi, constata la Corte come il ricorrente si limiti, con
inammissibili censure circa il mancato rispetto da parte del giudice
del merito di determinati canoni interpretativi, a proporre in
argomento una interpretazione diversa da quella accolta da detto
giudice, sostenendo - secondo una personale, opinabile logica - che
essa sia l'unica possibile. Ciò non basta, evidentemente, a dimostrare
che l'altra, seguita dal giudice del merito, sia viziata, tanto più
perchè questa risulta basata sulla formulazione letterale delle
clausole contrattuali, nel rispetto quindi del primo e fondamentale
criterio di cui all'art. 1362 c.c. che, come si è detto, quando siano
chiare e inequivoche tanto le parole e le espressioni adoperate quanto
lo scopo perseguito (la intima ratio), mette fuori causa tutti gli
altri criteri, meramente sussidiari. E' di tutta evidenza, alla stregua
dei principi più sopra esposti, che siffatte critiche vanno tenute per
assolutamente inconsistenti.

Anche il sesto motivo, che per comodità
espositiva si esamina in precedenza al quinto, si rivela inammissibile
per la novità della relativa censura.

Della questione, relativa alla
presunzione di responsabilità, quale custode, della banca ex art. 2051
c.c. e involgente accertamenti di fatto (modalità della sottrazione
della tessera magnetica) non v'è traccia nella sentenza impugnata nè
nelle conclusioni riportate in epigrafe. In tale contesto, sarebbe
stato onere del ricorrente indicare in quale scritto difensivo o atto
del giudizio di appello l'aveva sollevata. Ciò in ossequio al
principio, ripetutamente affermato da questa Corte, secondo cui,
qualora una determinata questione giuridica - che implichi un
accertamento di fatto - non risulti trattata in alcun modo nella
sentenza impugnata, il ricorrente che proponga la predetta questione in
sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di
inammissibilità per novità della censura, ha l'onere di indicare in
quale specifico scritto difensivo e/o atto del giudizio precedente l'ha
dedotta, onde dar modo alla Corte di Cassazione di controllare ex actis
la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la
questione stessa (cfr., e plurimis, sentt. nn. 6656/2004, 12571/2003,
2331/2003, 14905/2002, 724/2001). Nella specie, non avendo il
ricorrente minimamente assolto un tale onere, deve presumersi che la
questione sia stata posta per la prima volta in questa sede.

E' invece
fondato il quinto motivo.

Come riportato in istorico, il tribunale
capitolino ha ritenuto che il danno dedotto in causa dovesse ascriversi
a responsabilità del R., per avere egli violato obblighi di diligenza
quale titolare della carta bancomat, avendo omesso di chiederne "la
restituzione o la disabilitazione" nel momento in cui la stessa era
stata trattenuta dalla macchina nonchè, all'atto della ricezione
dell'estratto conto del 3 aprile 1998, richiesto il blocco della
(nuova) carta in suo possesso e non di quella vecchia; ed ha altresì
osservato che del tutto carente di prova era rimasto l'assunto del R.
circa l'impossibilità di coesistenza di due carte bancomat sullo stesso
conto corrente.

Peraltro, il giudice ha del tutto omesso di esaminare
e delibare lo specifico motivo con cui il ricorrente aveva dedotto che,
anche a ritenere non rispettato l'obbligo di denuncia previsto dal
regolamento contrattuale del servizio, dell'evento sottrazione della
carta da parte dello sportello automatico era comunque responsabile, ai
sensi dell'art. 1176 c.c., comma 2, la banca appellata, la quale,
svolgendo attività professionale, deve adempiere tutte le obbligazioni
assunte nei confronti dei propri clienti con la diligenza
particolarmente qualificata dell'accorto banchiere, non solo con
riguardo all'attività di esecuzione di contratti bancari in senso
stretto, ma anche in relazione ad ogni tipo di atto o di operazione
oggettivamente esplicati.

Al giudice di appello la doglianza
obliterata aveva posto un quesito preciso, rilevante e sicuramente non
superato dagli accertamenti in fatto (pur contestati) e dalla
motivazione adottata dallo stesso giudice in relazione alle altre
censure: se la banca risponda dei rischi tipici della sua sfera
professionale, di quei rischi, cioè, inerenti agli specifici obblighi
gravanti su di essa per la cui eliminazione deve porre in essere i
mezzi idonei e, quindi, con riferimento al servizio bancomat, se al di
là di contrarie previsioni regolamentari (dei quali occorrerebbe
valutare la tenuta di fronte a inderogabili regole civilistiche), la
banca sia comunque responsabile laddove non abbia provveduto/ con
strumenti idonei, a garantire la sicurezza contro eventuali
manomissioni; in definitiva, se il mancato rispetto dell'obbligo del
titolare di chiedere immediatamente il blocco della carta nei casi di
sottrazione e smarrimento non esime da responsabilità il banchiere
allorquando la carta viene "catturata" dall'apparecchio dell'ATM a
causa di una manomissione.

A tale quesito, implicante la risoluzione
della problematica circa la misura della diligenza richiesta alla banca
per l'espletamento del servizio bancomat (in effetti, l'art. 1176 c.c.,
comma 2 lasciando imprecisata la Questione della misura della diligenza
nelle obbligazioni inerenti all'esercizio di un'attività professionale,
ne fa dipendere la valutazione dalla natura dell'attività: di qui il
carattere tecnico della diligenza secondo il quale il buon padre di
famiglia deve assumere la figura dell'accorto professionista dedito a
quel particolare ramo di affari), dovrà rispondere il giudice del
rinvio che si designa nello stesso tribunale circondariale, in persona
di diverso magistrato, cui appare demandare anche la regolazione delle
spese di questa fase.

P.Q.M.
La Corte, accoglie il quinto motivo di
ricorso, rigetta gli altri, cassa la sentenza impugnata in relazione al
motivo accolto e rinvia, anche per le spese, al Tribunale di Roma, in
persona di altro magistrato.

Così deciso in Roma, il 11 maggio 2007.

Depositato in Cancelleria il 12 giugno 2007


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c.c. art. 1362
c.c. art. 1363
c.c. art. 1370
c.c. art. 1371
c.p.c.
art. 360


 

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