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DANNI IN MATERIA CIV. E PEN. - RESPONSABILITA' CIVILE
Cass. civ. Sez. III, 30-01-2008, n. 2089
Cass. civ. Sez. III, 30-01-2008, n. 2089
Svolgimento del processo
F.F.,
già carabiniere ausiliario dell'arma dei carabinieri, ha preteso e
pretende, da Fe.Mo. e dal Ministero della Difesa, il risarcimento dei
danni subiti a causa delle lesioni riportate al capo, attinto da un
proiettile sparato dalla pistola in dotazione del Fe. mentre questo,
anch'esso carabiniere, stava illustrando, a lui e ad altri commilitoni,
il funzionamento dell'arma.
Nel giudizio è
intervenuto volontariamente l'INPS per chiedere la condanna del Fe. e
del Ministero della difesa al risarcimento delle spese di ricovero in
ospedale del F..
La domanda è stata accolta
dal giudice di primo grado, che ha liquidato al F. la somma di L.
77.024.800 ed all'INPS la somma di L. 2.280.000.
Dopo
una prima sentenza, cassata,con rinvio, dalla Corte di cassazione (con
sentenza del 12 agosto 2000 n. 10803), per vizio di motivazione,
l'appello proposto dall'Avvocatura dello Stato per conto del Ministero
della difesa è stato respinto, a seguito del giudizio di rinvio, dalla
Corte di appello di Venezia, con sentenza in data 9 dicembre 2002/3
febbraio 2003.
Dopo avere richiamato,
ricollegandosi alla sentenza della Corte di cassazione di annullamento
della prima decisione di rigetto dell'appello, il principio di diritto
che estende la responsabilità della pubblica amministrazione per fatto
dei suoi dipendenti anche ai casi in cui l'evento dannoso sia dipeso da
una condotta (del dipendente) che, ancorchè illegittima, per dolo o per
abuso di potere, possa considerarsi legata da nesso di occasionalità
necessaria ai fini istituzionali della pubblica amministrazione, la
Corte territoriale ha, in particolare, rilevato come l'esplosione
accidentale del colpo fosse avvenuta proprio mentre il Fe., più elevato
in grado, spiegava ai suoi commilitoni (ed al F.) il funzionamento della
pistola e nell'ambito, quindi, di una attività che, per quanto non
autorizzata, e per di più posta in essere durante la "libera uscita" e
perciò "al di fuori degli spazi e dei tempi a ciò deputati", rientra
comunque nei fini istituzionali della Amministrazione pubblica, cui
compete anche la funzione di addestramento dei militari dell'arma dei
carabinieri e deve, per ciò stesso, ritenersi alla stessa riconducibile.
L' Avvocatura dello Stato ha impugnato questa sentenza con ricorso per cassazione.
Resistono, con controricorso, sia l'INPS che il F..
Il Fe. non ha spiegato attività difensiva.
E' stata depositata memoria nell'interesse del F..
Motivi della decisione
1.
Con un unico articolato motivo si denuncia "omessa, insufficiente e
contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, in
relazione all'art. 360 c.p.c., primo 1, n. 5".
Si
addebita alla Corte di merito l'errore di avere considerato del tutto
pacifico che l'evento si è veri-ficato durante una presentazione, da
parte del Fe., ai commilitoni, del meccanismo di funzionamento della
pistola di ordinanza quando proprio questa circostanza era stata negata
nella prima sentenza della Corte di appello, successivamente cassata
dalla Corte di cassazione, ed era stata, comunque, contestata dal
Ministero della difesa "anche dinnanzi alla Suprema Corte".
Tale
errore, si chiarisce, per quanto relativo ad una circostanza di fatto
giuridicamente irrilevante, è quello che fonda uno dei pilastri
dell'iter logico seguito dalla Corte di merito e deve considerarsi
perciò esiziale per la coerenza (logica) della decisione (prima
censura).
Si rileva, poi, che la Corte di
merito ha considerato il Fe. carabiniere "più elevato in grado" dei
commilitoni che egli stava istruendo senza indicare la prova di tale sua
conclusione e così dando luogo ad un ulteriore vizio di motivazione,
anch'esso esiziale dato che la Corte utilizza la circostanza di fatto
per giustificare l'iniziativa assunta dal Fe. anche in mancanza
dell'incarico di "addestratore o di istruttore" (seconda censura).
Si
aggiunge, ancora, che la Corte di merito ha erroneamente considerato
soltanto abusiva l'attività di presentazione dei meccanismi di
funzionamento della pistola senza accorgersi che si è trattato,
piuttosto, dello "scostamento dalle attribuzioni del suo ufficio" posto
che l'addestramento dei militari deve svolgersi secondo regole e
modalità predeterminate ed in luoghi e tempi definiti e deve essere
affidata a personale qualificato e non può essere conseguentemente
assolto da un qualsiasi carabiniere ausiliario che si sia "arrogato
abusivamente quel compito".
Si precisa,
sviluppando il predetto argomento, che in ogni caso non è possibile
ricondurre l'addestramento arbitrariamente compiuto dal carabiniere, per
di più durante la libera uscita, ai fini istituzionali della
Amministrazione, dovendosi ritenere che le regole che governano
l'attività di addestramento dei militari consentano di ricondurre al
predetto fine solo l'addestramento che rispetta queste regole (terza
censura).
Si aggiunge che neppure può
ricollegarsi l'attività del Fe. ad una esigenza strumentale alla tutela
dell'ordine pubblico che ogni carabiniere deve assicurare anche durante
la libera uscita dato che nella sentenza impugnata non si fa cenno
alcuno ad una impellente necessità di intervento dei militari e ad una
connessa necessità di addestramento supplementare per il successo di
quell'intervento (quarta censura).
Si
addebita, ancora, al giudice di merito l'errore di avere fatto dipendere
la responsabilità della amministrazione dal mero possesso dell'arma
così dimenticando che "il nesso di occasionalità necessaria deve essere
valutato in relazione al comportamento complessivo tenuto con quell'arma
ed alle attribuzioni dell'ufficio cui è addetto il dipendente".
infatti, si chiarisce ulteriormente, "ai fini della individuazione e
dell'accertamento della responsabilità della pubblica amministrazione di
appartenenza non è sufficiente neppure che il pubblico dipendente
svolga una qualsiasi attività astrattamente rientrante nei compiti
istituzionali della medesima amministrazione" perchè "la possibilità di
riferire all'ente pubblico la condotta del dipendente sussiste soltanto
se essa è volta in qualche modo a dare esplicazione all'attività
istituzionale di quell'ente ossia al conseguimento dei suoi fini
istituzionali nell'ambito delle attribuzioni dell'ufficio o del servizio
a cui il dipendente è addetto" (quinta censura).
1.1. La prima censura dell'articolato motivo che sostiene il ricorso è inammissibile.
E'
necessario rilevare, infatti, che la Corte territoriale ha accertato lo
scopo di addestramento dell'incauta azione compiuta dal Fe. non solo
sulla base dell'asserito consenso, sul punto, delle parti ma anche e
soprattutto sulla base degli elementi di prova forniti dal "rapporto in
atti relativo all'incidente" ed, in altri termini, quindi, dal rapporto
sulle cause dell'evento curato dagli stessi Carabinieri del luogo
(Firenze) in cui esso si è avverato.
La
censura investe perciò solo il primo dei due alternativi pilastri che
reggono l'accertamento del giudice di merito non anche il secondo che,
di per se, sarebbe stato ed è sufficiente per sostenere tale
accertamento.
Essa, ancorchè se ne dovesse
accertare la fondatezza, non basterebbe, conseguentemente, per
capovolgere la conclusione alla quale è pervenuto il giudice di merito
sulla ricostruzione del fatto e giustificare così la cassazione della
sentenza impugnata.
Ciò rende la censura priva
di interesse per il ricorrente (e perciò, come si è anticipato,
inammissibile) alla stregua del consolidato orientamento
giurisprudenziale secondo il quale "in tema di ricorso per cassazione,
qualora la decisione impugnata si fondi su di una pluralità di ragioni,
tra loro distinte ed autonome e singolarmente idonee a sorreggerla sul
piano logico e giuridico, l'omessa impugnazione di tutte le "rationes
decidendi" rende inammissibili le censure relative alle singole ragioni
esplicitamente fatte oggetto di doglianza, in quanto queste ultime,
quand'anche fondate, non potrebbero, comunque, condurre, stante
l'intervenuta definitività delle altre non impugnate, all'annullamento
della decisione stessa." (tra le molte, sent. 11-1-2007 n. 389; sent.
18-9- 2006 n. 20118).
Essa, per altro, si
risolve nella denuncia di un travisamento del fatto che, come è stato
ripetutamente affermato, non può costituire motivo di ricorso per
cassazione poichè, risolvendosi nell'inesatta percezione, da parte del
giudice, di circostanze presupposte come sicura base del suo
ragionamento, in contrasto con quanto risulta dagli atti del processo,
costituisce un errore denunciabile con il mezzo della revocazione, ai
sensi dell'art. 395 c.p.c., n. 4. 1.2. Infondata è anche la seconda censura.
E'
vero che nella sentenza impugnata non si specifica la fonte di prova
dell'accertamento della posizione di carabiniere "più elevato in grado"
assegnata al Fe..
Ma la circostanza di fatto
è, anzitutto, del tutto priva di apprezzabile rilevanza nell'iter logico
della motivazione del giudice di merito e, come, del resto, riconosce
il ricorrente, tale rimane anche se la si considera in relazione ai
presupposti della responsabilità della pubblica amministrazione per il
fatto del dipendente in cui assume rilevanza, come si chiarirà meglio,
la relazione di occasionalità necessaria tra l'azione dannosa del
dipendente, come qualificata dai fini per i quali è stata compiuta, ed i
fini istituzionali dell'ente pubblico al quale il dipendente è legato.
Essa,
per altro, risulta, in certo senso, confermata dallo stesso ricorrente
che, proprio nel ricorso, ammette che il Fe. era il più anziano tra il
gruppo dei militari ai quali egli spiegava il funzionamento della
pistola e perciò in "grado", nel senso lato con cui termine è stato
evidentemente utilizzato nella sentenza, più elevato degli altri.
1.3.
La terza censura si rivela, nella prima parte, del tutto
incomprensibile dato che non indica l'elemento che distinguerebbe lo
"scostamento" della attività del pubblico dipendente dall'abuso del
potere o delle funzioni, nell'ambito del quale, avuto riguardo al
significato improprio con il quale l'espressione èutilizzata dalla
giurisprudenza di questa corte, deve ricomprendersi anche l'attività
esercitata, per un fine proprio della amministrazione, al di fuori delle
attribuzioni o degli incarichi o dei compiti ai quali il "dipendente" è
specificamente addetto.
Infondata è, invece,
la parte conclusiva della censura; è infatti affatto pacifico che
l'addestramento dei militari è funzione strumentale a quelle che sono
proprie dell'Arma dei Carabinieri e deve per ciò stesso essere
ricondotta nell'ambito delle finalità, dei compiti e delle attribuzioni
della Amministrazione predetta.
La violazione
delle norme sulle modalità di esercizio della attività di addestramento
può incidere sulla legittimità di questa attività, non sul fine pubblico
che la anima nè sulla possibilità di ricondurre questo fine tra quelli
propri della Amministrazione.
Conclusione,
questa, che vale anche quando la violazione siasi concretata
nell'abusivo esercizio di un compito non proprio del militare che ha
assunto la veste di istruttore posto che neanche la tracimazione, in se e
per se, dalle attribuzioni proprie del funzionario o del dipendente
determina una deviazione del fine della azione verso uno scopo privato o
verso uno scopo esterno ed estraneo a quelli della amministrazione
nella quale il funzionario o dipendente è inserito.
1.4.
La quarta censura è priva di interesse perchè nel caso in esame la
Corte di merito non ha affatto ricollegato l'attività di addestramento
ad una immanente necessità prodromica ad un intervento dei carabinieri
per tutela della sicurezza pubblica o per l'accertamento di reati.
1.5.
Neanche la quinta censura merita accoglimento anche se deve darsi atto
che essa trae spunto da alcuni passi delle motivazioni di alcuni
precedenti giurisprudenziali di questa Corte che, soprattutto se
isolatamente considerati, sembrano giustificare la critica che con la
censura medesima viene indirizzata alla decisione impugnata.
La
giurisprudenza di questa Corte, dopo avere in un primo tempo ricondotto
la responsabilità della pubblica amministrazione per il fatto del suo
dipendente alla disciplina dettata dalla disposizione dell'art. 2049 cod. civ.,
è ormai constante nel legare il fondamento della responsabilità della
pubblica amministrazione al rapporto di immedesimazione organica, nel
senso più ampio ed, in definitiva, improprio del termine.
Lo
Stato, si afferma, e gli altri enti pubblici non possono agire che a
mezzo dei propri dipendenti il cui operato, pertanto, non può
considerarsi di soggetti distinti ma degli enti stessi per i quali il
dipendente agisce.
La pubblica amministrazione
risponde così direttamente per le azioni o attività dei suoi funzionari
e dipendenti (quali ne siano le mansioni espletate - di concetto,
esecutive,materiali) se esse siano state produttive di un danno
ingiusto.
In tal prospettiva, come
puntualmente precisato da questa Corte nella sentenza n. 9260 del 1997,
deve essere inteso il disposto dell'art. 28 Cost. che "non ha inteso
immutare la natura della responsabilità diretta dell'amministrazione e
sanzionare il principio della responsabilità indiretta" di cui all'art. 2049 c.c. ma ha solo "voluto sancire accanto ad essa quella propria degli autori dei fatti lesivi della situazioni giuridiche altrui".
Il
fondamento della predetta responsabilità diretta implica la necessità
che, perchè essa ricorra, vi sia, oltre al nesso di causalità fra il
comportamento del funzionario (o dipendente) e l'evento dannoso (comune
ad ogni ipotesi di responsabilità per danno ingiusto) anche la
riferibilità all'Amministrazione del comportamento stesso (Cass. 6
dicembre 1996 n. 10896, Cass. 13 dicembre 1995 n. 12786, Cass. 7 ottobre
1993 n. 9935, Cass. 3 dicembre 1991 n. 12960) ed, in altri termini, che
l'attività delfunzionario o del dipendente possa essere considerata, in
virtù del rapporto ed. organico, esplicazione dell'attività della
pubblica amministrazione.
Ciò implica la
necessità che l'evento si ricolleghi in qualche modo, indipendentemente
da eventuali abusi o dolo, ad una attività posta in essere per i fini
istituzionali dell'ente perchè solo in questo caso, e non quando il
dipendente abbia agito per fini prettamente individuali o privati, essa
può innestarsi nel contesto della attività complessiva dell'ente
rendendo possibile il riconoscimento di quel nesso tra l'espletamento
delle mansioni e l'evento che la giurisprudenza, con una sintetica
espressione di comodo, definisce di "occasionalità necessaria", e che
consente di ricondurre anche alla p.a. (oltre che al dipendente) la
responsabilità del danno prodotto dalla condotta predetta (sent.
17-9-1997
n. 9260, con la quale è stata esclusa la responsabilità della p.a. per i
danni prodotti dal colpo partito accidentalmente da una pistola del
carabiniere che, in una riunione conviviale, tentava di dimostrare, per
fine solo egoistico e privato, la propria abilità nel maneggio
dell'arma).
Nell'affermare questa esigenza la
giurisprudenza di questa Corte aggiunge normalmente la necessità che il
fine pubblico della attività alla quale si riconnette l'evento dannoso
sia compreso nell'ambito delle "attribuzioni dell'ufficio o del servizio
a cui il dipendente è addetto".
Ma solo in
alcune sentenze di questa Corte, caratterizzate da una posizione di
maggior tutela degli interessi della amministrazione, tale precisazione
si riferisce inequivocamente agli specifici compiti assegnati al
dipendente nell'ambito del servizio al quale è addetto (così, ad
esempio, nella sentenza 13 dicembre 1995 n. 12786); nella maggior parte
delle sentenze, ed in una prospettiva di più forte tutela degli
interessi della vittima, essa attiene alle più generali finalità
dell'Amministrazione della quale l'ufficio fa parte, condividendone i
fini.
Ed in tal senso essa appare maggiormente condivisibile.
La
precisazione, infatti, non potrebbe altrimenti conciliarsi con il
principio della irrilevanza, ove non vi sia interferenza di interesse
privato, della eventuale illegittimità dell'operato del funzionario o
dipendente ed, in altri termini, con la affermazione giurisprudenziale
del tutto pacifica che, ove lo scopo della attività che ha occasionato
l'evento sia comunque coincidente con le finalità istituzionali
dell'ente, riconosce il rapporto di immedesimazione organica anche nei
casi in cui l'atto (in quel senso orientato) sia stato commesso con
abuso di poteri o con violazione di legge o di un ordine (sent. 3-8-2005
n. 16247; sent. 12-11-1999 n. 12553; sent. n. 3069 del 30/11/1963;
Cass. 18-6-1983 n. 4195; 17-12- 1986 n. 7631; ; sent. Cass. pen.
14-4-1981 imp. De Paolo in cui si è affermata la responsabilità civile
della Amministrazione per la morte di un militare a seguito dello sparo
accidentale del fucile di altro militare che, con la vittima si era
arbitrariamente allontanato dal posto di guardia per prendere un caffè).
Nel
motivo di ricorso in esame l'addebito che in realtà è mosso alla Corte
di merito sotto l'impropria denuncia di un difetto di motivazione, è
quello di avere ritenuto il nesso di occasionalità necessaria tra
l'occasionale attività di istruttore svolta dal Fe., mentre era, per di
più in libera uscita, ed il servizio che lo stesso prestava come
carabiniere sulla base di un generico riferimento ai fini istituzionali
dell'Arma dei Carabinieri, piuttosto che a quelli più specifici
dell'ufficio o servizio al quale il Fe. era addetto.
La
censura si risolve così, nonostante l'epigrafe del motivo, nella
denuncia di un errore di diritto sul criterio di individuazione del
nesso di occasionalità necessaria ponendo indirettamente la Corte nella
necessità di stabilire se tale nesso tra la condotta produttiva del
danno e la funzione o sfera dei poteri che legittimamente o
illegittimamente il dipendente abbia la possibilità giuridica di
esercitare in forza del rapporto (di dipendenza) che lo lega alla
amministrazione debba essere stabilito con riferimento alla ristretta
cerchia dei fini del servizio o reparto al quale il dipendente è addetto
o con riferimento piuttosto, ai fini generali della Amministrazione
nella quale il dipendente medesimo è inserito.
Questo
quesito di diritto non è già risolto nella sentenza di questa Corte del
12 agosto 2000 n. 10803 (che ha cassato con rinvio la prima sentenza di
appello).
Tale sentenza si limita ad
affermare che la sentenza di appello mancava della motivazione sulla
coincidenza dei fini perseguiti dal Fe. nel maneggiare l'arma e quelli
dell'Arma dei Carabinieri senza affatto richiedere anche un accertamento
degli incarichi specifici del Fe. e della possibilità di ricondurre
nell'ambito di questi incarichi anche quello "di effettuare istruzioni
ai commilitoni in libera uscita e tra le finalità istituzionali della
pubblica amministrazione che dette istruzioni sul maneggio delle armi
fossero effettuate da carabinieri ausiliari in libera uscita"; infatti
queste precisazioni, che pure si leggono nella motivazione della
sentenza del 12 agosto 2000, hanno solo la funzione di prospettare un
ordinario schema di responsabilità della pubblica amministrazione
nell'episodio nel quale il F. ha riportato lesioni ma non l'unico
possibile o, quello, in particolare in cui la responsabilità possa
comunque riconoscersi nonostante l'interferenza di attività abusive o
arbitrarie del dipendente.
Lo rivela la
precedente affermazione, nella motivazione della predetta sentenza, che
espressamente chiarisce come "la riferibilità dell'atto o del
comportamento del dipendente alla pubblica amministrazione non può
essere negato ("non può non essere ritenuto") tutte le volte in cui "il
comportamento si innesta nel meccanismo di una attività
complessivamente, ed avuto riguardo alla sua finalità terminale, non
estranea rispetto agli interessi ed alle esigenze pubblicistiche della
amministrazione".
Lo rivela, soprattutto, la
generale architettura della motivazione, sostanzialmente ancorata: a)
alla premessa che "il semplice possesso dell'arma, ancorchè esso trovi
titolo nella qualità dell'agente di appartenente al corpo dei
carabinieri, non è sufficiente, di per se, a rendere operante il nesso
di occasionalità necessaria, perchè esso va valutato non in relazione al
solo possesso ma in relazione al comportamento tenuto con quell'arma";
b) all'addebito che è mosso alla Corte di merito di avere legato la
finalità istituzionale dell'uso della pistola al mero possesso della
stessa.
Il principio di diritto che nel caso
in esame deve guidare la decisione può e deve, quindi, essere chiarito
ulteriormente in questa sede, sia pure, come è ovvio, nei limiti già
delineati dalla precedente sentenza di annullamento con rinvio di questa
Corte, che, come si è chiarito, ha solo stabilito come il possesso
dell'arma non consenta, di per se, di ricondurre alla pubblica
amministrazione il danno prodotto dal carabiniere che malaccortamente la
usa se non sia anche accertato che quell'uso possa essere ricondotto ad
un fine istituzionale della Amministrazione dalla quale il carabiniere
dipendeva.
Ma sul punto può semplicemente
richiamarsi l'orientamento giurisprudenziale che, chiarendo
indirettamente la tralaticia affermazione circa la necessità che
l'attività del funzionario o dipendente sia in funzione di un fine
istituzionale dell'ufficio, considera insufficienti, per escludere il
rapporto di occasionalità necessaria, l'eventuale abuso del funzionario o
la illegittimità del suo operato se l'attività si innesti, comunque,
nel meccanismo dell'attività complessiva dell'ente e che,
conseguentemente, ritiene che il riferimento della condotta alla
pubblica amministrazione può venire meno solo quando il dipendente
agisca come semplice privato, per un fine strettamente personale ed
egoistico, ed il suo comportamento, non importa se colposo o doloso, non
sia perciò diretto al conseguimento di fini istituzionali che, in
quanto propri della Amministrazione, possono anche considerarsi propri
dell'ufficio nel quale il funzionario è inserito.
Posto
che anche l'arbitraria tracimazione dai compiti propri del funzionario o
del dipendente realizza un comportamento abusivo o comunque
illegittimo, il predetto principio giurisprudenziale comporta, infatti,
il riferimento alla pubblica amministrazione anche dell'atto in tal
guisa viziato se vi sia un suo collegamento con il rapporto che lega il
funzionario o dipendente alla pubblica amministrazione ed il fine
dell'atto sia comunque riconducibile a quelli della amministrazione.
La
Corte di merito non si è affatto discostata dal predetto principio;
essa ha, infatti, semplicemente considerato che il fine di generica
indicazione delle caratteristiche e delle modalità di uso della pistola
di ordinanza ai commilitoni meno anziani e perciò, in senso lato, meno
elevati in grado, potesse innestarsi nel meccanismo della attività
complessiva della Amministrazione dalla quale il Fe. dipendeva e che,
indipendentemente dalle specifiche competenze del reparto al quale lo
stesso era addetto e dalla eventuale illegalità dallo stesso consumata
nel tracimare dai propri specifici compiti senza per di più rispettare
le norme che governavano (e governano) le forme ed i modi della
istruzione nell'uso delle armi, la predetta attività dovesse perciò
ricondursi nell'ambito dei fini propri della predetta Amministrazione.
2.
La rilevata infondatezza dell'articolato motivo conduce al rigetto del
ricorso con la condanna del ricorrente Ministero al pagamento delle
spese di questo giudizio in favore del Fe., liquidate in Euro 5.100,00
di cui Euro 5.000,00 per onorari ed Euro 100,00 per spese, oltre spese
generali ed accessori di legge.
Possono essere invece compensate le spese tra il Ministero ricorrente e l'I.N.P.S..
P.Q.M.
La
Corte, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in
favore del F., delle spese del giudizio in cassazione, liquidate in Euro
5.100,00 di cui Euro 100,00 per spese, Euro 5.000,00 per onorari, oltre
spese generali ed accessori di legge;
compensa
le spese nei confronti dell'INPS. Così deciso in Roma, nella Camera di
consiglio della terza sezione civile, il 20 novembre 2007.
Depositato in Cancelleria il 30 gennaio 2008
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