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sabato 4 gennaio 2014

Cassazione: Il datore di lavoro può dilazionare la sanzione disciplinare in attesa di conoscere l’esito di indagini in corso in sede penale – Non v’è pregiudizio per il principio di immediatezza




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Il datore di lavoro può dilazionare la sanzione disciplinare in attesa di conoscere l’esito di indagini in corso  in sede penale – Non v’è pregiudizio per il principio di immediatezza


Cass. civ. Sez. lavoro, 27-03-2008, n. 7983
Fatto Diritto P.Q.M.

Svolgimento del processo

Con ricorso al Tribunale di Napoli, depositato l'11 maggio 2001, C.S. impugnava il licenziamento intimatogli dall'ENEL in data 6 aprile 2001.
Il ricorrente esponeva che il licenziamento era stato intimato per fatti che sarebbero avvenuti nel luglio 1998, appresi dall'ENEL nel giugno 1999; contestava nel merito l'addebito ed eccepiva il ritardo nella contestazione.
L'ENEL, costituitosi, deduceva che aveva appreso del fatto addebitato al sig. C. a seguito delle dichiarazioni rese da un utente, ma aveva ritenuto necessario denunciare il fatto all'Autorità Giudiziaria, avendo provveduto alla contestazione dopo la comunicazione della richiesta di rinvio a giudizio del lavoratore, anche perchè la documentazione aziendale attestava la presenza del lavoratore in altro luogo nel giorno e nell'ora indicati dall'utente.
Esponeva che il fatto contestato - manomissione di un misuratore aziendale del consumo di energia elettrica - era tale da ledere irreparabilmente il rapporto di fiducia.
Il Tribunale accoglieva la domanda, annullava il licenziamento e disponeva la reintegrazione nel posto di lavoro ed il risarcimento del danno; e la Corte di Appello di Napoli, con sentenza del 18 febbraio/4 marzo 2004 rigettava l'appello della società.
I giudici di secondo grado osservavano che le censure dell'appellante avverso la ritenuta tardività della contestazione erano infondate.
Rilevavano che i fatti ascritti - alterazione di un misuratore presso il domicilio di un utente - costituivano, prima che un illecito penale, una condotta contraria ai doveri di servizio; che il datore di lavoro era in grado di accertare la materialità del fatto e la ascrivibilità al ricorrente, forse con possibilità migliori dello stesso giudice penale; che l'itinerario di servizio, la composizione della squadra cui apparteneva il C. ed i mezzi aziendali da questi utilizzati risultavano dalla documentazione del datore di lavoro, che avrebbe potuto agevolmente procedere ad un riscontro della rispondenza al vero di dette risultanze; che avrebbe potuto procedere a verifiche tecniche sul misuratore per valutare se la manomissione aveva richiesto una particolare competenza tecnica o la utilizzazione di strumenti in dotazione al solo personale ENEL; che, se il datore di lavoro aveva inteso dare rilievo alla conoscenza dell'evento in senso tecnico giuridico (materialità del fatto e commissione da parte del lavoratore con i requisiti richiesti per la configurazione di un reato), alcuna rilevanza poteva essere attribuita alla mera richiesta di rinvio a giudizio, certamente non idonea a fondare un giudizio di colpevolezza.
Aggiungevano che la immediatezza, pur nel senso relativo chiarito da questa Corte di Cassazione, oltre a garantire al lavoratore una efficace difesa in prossimità degli eventi, è altresì diretta a tutelare l'affidamento in relazione ad una possibile rinunzia all'esercizio del potere disciplinare. Rilevavano che l'ENEL per circa due anni aveva omesso non solo la contestazione disciplinare, ma qualsiasi provvedimento cautelare - sospensione o destinazione a mansioni o ad una sede diversa - con conseguente violazione dei principi di correttezza e buona fede e dell'affidamento del prestatore.
Per la cassazione di tale decisione ricorre, formulando tre motivi di censura, illustrati con memoria, la s.p.a. Enel Distribuzione.
C.S. resiste con controricorso.

Motivi della decisione

1. La società ricorrente premette, in fatto, che l'8 giugno 1999, in occasione di un intervento per un guasto richiesto dal signor D.N.C. in relazione alla fornitura alla sua macelleria ubicata in (OMISSIS), era stata riscontrata una manomissione dei sigilli; che il 23 giugno era stata eseguita una verifica del misuratore, ed erano state riscontrate diverse manomissioni, che consentivano l'accesso agli automatismi del misuratore e l'alterazione della registrazione dei consumi; che il cliente, invitato il 28 giugno 1999 presso gli uffici Enel, aveva riferito verbalmente all'ing. M. che la manomissione era stata realizzata l'anno precedente ad opera di due dipendenti Enel, che avevano preteso la somma di L. 1.500.000; che il 5 agosto successivo il cliente aveva rilasciato una dichiarazione alla presenza del Dott. P., capo unità clienti, affermando che il 16 luglio 1998 si erano presentati nei locali della macelleria, alle 14,15 circa, due persone, qualificatesi dipendenti Enel, che gli avevano proposto un intervento sul contatore che avrebbe consentito un notevole risparmio; che aveva accettato, ottenendo, dopo lunga trattativa, la riduzione ad 1.500.000 del maggiore compenso richiesto; che il D.N. aveva riconosciuto, in una foto di gruppo, il sig. C. come uno dei due dipendenti che avevano proposto l'operazione; che dai rapporti giornalieri emergeva però che in quel giorno il dipendente C. si trovava in altre località ((OMISSIS)); che, atteso il contrasto fra il racconto dell'utente e la documentazione aziendale, aveva informato la Procura della Repubblica dei fatti; che il 25 gennaio 2001 era stato notificato alla ricorrente avviso che il 15.2.2001 si sarebbe tenuta l'udienza preliminare in relazione alla richiesta di rinvio a giudizio del C. ed altri; che dalla richiesta del PM allegata all'avviso risultava che il dipendente era imputato del delitto di cui agli artt. 110, 319, 320 e 3121 c.p., perchè "quale elettricista provetto esperto in servizio presso la sede Enel di (OMISSIS) e quindi nella qualità di incaricato di un pubblico servizio, agendo in concorso con altro dipendente allo stato non identificato, riceveva dal D.N., titolare di un esercizio commerciale sito in (OMISSIS), la somma di L. 1.500.000 (ridotta l'originaria richiesta di L. 2.000.000) per compiere un atto contrario ai doveri di ufficio, consistente nella manomissione del contatore e dei relativi sigilli con conseguente alterazione della registrazione dei consumi di energia elettrica".
Deduce che, avendo appreso dal verbale di sommarie informazioni acquisite dal PM che l'utente D.N. aveva confermato il riconoscimento sulla scorta dell'esame di diverse fotografie, aveva iniziato l'azione disciplinare.
2. Tanto premesso, con il primo motivo l'ENEL denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, e vizio di motivazione su punto decisivo.
Lamenta che i giudici di appello non hanno considerato che con l'impugnazione era stato evidenziato che l'attesa degli sviluppi delle indagini penali era stata determinata dalla impossibilità per il datore di lavoro di acquisire le fonti di prova, atteso che le testimonianze può raccoglierle un giudice e non un'azienda. Assume che una istruttoria condotta da essa società sarebbe stata irrilevante, oltre che di dubbia liceità.
La consapevolezza della avvenuta commissione del fatto non poteva perciò prescindere dalla acquisizione delle fonti di prova.
Critica poi la sentenza nella parte in cui afferma che l'ENEL poteva procedere a verifiche tecniche sul misuratore onde valutare le modalità della manomissione (con l'uso o meno di strumenti in dotazione al solo personale ENEL), sia perchè si tratta di una considerazione formulata di ufficio, in assenza di deduzione da parte del lavoratore, sia perchè non viene chiarito da quali elementi sia stata tratta la convinzione che i dipendenti della ricorrente dispongano di strumenti di non comune reperibilità.
Deduce poi che la decisione di attendere gli sviluppi del procedimento penale non comportava la necessità di attendere la sentenza (che era stata di assoluzione per difetto della qualifica di pubblico ufficiale).
3. Con il secondo motivo, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 346 e 436 c.p.c., e L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 7, la società ricorrente critica la sentenza nella parte in cui valuta la mancata sospensione cautelare del dipendente per interpretarla quale comportamento concludente, da cui desumere la rinunzia del datore a licenziare.
Espone che con il ricorso introduttivo il ricorrente aveva invocato la mancata sospensione sotto un duplice profilo: a) se non hai sospeso non vi è giusta causa; b) ed hai, per altro verso, rinunciato a licenziare, rinuncia su cui ho fatto affidamento.
Deduce che il primo giudice aveva accolto la prima doglianza, escludendo la giusta causa, e non si era soffermato sulla seconda; e che il giudice di appello aveva accolto la seconda doglianza, nonostante non fosse stata riproposta in appello, così violando gli artt. 346 e 436 c.p.c..
Aggiunge che la mancata sospensione sarebbe stata comunque da valutare solo nel momento del raggiungimento della consapevolezza della esistenza di prove del racconto dell'utente.
4. Con il terzo motivo, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 1322, 1324, 1362 (in relazione all'art. 35 CCNL aziendale), 2071, 2104, e 2729 c.c., nonchè vizio di motivazione, la società ricorrente lamenta che i giudici di secondo grado non hanno considerato che l'art. 35, comma 4, del contratto aziendale dispone: "nel caso in cui l'entità della mancanza non possa essere immediatamente accertata, l'Ente, a titolo di cautela, può disporre l'allontanamento del lavoratore per un periodo di tempo non superiore a trenta giorni".
Lamenta che la Corte di Napoli non ha tenuto conto del fatto che la sospensione può essere disposta solo quando è certa la commissione dell'illecito e resta da accertarne solo l'entità; che nella fattispecie in esame essa società non poteva quindi sospendere il dipendente, e che è errata l'affermazione secondo la quale il contratto non potrebbe comprimere l'esercizio del potere di sospendere, che trova la sua fonte esclusivamente nella legge.
5. Il primo motivo di ricorso è, nei termini di seguito precisati, fondato.
Questa Corte ha ripetutamente chiarito che quando il fatto che da luogo a sanzione disciplinare abbia anche rilievo penale, il principio della immediatezza della contestazione, non pregiudicato dall'intervallo di tempo necessario all'accertamento della condotta del lavoratore ed alle adeguate valutazioni di questa, non può considerarsi violato dal datore di lavoro il quale, avendo scelto ai fini di un corretto accertamento del fatto di attendere l'esito degli accertamenti svolti in sede penale, contesti l'addebito solo quando i fatti a carico del lavoratore gli appaiano ragionevolmente sussistenti (Cass., 23 giugno 2003 n. 9963; 10 agosto 2006 n. 18155; 18 gennaio 2007 n. 1101).
Nel pervenire a tale conclusione questa Corte ha valutato i contrapposti interessi delle parti del rapporto di lavoro: l'interesse del lavoratore a vedersi contestati i fatti in un ragionevole lasso di tempo dalla loro commissione; l'interesse del datore di lavoro a non avviare procedimenti disciplinari prima di aver acquisito dati sufficientemente sicuri ed idonei a sostenere la contestazione.
Rileva il Collegio che tale principio, pienamente condivisibile, non è stato osservato dai giudici di appello nella fattispecie in esame.
I dati di fatto, non contestati nel corso di causa, sono costituiti dalla scoperta di un misuratore manomesso, dalla dichiarazione dell'utente ai funzionari dell'Enel che la manomissione sarebbe stata opera di due dipendenti dell'ente, dal riconoscimento di uno dei due presunti responsabili in una foto di gruppo, dalla constatazione che, secondo la documentazione aziendale, nel giorno indicato dall'utente come quello della alterazione del misuratore, il dipendente dallo stesso riconosciuto si trovava in località diverse.
La Corte di Napoli, dopo aver ricordato che la giurisprudenza di legittimità ha precisato che il tempo necessario per l'accertamento dei fatti ben può coincidere con lo svolgimento del procedimento penale, e che non può essere censurata la condotta del datore di lavoro che ritenga, anzichè procedere a proprie indagini, di attendere l'esito degli accertamenti in sede penale, ha poi ritenuto che nella fattispecie in esame non ricorresse l'ipotesi considerata dal giudice di legittimità.
E ciò perchè il fatto contestato al signor C., prima di costituire un illecito penale, rappresenta una condotta contraria ai doveri di servizio, posta in essere durante l'espletamento della prestazione ed utilizzando gli strumenti di lavoro posti a sua disposizione dall'Enel.
Secondo i giudici di appello l'Enel avrebbe potuto più e meglio del giudice penale accertare la materialità del fatto e la sua ascrivibilità al dipendente.
L'affermazione non è sorretta da adeguata e logica motivazione e, nei termini in cui è formulata, contrasta con il principio sopra ricordato, in quanto pretende di imporre al datore di lavoro lo svolgimento di una attività investigativa parallela a quella svolta in sede penale tutte le volte che, secondo una denuncia o segnalazione, il fatto penalmente rilevante sarebbe stato commesso durante l'orario di servizio e con violazione dei doveri propri del dipendente; ravvisando colpevole inerzia nel comportamento che si concreti nella denuncia dei fatti all'Autorità giudiziaria e nell'attesa degli sviluppi delle indagini dalla stessa disposte.
Il primo motivo va quindi accolto nella parte in cui lamenta violazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, per la non corretta valutazione, da parte della Corte napoletana, del comportamento consentito al datore di lavoro nel caso in cui gli venga segnalata una condotta scorretta di un dipendente e, di conseguenza, in ordine al tempo necessario alla acquisizione di dati che gli consentano di ritenere i fatti, aventi rilevanza disciplinare, ragionevolmente sussistenti.
Infondata, invece, è la censura relativa alla natura delle dichiarazioni rese al PM in sede penale; se è vero che le testimonianze (in senso tecnico processuale) può raccoglierle un giudice è non un privato, è anche vero che il pubblico ministero non è giudice e può solo assumere informazioni dalle persone informate sui fatti (art. 362 c.p.p.), anche se le dichiarazioni a lui rese possono integrare, nella concorrenza dei relativi presupposti, il reato di calunnia.
La sentenza erra anche nella parte in cui afferma la irrilevanza della sola richiesta di rinvio a giudizio, in quanto non idonea a fondare un giudizio di colpevolezza.
Non è infatti la certezza della colpevolezza del dipendente che è necessario acquisire da parte datoriale per la instaurazione del procedimento disciplinare, ma una serie di elementi che rendano ragionevolmente sussistenti gli addebiti, elementi che ben possono essere costituiti dalle indagini svolte, direttamente o attraverso la polizia giudiziaria, dal pubblico ministero.
6. Il secondo ed il terzo motivo, che si trattano congiuntamente per gli evidenti aspetti di connessione, sono fondati nei limiti di seguito precisati.
Non vi è stata violazione degli artt. 346 e 347 c.p.c., atteso che il lavoratore, vittorioso in primo grado, si era riportato, nella memoria di costituzione in appello, ai motivi e alle argomentazioni del ricorso introduttivo; e tanto è sufficiente a far ritenere non abbandonate le argomentazioni svolte in ordine al significato attribuito alla inerzia del datore di lavoro.
Va poi considerato che il giudice del merito ha il potere istituzionale di valutare fatti e comportamenti acquisiti in causa per dedurne la sussistenza o meno della contestata giusta causa di licenziamento.
Fondata, invece, è la censura relativa alla valutazione della mancata sospensione come indicativa di una volontà di rinunciare all'azione disciplinare, atteso che non considera, da un lato, la situazione di attesa delle indagini penali avviate a seguito di denuncia proprio del datore di lavoro, e, dall'altro, i presupposti richiesti dalla contrattazione collettiva per l'irrogazione della sospensione.
7. In conclusione il ricorso va accolto per quanto di ragione, la sentenza impugnata va cassata nei limiti delle censure accolte e la causa va rinviata ad altro giudice di secondo grado, che si indica nella stessa Corte di Appello di Napoli in diversa composizione. Il giudice di rinvio applicherà il seguente principio di diritto: "La tempestività della contestazione di cui al secondo comma della L. n. 300 del 1970, art. 7, va valutata in relazione al momento in cui i fatti a carico del lavoratore, costituenti illecito disciplinare, appaiono ragionevolmente sussistenti. Quando il fatto costituente illecito disciplinare ha anche rilevanza penale, il principio della immediatezza della contestazione non può considerarsi violato quando il datore di lavoro, in assenza di elementi che rendano ragionevolmente certa la commissione del fatto da parte del dipendente, porti la vicenda all'esame del giudice penale e si attivi non appena la comunicazione dell'esito delle indagini svolte in sede penale gli faccia ritenere ragionevolmente sussistente l'illecito disciplinare, senza che per questo debba attendere la conclusione del processo penale".
Il giudice di rinvio regolerà anche le spese di questo giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso per quanto di ragione, cassa la sentenza impugnata in relazione alle censure accolte e rinvia la causa, anche per le spese, alla Corte di Appello di Napoli in diversa composizione.
Così deciso in Roma, il 15 gennaio 2008.
Depositato in Cancelleria il 27 marzo 2008

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