Translate

sabato 4 gennaio 2014

Cassazione: Demansionamento e mobbing: a ciascun danno la sua prova La dequalificazione professionale non assurge di per se a dimostrazione di una volontà oppressiva e vessatoria da parte del datore di lavoro




Nuova pagina 1
Demansionamento e mobbing: a ciascun danno la sua prova
La dequalificazione professionale non assurge di per se a dimostrazione di una volontà oppressiva e vessatoria da parte del datore di lavoro
LAVORO (RAPPORTO)   -   SANITA' E SANITARI
Cass. civ. Sez. lavoro, 29-01-2008, n. 1971
Fatto Diritto P.Q.M.

Svolgimento del processo

O.M., già coordinatrice socio assistenziale di 6^ livello presso l'Ospedale civile di (OMISSIS), chiede, esponendo quattro motivi d'impugnazione, la cassazione della sentenza della Corte d'appello di Torino che, in parziale accoglimento dell'appello, ha condannato l'azienda a pagarle, a titolo di danno da dequalificazione professionale (perdita di chances e di progressione di carriera) l'ulteriore somma, oltre interessi e rivalutazione, di Euro 17.766,12 e compensato per metà le spese processuali dei due gradi. La Corte ha ritenuto parziale la liquidazione, disposta in prime cure in suo favore, di Euro 15.000, limitatamente al danno da demansionamento, rispetto a una complessiva domanda fondata su pretesi episodi di mobbing subiti, a cavallo e dopo il parto, dal 97 e "attuati (secondo il riassunto fattone dalla sentenza impugnata) mediante: A) modifica arbitraria e vessatoria dell'orario di lavoro;
B) discriminazione operata con la nuova pianta organica e con l'applicazione fattane dall'Ente; C) svuotamento di mansioni; D) emarginazione; E) violenza morale", con danno biologico del 15%, e la conclusiva richiesta (ibidem) del "riconoscimento del 7^ livello dal dicembre 1998 o, in subordine, la corresponsione del relativo trattamento economico; il risarcimento del danno da mobbing; la l'assegnazione delle mansioni per le quali era stata assunta e che aveva svolto fino al momento della sospensione del rapporto per maternità; il risarcimento del danno da dequalificazione professionale".
In particolare la sentenza d'appello ha ritenuto che non fossero fondate le censure concernenti il mancato riconoscimento di una maggiore retribuzione, "non potendo pretendere il riconoscimento del trattamento economico di 7^ livello in conseguenza dello svolgimento di fatto di mansioni dequalificate rispetto al suo iniziale (6^) livello d'inquadramento"; le eccepite modificazioni dell'orario di servizio (intervenute, invece, per favorire le esigenze della sua maternità), peraltro contenute nei parametri legali e della pianta organica (essendo stato previsto un concorso "pubblico", con il titolo professionale d'infermiera, per la copertura dell'ambito 7^ livello), mentre la domanda di reintegrazione era impossibile, avendo la O. dato nel frattempo le dimissioni. Ha aggiunto, in relazione alla valutazione del danno biologico, liquidato dal Tribunale in Euro 15.000, che lo svuotamento di mansioni aveva giustificato tale equitativa valutazione, ma che non erano emersi episodi di mobbing che ne potessero giustificare l'incremento, riconoscendo per il periodo di riferimento (dicembre 98/luglio 02, data delle dimissioni), a titolo di danno da dequalificazione professionale (perdita di chances e di progressione di carriera), la somma di Euro 17.766,12, pari al 30% in più del suo stipendio lordo, escluso l'intento vessatorio o persecutorio dei vari episodi denunciati in connessione alla maternità, perchè non provati o giustificati (degrado del locale lavorativo; prelievo ematico riconosciuto dalla stessa O. "non ritorsivo"; nuova pianta organica con assunzione di nuovo personale; ferie; episodio del bagno, ecc.). L'Ospedale resiste con controricorso segnalando l'invalidità della procura posta a margine del ricorso, perchè riferita "a questa procedura (in ogni fase di giudizio occorrente, sia di merito che di esecuzione) ..." e contesta, nel merito, i motivi di ricorso addotti. L'Ospedale ha depositato memoria.

Motivi della decisione

L'eccezione d'inammissibilità del ricorso per difetto di valida procura, da valutare in linea preliminare di rito, sebbene astrattamente condivisibile in relazione alla scrittura che ne compone il testo, manifestamente riferibile ai giudizi della fase di merito, non è meritevole di accoglimento in base alla sua collocazione a margine del ricorso, dov'è richiamata nel preambolo, e alla data della sottoscrizione (18 maggio 2004), successiva alla stesura dell'impugnazione (14 maggio).
Ciò detto, con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione di norme di diritto, ex art. 360 c.p.c., n. 3 in relazione agli artt. 2697, 2087 e 2043 c.c., con riferimento alla domanda di risarcimento del danno da mobbing, sostenendo che il Giudice d'appello avrebbe errato nell'oneraria della prova del danno da mobbing, ovvero della vessatorietà dei comportamenti datoriali, stante il principio secondo cui una volta emersa la prova del fatto materiale, spetta al datore di lavoro la prova d'avere adottato tutte le cautele necessarie per evitare la produzione dell'effetto. Con il secondo mezzo la difesa dell' O. ipotizza difetti di motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5) in relazione al rigetto della domanda risarcitoria da mobbing, avendone il Giudice d'appello escluso la sussistenza ed avendo per contro individuato nella dequalificazione e nel demansionamento gli unici addebiti provati, da cui emergerebbe, invece, la discriminazione quotidiana, sistematica e continuata subita dalla dipendente. Con un terzo, concorrente profilo si contestano difetti di motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5) in relazione al rigetto della domanda risarcitoria da mobbing, non avendo la Corte tenuto in debita considerazione la testimonianza E., che riferì della minaccia dei responsabili dell'Ospedale ai dipendenti di conseguenze disciplinari per chi avesse ancora intrattenuto rapporti con lei, trasferita a piano terra in un locale miserevole rispetto a quello precedentemente occupato al 1^ piano, e l'inaffidabilità del teste R., segretario amministrativo dell'Ospedale, che aveva, con la sua deposizione, giustificato il sequestro dell' O. nel bagno; le modifiche all'orario di servizio e il regime delle ferie.
Questi primi tre motivi meritano di essere valutati congiuntamente, intrecciandosi indissolubilmente fra loro.
Il loro esame non ne consente l'accoglimento, anche se la contestata osservazione della sentenza, secondo cui l' O. "non ha mai indicato per quali ragioni i responsabili dell'Ospedale, avrebbero improvvisamente deciso di vessare, danneggiare e denigrare ..." la dipendente (pg. 14, 1 alinea), risulta, nell'economia generale del giudizio, più che indice sintomatico del denunciato malgoverno della prova materiale di evenienze di mobbing, assolutamente superflua e da considerare, pertanto, tamquam non esset. Infatti, diversamente da quanto ipotizza la difesa ricorrente, questo Collegio non riscontra, in base all'analisi dei fattori su cui si fonda la motivazione della sentenza, "valutati in maniera congiunta", come vi si legge espressamente, alcuna violazione del principio dell'onere della prova, avendo la Corte di merito escluso con adeguata giustificazione, tenuto anche conto della riorganizzazione aziendale, coincisa con il ritorno dalla maternità dell' O., l'esistenza o la rilevanza probatoria dei dati fattuali sottoposti al suo esame e che avrebbero dovuto evidenziare, secondo l'impostazione processuale della dipendente, la cattiva gestione delle nonne invocate (v., in particolare, l'episodio del bagno, rimasto vago, come emerge dalla sentenza che, nel suo libero convincimento, non scrutinatale in questa sede, essendo plausibilmente motivato, ha dato credito alla spiegazione fornita dal R., a fronte della testimonianza del teste N.). Parimenti, la doglianza delle variazioni dell'orario di servizio, giustificate dall'azienda ospedaliera in funzione della maternità della O., avrebbe dovuto indurre questa parte a far risaltare espressamente e specificatamente il dato probatorio trascurato o sottovalutato dalla Corte sabauda, tale da incidere sul giudizio a lei sfavorevole. D'altra parte, mentre la rimostranza sulla svalutazione operata dalla Corte territoriale in ordine alla variazione della pianta organica, come indice rivelatore d'un atteggiamento ostile e persecutorio, non merita, per la sua giuridica inconsistenza, alcuna menzione, per contro, quella sul demansionamento ha trovato convergente adesione sotto il profilo del fatto obiettivo lamentato, dando coerentemente luogo alla appropriata riparazione economica che si legge in sentenza.
Nè merita d'essere condivisa la censura che predica il malgoverno del demansionamento e della dequalificazione come sintomatici elementi di catalizzazione, unificazione e rivelazione dei vari episodi di mobbing di cui s'è fatto cenno, stante l'evanescenza dell'osservazione secondo cui tali situazioni necessariamente assurgono a dimostrazione di una volontà oppressiva e vessatoria di mobbing, a fronte delle logiche e equilibrate considerazioni della Corte torinese e, in questo contesto, si sfarina anche la censura, ricavabile dalla complessiva lettura degli atti regolamentari, dell'allontanamento della dipendente dalla sua precedente, più favorevole ubicazione e collocazione logistica. Con ulteriore doglianza si ipotizzano, infine, difetti di motivazione in ordine alla dimezzata riliquidazione (Euro 2.000,00), da parte della Corte territoriale, delle spese di primo grado, in tesi, percentualmente inferiori alla liquidazione, in primo grado, di _ 2000, quale importo commisurato al 30% del totale.
La censura non merita d'essere presa in considerazione, tenuto conto che non s'identificano, in ricorso, particolari violazioni di legge nella valutazione dei massimali di riferimento di cui s'ignora la consistenza, ma solo si richiama un dato matematico che non ha in questa sede autonoma rilevanza.
Le spese processuali di questo giudizio di cassazione meritano d'essere compensate in considerazione della natura e dell'oggetto della controversia, della prospettazione delle questioni giuridiche reciprocamente addotte dalle parti, nonchè del complessivo sviluppo processuale (art. 92 c.p.c., comma 2, nel testo novellato dalla L. n. 263 del 2005, art. 2).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Spese compensate.
Così deciso in Roma, il 27 settembre 2007.
Depositato in Cancelleria il 29 gennaio 2008

Nessun commento: