Tribunale Parma Sez. lavoro, Sent., 30-08-2022
Fatto - Diritto P.Q.M.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE ORDINARIO DI PARMA
Sezione Lavoro
Il Tribunale di Parma, in funzione di giudice del lavoro, nella persona
del giudice designato per la trattazione, dott.ssa Ilaria Zampieri, nella causa
iscritta al n. 794/2017 R.G., promossa da:
x
RICORRENTI
contro
REGIONE EMILIA-ROMAGNA, in persona del Presidente pro tempore,
rappresentata e difesa per delega in calce alla memoria di costituzione e
difesa,
RESISTENTE
e contro
x
RESISTENTE
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
1. Svolgimento del processo.
1.1. Con ricorso depositato in data 17.08.2017 e ritualmente
notificato, i ricorrenti in epigrafe indicati, eredi legittimi di E.D.,
deceduta in data 4.02.OMISSIS per "mesotelioma pleurico",
convenivano in giudizio la Regione OMISSISnonché la Gestione Liquidatoria
dell'U.S.L. n. 4 P. B. E., datori di lavoro del loro dante causa, sull'assunto
che la malattia neoplastica che aveva cagionato la morte del loro congiunto
fosse stata cagionata dall'esposizione ad amianto presso l'Azienda O.P. ove la
Sig.ra D. aveva prestato la propria attività lavorativa, sin dal 1988, senza
essere stata preventivamente munita di idonei mezzi di protezione atti ad impedire
l'inalazione delle fibre di asbesto.
Chiedevano, quindi, la condanna delle convenute al risarcimento dei
danni subiti, pro-quota, iure hereditatis.
A tal fine deducevano: a) che la sig.ra D.E. aveva prestato la propria
attività lavorativa presso l'Azienda O.P. (già A. n. 4 B. E.) a far data dal
26.04.1988 e sino al suo decesso - avvenuto nel febbraio del OMISSIS - come
tecnico perfusionista; b) che tale attività - svolta dalla medesima, nel
triennio 1988/1991, presso il Padiglione di Nefrologia - prevedeva, tra le
altre cose, anche la gestione delle varie metodiche di circolazione
extra-corporea, della macchina cuore polmone e dell'assemblaggio del
macchinario stesso, oltre che il raccordo di alcuni tubi in PVC ad altri tubi
coibentati che portavano acqua calda direttamente alla centrale termica; c) che
le risultanze delle analisi condotte dallo studio Alfa - a ciò incaricato
dall'Università di Parma - avevano evidenziato che, all'interno dei campioni
prelevati da pavimenti, controsoffitti, pareti e coibentazioni dei tubi del
Padiglione Nefrologia, erano presenti fibre di amianto crisotilo; d) che la
perdurante esposizione della lavoratrice ai materiali contenenti amianto, oltre
che la manipolazione ed il contatto diretto con tubi a parete contenenti
amianto, avevano esposto la sig.ra E.D. all'inalazione di fibre del materiale,
ingenerando dunque la malattia poi causa del decesso, anche in considerazione
dell'assenza, sul luogo di lavoro, di aspiratori e della mancata
predisposizione di DPI specifici per il rischio di polveri di amianto; e) che
la sig.ra D. ebbe contezza della patologia contratta nel novembre 2010, a
seguito di accertamenti eseguiti dopo la comparsa di dolore toracico,
accertamenti successivamente ai quali si era reso necessario il ricovero - dal
28.11.2010 al 04.12.2010 - nonché un primario intervento; f) che, tuttavia, non
avendo tale intervento condotto al risultato sperato, la paziente era stata
costretta a sottoporsi, nel gennaio 2011, ad un ulteriore ricovero presso la
Chirurgia Toracica Oncologica del Bringham and Women's Hospital di Boston,
Centro di riferimento mondiale per il mesotelioma pleurico; g) che,
quivi, a seguito del complicato intervento chirurgico subito dalla sig.ra D.,
la medesima si sottoponeva a cicli di chemioterapia; h) che, nel settembre
2012, con la ricomparsa della malattia ed il progressivo peggioramento delle
condizioni di salute, la sig.ra D. non è più stata in grado di gestirsi in
autosufficienza, né tanto meno di godere delle piccole abitudini quotidiane
come la palestra, la passeggiata con il cane e l'andare a trovare i propri
parenti, con un conseguente aggravamento delle già deteriori condizioni
psicologiche; i) che, tanto il Dott. S. (nella relazione del diario generale
Inail del 6.09.2011), quanto il Dott. G. (in quella del 18.04.2012), così
certificavano: "Circa la latenza i 20 anni circa trascorsi tra l'inizio della
verosimile esposizione e la diagnosi sono compatibili con la latenza tipica di
questa forma di neoplasia, (…) tale esposizione è da ritenere pertinente al
luogo di lavoro e quindi da considerare rischio specifico dal momento che tali
circostanze espositive non sono generalizzabili e sovrapponibili a quelle di
tutta la popolazione generale" e che la sig.ra era impossibilitata al
"normale svolgimento degli atti quotidiani della vitaessendo obbligata a
trascorrere gran parte della giornata a letto. Respira a fatica ed è in
condizioni di non autosufficienza e allettamento pressoché continuo"; l)
che, in data 23.06.2011, l'Inail riconosceva la natura professionale della
patologia contratta dalla sig.ra D. con costituzione di una rendita per un
grado di inabilità dapprima riconosciuto in una misura pari all'80%, e
successivamente elevato al 100%; m) che, infine, a seguito del decesso della
sig.ra D., veniva costituita una rendita di reversibilità in favore del
coniuge, Dott. B.; n) che il Dott. C., incaricato di effettuare una valutazione
medico legale, nella propria relazione del 31.07.2014, certificava la
correlazione tra l'esposizione all'amianto subita dalla sig.ra D. e la
patologia dalla stessa contratta, affermando l'esistenza di un nesso di
causalità fra l'esposizione ambientale all'asbesto e lo sviluppo del
mesotelioma pleurico maligno, rivelatosi fatale per la donna; o) che le
richieste risarcitorie avanzate dagli odierni ricorrenti nei confronti dell'A.
di P. rimanevano, tuttavia, prive di riscontro, costringendo i medesimi ad
adire l'intestato Tribunale.
Tanto esposto in fatto, i ricorrenti chiedevano l'accoglimento delle
seguenti conclusioni: "Voglia il Tribunale in funzione di Giudice del
Lavoro l'II.mo adito, ogni contraria istanza disattesa e previa ogni altra
opportuna declaratoria di legge: - accertata e dichiarata, per le ragioni e le
causali tutte di cui alle premesse, la responsabilità del datore di lavoro
della sig.ra D.E., già U. n. 4 P. B. E., nella causazione nella persona della
dipendente D.E. della patologia tumorale - malattia professionale che ne ha
determinato il decesso in data 04.02.OMISSIS, conseguentemente dichiarare
tenuti e condannare ex D.Lgs. n. 502 del 1992, L. n. 724 del 1994 e L. n. 594
del 1995, i convenuti Regione Emilia Romagna, nella persona del Presidente pro
tempore nonché il direttore Generale dell'A. di P., nelle loro suesposte
qualità, al risarcimento dei danni non patrimoniali, sofferti in vita dalla
sig.ra D.E. in ragione della patologia tumorale - malattia professionale ut
supra, dalla data di manifestazione conclamata della malattia stessa (ottobre
2010) al suo decesso (04.02.OMISSIS), ed acquisito jure hereditario dagli
odierni ricorrenti tutti, e così condannarli a pagare il complessivo importo di
Euro 325.972,98=, già de valutatoalla data della conclamata manifestazione
della patologia (ottobre 2010), da liquidarsi in favore di ciascuno dei
ricorrenti in ragione della corrispondente e spettante quota ereditaria, e così
nella misura di 2/3 dell'intero importo indicato ovvero Euro 217.315,32=, ex
art. 582 c.c. in favore del coniuge superstite B.A.M., ed il residuo importo ut
supra, pari ad un terzo del totale, da dividere pro quota ex artt. 582 e 571
c.c., in favore della madre C.G. nonché di ciascuna sorella, D.B. e D.M.; il
tutto comunque oltre interessi e rivalutazione monetaria dall'ottobre 2010 sino
al saldo. Fatta salva in ogni caso la diversa quantificazione che risulterà
dovuta e/o di giustizia all'esito dell'istruttoria e del giudizio".
1.2. Le convenute amministrazioni si costituivano in giudizio,
chiedendo il rigetto del ricorso in quanto ritenute infondate in fatto e in
diritto.
1.3. La causa veniva istruita con l'acquisizione dei documenti prodotti
dalle parti, l'assunzione della prova testimoniale, nonché a mezzo Ctu
ambientale e Ctu medico-legale.
1.4. In data 1.03.2022, a seguito della discussione, il giudice
decideva la causa sulle conclusioni rassegnate dalle parti negli scritti
difensivi e su quelle della perizia medico svolta dal CTU, dando lettura del
dispositivo della sentenza ex art. 429 c.p.c. e riservando il deposito della
motivazione entro il termine di 60 giorni.
2. Motivi della decisione
2.1. La competenza funzionale del Tribunale del Lavoro.
In via preliminare, e pregiudiziale, va dichiarata la competenza
funzionale del Giudice del lavoro, nei limiti di seguito precisati, in quanto:
"per controversie relative a rapporti di lavoro subordinato ai sensi
dell'art. 409, n. 1, c.p.c., debbono intendersi, non solo quelle relative alle
obbligazioni propriamente caratteristiche del rapporto di lavoro, ma tutte le
controversie in cui la pretesa fatta valere in giudizio si ricolleghi
direttamente al detto rapporto, nel senso che questo, pur non costituendo la
causa petendi di tale pretesa, si presenti come antecedente e presupposto
necessario, e non già meramente occasionale, della situazione di fatto in
ordine alla quale viene invocata la tutela giurisdizionale, essendo irrilevante
l'eventuale non coincidenza delle parti in causa con quelle del rapporto di
lavoro" (cfr. Cass., 8 ottobre 2012, n. 17092; Cass. 22 marzo 2002, n.
4129; nonché Cass., 11 ottobre 2012, n. 17334).
Pertanto, anche le domande risarcitorie proposte nel presente giudizio
debbono essere trattate con il rito del lavoro, essendo questo applicabile, ai
sensi dell'art. 409 c.p.c., a qualsiasi controversia che trovi nel rapporto di
lavoro la ragione giustificativa della domanda, ancorché la causa si tenga tra
soggetti diversi da quelli del rapporto di lavoro medesimo.
Premesso, dunque, che i danni conseguenti al decesso di un soggetto si
distinguono tra quelli risarcibili agli eredi iure hereditatis (danni diretti
subiti dalla vittima e trasmissibili agli eredi) e quelli risarcibili iure
proprio (cd danni riflessi o indiretti), qualora il decesso riguardi un
lavoratore subordinato e gli eredi agiscano in giudizio sull'assunto che
l'evento morte sia derivato da un inadempimento contrattuale del datore di
lavoro ex art. 2087 c.c., costituisce ius receptum l'affermazione secondo cui
sussiste la competenza per materia del giudice del lavoro in relazione alla
domanda di risarcimento dei danni trasmessi agli eredi dal loro dante causa;
esulando, per contro, dalla competenza per materia del giudice del lavoro, e
restando devoluta alla cognizione del giudice competente secondo il generale
criterio del valore, la sola domanda di risarcimento dei danni proposta dai
congiunti del lavoratore deceduto non "jure hereditario", per far
valere la responsabilità contrattuale del datore di lavoro nei confronti del
loro dante causa, bensì "jure proprio", quali soggetti che dalla
morte del loro congiunto hanno subìto danno e, quindi, quali portatori di un
autonomo diritto al risarcimento che ha la sua fonte nella responsabilità extracontrattuale
di cui all'art. 2043
c.c. (ex multis, Cass. Sent. n. 7684/2015, Cass. n. 20355/2005 e n. 3650/2006).
2.2. Sulla legittimazione attiva.
Sempre in via preliminare, è bene evidenziare che i ricorrenti, come
detto, hanno agito, in qualità di eredi di E.D. e le resistenti non hanno
mosso, sul punto, alcuna specifica contestazione, per cui deve concludersi per
la sussistenza della loro legittimazione attiva iure hereditatis pro-quota.
2.3. Sul merito della causa.
All'esito delle prove acquisite, e, in particolare, in virtù della
ricostruzione dei fatti operata dal nominato Ctu - Ing. Felice Martino - sulla
base dei dati oggettivi desunti dalla copiosa documentazione versata in atti
dalle parti nonché all'esito del sopralluogo eseguito nel corso delle
operazioni peritali, può dirsi definitivamente accertato che:
- la Sig.ra D.E. ha prestato la propria attività lavorativa subordinata
quale tecnico perfusionista addetto alla circolazione extra corporea, c.d. CEC
o macchina cuore -polmone, presso l'Azienda O.P. (già U. n. 4 B. E.), a far
data dal 26/04/1988;
- solo a far tempo dall'anno 1991, la U.O. di cardiochirurgia è stata
spostata e definitivamente ubicata presso il Centro del Cuore Monoblocco
Piastra Tecnica dell'Ospedale di Parma;
- la Sig.ra D.E., nel triennio 1988-91, ovvero nel periodo in cui il
reparto di Cardiochirurgia era stato temporaneamente ubicato nel Padiglione di
Nefrologia (cfr. anamnesi lavorativa redatta dal Dott. M.S. dell'INAIL), ha
prestato servizio al primo piano del Padiglione, in adiacenza del reparto rene
acuti, sostando nei locali adibiti a sale operatorie, nei corridoi, in una
stanza riservata ai tecnici e nella sala di terapia intensiva;
- durante il sopralluogo n. 2 (cfr. all. verbale) si è appurato che
anche al piano seminterrato (locali nn. 019-023, con servizi annessi nei locali
nn. 020-021-022 - cfr. planimetrie dell'all. 6 di parte ricorrente -
valutazione del Rischio studio Alfa) vi erano locali frequentati dalla Sig. ra
D.E., in quanto, nel triennio 1988-91, tali ambienti erano adibiti a
spogliatoio per il personale in servizio;
- il CTU ha individuato sostanzialmente 3 sorgenti di amianto
aerodisperso negli ambienti di lavoro in cui ha operato la Sig.ra D.E. nel
triennio 1988-91:
1) Coibentazioni di tubazioni: raccordi in PVC della macchina
cuore-polmone, tubi a parete che portavano acqua calda direttamente dalla
centrale termica, tubazioni nel locale 019 adibito a spogliatoio: a riguardo,
il CTU, a pag. 6 della relazione, ha precisato: "Premesso che tutte le
tubazioni che trasportano fluidi "caldi" (cioè a temperatura
superiore a quella ambiente) necessitano di una coibentazione (per ovvie
ragioni), all'epoca l'amianto era immancabilmente presente in tali coibentazioni
(soprattutto crisotilo, la forma più diffusa delle sei specie di silicati
idrati), per le sue ottime qualità termiche e per il suo basso costo)";
2) Pavimentazione vinilica in tutti gli ambienti di lavoro: a riguardo,
il CTU, a pag. 7 della relazione, ha precisato: "Siamo, invece,
perfettamente d'accordo con quanto scrive il Dott. F.D.V. (responsabile Area
Amianto dello studio ALFA - cfr. pag. 3 all. 6 parte ricorrente):
"L'analisi del pavimento (campione 155) ha messo in luce la presenza di
fibre di amianto nel solo collante, probabilmente appartenente alla
pavimentazione vinilica originale e negli anni rimossa e sostituita con la recente
pavimentazione senza amianto" Si consideri che il Dott. F. D.V. dello
studio ALFA conosce molto bene la realtà degli edifici dell'Università di
Parma, per aver personalmente redatto e firmato le Relazioni amianto, relative
a tali immobili, degli anni 2012-OMISSIS-2014-2015-2016-2017. Da tali
relazioni, peraltro, (fornite al sottoscritto CTU ed attentamente esaminate) si
evince chiaramente che, ancora oggi la grande maggioranza dei pavimenti
vinilici tuttora in sito contiene amianto. Figuriamoci nel triennio 1988-91,
quando l'uso dell'amianto era consentito. Dunque, si ribadisce, quelle fibre di
amianto, rilevate dallo studio ALFA nel 2010-11, nel solo collante,
appartengono alla pavimentazione vinilica originale";
3) Pannelli di tamponamento (lati esterno ed interno) e porte interne:
sul punto, il CTU, a pagg. 8, 9, 10, 11 e 12 della relazione, ha precisato:
"Si tratta di lastre di GLASAL (denominazione commerciale) in resina,
compresse e stabilizzate in autoclave,ricoperte con smalto minerale: contengono
crisotilo (il più comune delle forme di amianto). Idonee per rivestimenti
esterni ed interni. Si è fatto un largo uso di tali pannelli, quali tamponature
esterne di molti edifici pubblici, soprattutto negli anni 60-70… Nell'edificio
in esame (Cardiologia, temporaneamente ubicata nella Nefrologia), come già
detto, i pannelli in GLASAL rivestono i tamponamenti, ai piani rialzato e primo
(lati esterno ed interno) e si ritrovano anche nelle porte interne dei medesimi
piani (circa una ventina per ognuno dei livelli). Per ribadire la pericolosità
delle lastre di GLASAL, che il Dott. F.D.V. dello Studio ALFA semplicemente ed
efficacemente descrive quali "lastre piane di cemento amianto
verniciate" è sufficiente leggere quanto egli scrive nell'all. 6 di parte
ricorrente. Riportiamo testualmente: "In sintesi, si ritiene non essere
presente una situazione di rischio per gli occupanti dell'edificio… salvo
l'adozione di una politica più cautelativa che consideri la maggior delicatezza
opportuna in un contesto ospedaliero e la frequentazione dei locali da parte
del pubblico"… Ancora il Dott. D.V.: "Pur non ritenendo necessaria
l'apposizione di avvertenze (etichettatura) sui pannelli, si ricorda che deve
essere minimizzato il disturbo degli stessi durante le operazioni di
manutenzione ordinaria e di pulizia. Gli operatori dovranno essere informati
della presenza dell'amianto nei materiali e la pulizia degli stessi potrà
avvenire preferibilmente con stracci umidi. Si dovrà assolutamente evitare
qualsiasi azione invasiva sul MCA tipo l'uso di utensili ad alta velocità:
trapani, mole,ecc"…Allora, prima di tutto, va detto che l'apposizione di
avvertenze (etichettatura) oltre che dalla logica e dal buon senso, è dettata
dalla stessa normativa vigente: D.M. 6 settembre 1994 - punto 4a) - Programma
di controllo. - fornire una corretta informazione agli occupanti dell'edificio
sulla presenza di amianto nello stabile, sui rischi potenziali e sui
comportamenti da adottare; …Quindi il decreto ministeriale parla chiaro:
bisogna informare non solo gli "operatori"; ma tutti, indistintamente
gli occupanti dell'edificio, quindi anche gli utenti che vengono dal di fuori!
E come si può fare, se non apponendo avvertenze che informino sui rischi
potenziali e sui comportamenti da adottare ?!? In secondo luogo, quello che il
Dott. D.V. qualifica "BUONO" (è lo stato di conservazione delle
lastre piane di cementoamianto, e delle porte del reparto) sarà stato pure vero
nel 2010-2011 (anni in cui è stato redatto l'all. 6 di parte ricorrente), ma
certo non nel 2015 e nel 2017. Infatti, dalla copiosa documentazione fornita al
CTU dalla Università degli Studi di Parma, citiamo: 1) Comunicazione Amianto
AOPR 2015 - Firmata il 16/04/2015 dal Responsabile del Servizio Prevenzione e
Protezione Ing. M.M.; 2) Relazione Amianto 2017- firmata il 29/08/2018 proprio
dal Dott. F.D.V.: Riportiamo dal secondo documento (il primo è praticamente
identico): MCA 21 Parete (pannello lato interno) 10.02 Clinica Medica e
Nefrologia Presente in molti locali ai piani primo e rialzato (E’ IL PANNELLO
DI GLASAL). Osservazioni, note, risultanze: Compatto, trattato
superficialmente, ma localmente danneggiato (presenza di fori al P1 loc 047 e
al Prialz loc 037-050) accessibile, locali frequentati da personale ed utenti)
STATO DI CONSERVAZIONE: DISCRETO Bonifica consigliata: restauro dei
danneggiamenti. E nei documenti forniti al CTU risultano numerose fotografie di
pannelli di GLASAL con presenza di fori…La presenza di fori è risultata pure
durante i sopralluoghi effettuati dallo scrivente (cfr. all. verbali e
documentazione fotografica). Dunque, ci sembrano più che lecite le seguenti
conclusioni: se ancora oggi a n. 27 (ventisette) anni di distanza dalla L. n.
257 del 27 marzo 1992 (ossia quella della "messa al bando"
dell'amianto) e dopo che è stata più che acclarata la estrema pericolosità dei
pannelli di GLASAL, si continua a reperire fori in tali pannelli, esisteva un
qualsiasi impedimento nel triennio 1988-91 alla pratica di forarli per
soddisfare le numerose e svariate "esigenze tecniche" ?!? No, nel
modo più assoluto! Non esisteva alcun impedimento! La anamnesi lavorativa della
Sig.ra E.D., effettuata dal Dott. M.S. dell'INAIL di Parma, per esempio,
riporta: "Ricorda anche interventi sulle pareti, ad es. per sostituire
prese ed anche da parte dell'idraulico per riparare gli scarichi. Ricorda
inoltre che le scaffalature che utilizzava per riporre l'attrezzatura
chirurgica erano fissate alla parete e che periodicamente si distaccavano dalla
parete stessa, rendendosi necessario l'intervento di manutenzione e
ripristino"";
- quanto ai quantitativi d'amianto presenti negli ambienti di lavoro in
cui ha operato la Sig. E.D., il CTU ha così concluso:
"1) Coibentazioni di tubazioni
Da Ev@lutil (fonte francese)
- Dei cartoni in amianto erano stoccati in un magazzino, ma non è stata
effettuata alcuna manipolazione durante il campionamento: 30 ff/lt
- Valutazione dell'esposizione all'amianto degli operatori dei forni in
una vetreria. Si tratta di una esposizione passiva derivante dalla presenza di
giunti sotto forma di trecce sui forni: 30 ff/lt.
Dunque un minimo di strofinio su MCA abbastanza compatti (cartoni)
ovvero la semplice azione del calore produce tali valori di concentrazioni di
fibre. Ma le temperature con cui noi abbiamo a che fare, nel caso in esame,
sono notevolmente inferiori, senza alcun dubbio, a quelle che si potevano
trovare nei forni di una vetreria. Pertanto operiamo una drastica riduzione al
10% dei suddetti valori: C1 = 3 ff/lt. Una ulteriore riduzione non è neanche
proponibile: significherebbe arrivare praticamente a zero, è ciò equivarrebbe
ad ignorare un fenomeno fisico che esiste in modo incontestabile: il decomporsi
dell'amianto (con relativa dispersione di fibre) per effetto del calore (cioè
lo "stress termico", di cui s'è già detto);
2) Pavimentazione vinilica in tutti gli ambienti di lavoro.
Da Institut National de Recherche et de
Sécurité (INRS - fonte francese) Situations de travail exposant à l'amiante
- Pulizia pavimento a secco senza aspirazione con singolo disco
(spazzola) abrasivo: 1.600 ff/lt;
- Pulizia pavimento a umido senza aspirazione con singolo disco
(spazzola) abrasivo a rotazione lenta: 3,8 ff/lt.
Il primo dei valori riportati è senza dubbio abnorme; ed enorme la
differenza fra i due. Saremmo portati a considerare quello più basso, ma
cerchiamo qualche conferma.
Corso di Formazione-Aggiornamento Regione Emilia Romagna- ARPA- sez.
Reggio Emilia (del 25/03/2014). Rimozione pavimento in vinil-amianto, rimozione
manuale una mattonella per volta. Tipo di campionamento: personale - Tecnica
analitica: M.O.C.F.
Numero di campioni: 15 5 - 15 ff/lt (media 9 ")
Nei primi due valori riportati si parla di "pulizia", gli
ultimi considerano la "rimozione". Nel nostro caso è ipotizzabile che
ci siano state sia l'una (ordinaria), che l'altra (straordinaria).
Ancora un dato: l'ISPESL ha effettuato dal 1992 al 2002 numerose
indagini ambientali in n. 59 scuole, in diverse regioni d'Italia, con pavimenti
vinilici.
Tecnica analitica: S.E.M. (Microscopia Elettronica a Scansione)
Risultati: 0,4 ff/lt (83% dei casi) equivalenti in M.O.C.F. a 4 ff/lt
2,2 ff/lt (17% ") " 22 "
Dunque, nella grande maggioranza dei casi indagati, il valore più basso
prima trovato si trova confermato e noi prudentemente lo consideriamo: C2 = 3,8
ff/lt;
3) Perforazione di lastre di cemento-amianto
Dalla "Valutazione dell'esposizione all'amianto ai fini dei
benefici previdenziali"
Autori: U. V. e G. R. della Direzione Generale INAIL
Perforazione di lastre di cemento amianto: 900 ff/lt
Ma tale valore di concentrazione va ridotto in misura congrua.
Queste, infatti, sono le fibre che "colpiscono" l'operatore e
non chi si trova nell'ambiente a qualche metro di distanza: ossia colui che, in
linguaggio tecnico, vienedenominato "bystander" (cioè l'assistente,
colui che sta vicino; ma che materialmente non sta operando).
In quale misura va effettuata tale notevole riduzione?
"Un metodo pratico per la stima dell'esposizione pregressa ad
inquinanti aerodispersi di figure professionali bystander"
Autori: P. D.S. e P. D. della Direzione Regionale Lazio INAIL
Consulenza Tecnica Accertamento Rischi e Prevenzione (CONTARP)
Tale lavoro presenta un modello deterministico proposto nel 1999 dal
Dott. J. W. C. (noto studioso in materia), che, note le concentrazioni tipiche
delle lavorazioni emittenti, le dimensioni del locale frequentato e le
condizioni di ventilazione, consente di individuare con ragionevole grado di
approssimazione la "notevole riduzione".
Valutando quella in esame una situazione intermedia fra il large store
(in pratica un ampio capannone industriale) ed una small room (cioè quella
delle artigianali vetrerie di Murano), si ritiene prudente considerare
esattamente un valore medio fra le due situazioni estreme. E questo perché nei
locali di Cardiochirurgia esisteva un impianto di condizionamento. In altri
termini, se considerassimo solo le dimensioni dei locali in esame, dovremmo
valutare la situazione - chiaramente peggiorativa - della small room; ma,
grazie all'impianto che assicurava ricambi d'aria, possiamo considerare - si
ribadisce - una riduzione intermedia: 21%
Dunque: 900 ff/lt x 0,21 = 189 ff/lt
Prima di proseguire, va comunque rilevato che "i ricambi
d'aria" sono ben diversi dalle "aspirazioni localizzate": sono
due cose completamente differenti!
E su tale aspetto torneremo a breve.
Ma dobbiamo applicare una ulteriore riduzione.
Abbiamo considerato un numero annuale di interventi di
perforazione/taglio delle lastre di cemento-amianto di: dieci (cioè, in cifra
tonda, mediamente uno ogni quaranta giorni), considerati gli ambienti in esame
nel loro complesso.
Il numero ipotizzato ci sembra un valore minimo più che verosimile, per
i seguenti motivi: a) i locali frequentati dalla Sig.ra E.D. erano numerosi: la
due sale operatorie, la sala di terapia intensiva, la sala riservata ai
tecnici, corridoi, spogliatoio, servizi igienici, ecc.; b) le porte del reparto
(anche esse costituite da pannelli di GLASAL) erano circa venti (al primo piano
ed altrettante al piano rialzato); c) "gli ambienti ospedalieri sono
soggetti ad interventi tecnici frequenti, anche in ragione della necessità di
mantenere sempre la perfetta efficienza" (Dott. M. - INAIL di Parma); d)
diversi fori e tagli sono presenti ancora oggi (cfr. documentazione fotografica
agli atti); e) nel triennio 1988-91 non esisteva alcun motivo ostativo alla effettuazione
di fori e/o tagli nelle lastre di cemento amianto: non era ancora scattato lo
"allarme amianto" e, di conseguenza, non esisteva alcuna
"avvertenza" che vietasse tale pratica (non esiste ancora oggi !?).
E’ più che nota, d'altra parte, la eccezionale persistenza in aria
delle fibre aerodisperse; consideriamo che le 189 ff/lt prima valutate
"vadano a zero" (in realtà non vanno mai a zero) nella metà del
periodo di tempo considerato (cioè in venti giorni) con legge lineare: ciò
significa che per venti giorni avremo mediamente 94.5 ff/lt (e, per i restanti
venti del periodo considerato: "zero" fibre, rivenienti da
perforazione/taglio di lastre di GLASAL). Quindi, si perviene a 94.50 ff/lt per
la metà del tempo totale.
Ed alla metà di tale valore, per l'intero arco di tempo; dunque C3 =
47,25 ff/lt.
Concentrazione di fondo CF
Che esista una concentrazione di fondo è decisamente acclarato ed
incontrovertibile.
Che ci piaccia o no, siamo purtroppo soggetti ad una "soglia
minima e persistente" di questa fibra "killer" che non è
assolutamente possibile eliminare.
Qual è il valore di questa concentrazione di fondo
"naturale"?
Ovviamente non è possibile dare una risposta univoca: dipende dagli
ambienti (di lavoro e di vita).
Noi abbiamo considerato uno studio effettuato da tre validi studiosi
del Regno Unito (2005): J.W.C. (lo abbiamo già citato), M.T. and H.C..
Il titolo della ricerca è: "Exposure and risks from wearing
asbestos mitts". Riteniamo che le situazioni riprodotte in tale studio ben
si adattino alla nostra: produzione di fibre d'asbesto in locali di dimensioni
medio-piccole (cioè non ambienti di "taglia industriale"), in cui
vengono anche riprodotte condizioni di ventilazione ("high localised
ventilation", dunque equivalenti al nostro impianto di aria condizionata).
Ebbene, al termine di ogni prova (e dopo la relativa misurazione delle
fibre emesse), la "camera di prova" veniva ripulita con una cura che
potremmo senz'altro definire "maniacale": aspirapolvere ad alta
efficienza e salviettine bagnate su tutte le superfici! Dopo aver effettuato
tale pulizia (e prima di effettuare la simulazione successiva) si misurava la
concentrazione di fibre, per assicurasi che fosse al massimo di 10 ff/lt. In
altri termini, sotto a questo valore non si riusciva a scendere: si accettava
questa soglia come ineliminabile "concentrazione di fondo". Ora, nel
nostro caso, saranno pure stati ambienti con un notevole livello di pulizia
(camere operatorie e terapia intensiva!); ma non riteniamo che si desse la
"caccia alle fibre d'amianto" con "aspirapolvere ad alta
efficienza e salviettine bagnate su tutte le superfici"! Ciò nonostante,
prudentemente consideriamo la stessa concentrazione di fondo: 10 ff/lt
Ma possiamo anche trovare una conferma, percorrendo un'altra strada.
Abbiamo già calcolato una concentrazione di fibre (valore medio per il
tempo totale) di 94,50/2 = = 47,25 ff/lt (dovuta alla sola perforazione delle
lastre di cemento-amianto). Ebbene, applichiamo a questo valore di
concentrazione la medesima percentuale di riduzione in precedenza già adoperata
(e di cui abbiamo già fornito sufficiente spiegazione), cioè 21%. In altre
parole, come se ci trovassimo davanti ad un'altra "fonte emittente" e
volessimo calcolare la concentrazione dell'ambientecircostante (cioè proprio la
"concentrazione di fondo"!), otteniamo: 47,25 x 0,21 = 9,9225 ff/lt
(ossia proprio il valore di cui parla J.W.C.).
Ma diamo anche uno sguardo alla letteratura in materia.
L'Organizzazione Mondiale della Sanità WHO (World Health Organisation)
riporta studi che definiscono accettabile (rischio di mesotelioma
compreso fra 1/1.000.000 e 1/100.000):
1,0 ff/lt (analisi in SEM) corrispondenti a 10 ff/lt (valutati in MOCF)
Corso di Formazione/Aggiornamento - arpa - Regione OMISSIS(2014)
Valori della "concentrazione di fondo"
Zone valutate in SEM valutate in MOCF
Aree urbane: 0,1- 2 ff/lt 1-20 ff/lt
Aree industriali: 5-40 ff/lt 50-400 ff/lt
Bonifica aree industriali: 2-20 ff/lt 20-200 ff/lt
Aree minerarie attive: 3-10 ff/lt 30-100 ff/lt
Reggio Emilia 1-1,5 ff/lt 10-15 ff/lt
(Autore Sala - Anno 1992)
Ci sembra che il valore della Concentrazione di fondo da noi
individuato non sia in contrasto con i dati sopra riportati.
Dunque, questo il risultato dei nostri calcoli:
E = C1 + C2 + C3 + CF = 64,05 ff/lt
E: esposizione alle fibre d'amianto aerodisperso, a cui è andata
soggetta la Sig.ra E.D. durante il triennio 1988-91, nei luoghi di lavoro
presso la Cardiochirurgia"
… Siamo pervenuti, con una serie di valutazioni, di cui abbiamo dato
ampie spiegazioni e delucidazioni, ad una esposizione complessiva a fibre di
amianto aerodisperse, nel triennio 1988-91, negli ambienti di lavoro della
Cardiochirurgia (all'epoca ubicata nella Nefrologia) di: 64,05 ff/lt
(valutazione effettuata in M., equivalente a 6,405 ff/lt in SEM) M.O.C.F.
Microscopia Ottica in Contrasto di Fase S. E. M. Microscopia Elettronica a
Scansione. Questa, molto verosimilmente, comunque con probabilità certamente
superiore al 50%, era la esposizione a fibre d'amianto aero-disperse, a cui è
andata soggetta la Sig.ra E.D. negli anni e nei luoghi suddetti. Se
confrontiamo tale esposizione con quelle caratteristiche degli opifici
industriali (le cosiddette zone calde, in cui "dilagava" un tempo
l'amianto) rileviamo che è sicuramente un valore modesto. Teniamo, comunque,
presente che le nostre stime sono state sempre "prudenziali". Ciò
nonostante siamo pervenuti ad un valore superiore al triplo delle 20 ff/lt
(valutato in MOCF), soglia oltre la quale il Decreto del Ministero della Sanità
del 06/09/1994 parla di "situazione di inquinamento in atto". Ed
abbiamo altresì superato (e, si ribadisce, sempre con valutazioni di estrema
prudenza) anche la soglia delle 50 ff/lt, definita dal suddetto D.M. del 6
settembre 1994 "soglia di allarme"".
In definitiva, pertanto, può ritenersi adeguatamente provato, tenuto
conto delle conclusioni cui è pervenuto il Ctu, che, in considerazione del
contatto diretto della Sig.ra D. con le tre fonti di amianto aerodisperso
rinvenibili, nel triennio 1988-91, presso il Padiglione di Nefrologia
dell'Azienda O.P. - ossia: 1) Coibentazioni di tubazioni; 2) Pavimentazione
vinilica in tutti gli ambienti di lavoro; 3) Pareti in lastre di cemento
amianto - oltre che dell'inquinamento di fondo, la lavoratrice ha subito un'esposizione
diretta ed indiretta alle fibre di asbesto superiore ai limiti di legge.
Tanto premesso, in ordine al nesso causale tra la nocività
dell'attività lavorativa svolta, la patologia contratta dalla Sig.ra E.D. ed il
decesso della medesima, si osserva quanto segue.
Prima di affrontare la specifica vicenda clinica della Sig.ra E.D., è
opportuno premettere, tenuto conto delle conoscenze acquisite dalla letteratura
scientifica in materia e che sono patrimonio comune, che l'amianto è un
minerale fibroso friabile la cui pericolosità per l'apparato respiratorio
dipende dalla capacità dei materiali che lo contengono di rilasciare fibre
potenzialmente respirabili.
Infatti, quando queste sono disperse nell'aria per effetto di qualsiasi
sollecitazione (manipolazione/lavorazione, vibrazioni, correnti, etc.), se
vengono inalate, si concentrano nei bronchi, negli alveoli polmonari e nella
pleura, provocando danni irreversibili. Ne consegue che la pericolosità dei
materiali/manufatti contenenti amianto (MCA) è proporzionale alla tendenza a
rilasciare fibre e quindi i MCA privi di matrice, o con matrice friabile,
caratterizzati da estrema facilità di liberazione di fibre, saranno da
considerarsi maggiormente pericolosi rispetto a MCA a matrice compatta, come il
cemento-amianto o il vinil-amianto, nei quali la matrice trattiene le fibre
impedendone l'aerodispersione. Naturalmente anche i MCA originariamente
compatti, con l'avanzamento del degrado, tendono a rilasciare via via un
maggior quantitativo di fibre.
Nel 1986, l'OMS ha qualificato come "pericolose" tutte le
fibre di amianto di una determinata lunghezza, diametro e rapporto dimensionale
lunghezza/diametro, in quanto la pericolosità relativa all'inalazione delle
fibre dipende dal grado di penetrazione nelle vie respiratorie, a sua volta
dipendente dalle dimensioni delle fibre: quelle a diametro aerodinamico minore
(funzione della geometria e della densità della fibra) sono suscettibili di
penetrare più a fondo nell'albero bronchiale fino agli alveoli. Le fibre sono
definite respirabili, ovvero in grado di giungere nella zona alveolare
dell'albero respiratorio, quando abbiano diametro inferiore a 3 Î 1/4m, che nel
caso del crisolito corrisponde ad un diametro aerodinamico di circa 10 µm. Le
particelle di diametro maggiore, che si depositano nelle vie aree superiori
(nasali e tracheo-bronchiali), possono essere eliminate attraverso il trasporto
mucociliare dell'epitelio.
Riguardo alla lunghezza, è anche opinione diffusa che fibre di
lunghezza superiore a 200-250 Î 1/4m siano troppo grandi per depositarsi nei
polmoni e quindi non respirabili a tutti gli effetti.
Il meccanismo alla base della tossicità dell'amianto prevede, quindi,
una complessa interazione tra le fibre minerali e i target cellulari, basata su
estensione e reattività della superficie della fibra, la sua dimensione e la
biopersistenza. Gli effetti nocivi che si manifestano a seguito dell'inalazione
di fibre di amianto sono, pertanto, dovute all'instaurarsi di meccanismi
patogenetici di natura irritativa, degenerativa e cancerogena.
Nello specifico caso che ci occupa, il Ctu Dr. A.B., sulla base della
documentazione medica presente in atti, ha premesso che la Sig.ra E.D. è
deceduta in data 4.02.OMISSIS per " Mesotelioma maligno pleurico
diffuso di tipo epitelioide" diagnosticato nel novembre 2010 a seguito di
controllo dei marker neoplastici.
Quanto al nesso causale, il perito dell'ufficio ha così argomentato:
"Fatta questa premessa, si può affermare che: a) l'esposizione subita
dalla sig. D., pur correlata alla sua attività professionale, risulta
prevalentemente un'esposizione da contaminazione "ambientale"; b)
l'esposizione calcolata dall'ing. Martino è pari a 64 ff/l; c) l'esposizione è
limitata ad un periodo di poco superiore a 3 anni.
Ne deriva che, nel caso in esame, l'assorbimento non può essere stato
continuativo (intendo esteso a tutto il turno di lavoro) né intenso, sia come
media quantitativa giornaliera che come durata. Dunque, possiamo definire
l'entità dell'esposizione, nel caso in esame, come esistente, non trascurabile,
ma complessivamente moderata
Questi dati vanno tuttavia interpretati alla luce del fatto che non
esiste una dose soglia al di sotto della quale la probabilità tende allo zero,
benché la frequenza di comparsa della malattia aumenti proporzionalmente con
l'incremento dell'esposizione.
Rinviando a successive argomentazioni il fattore esposizione, va preso
in esame il secondo fattore determinante per il nesso causale: la latenza,
ovvero il periodo ditempo intercorso fra inizio dell'esposizione e
manifestazione del tumore. La malattia si può considerare manifestata
nell'ottobre 2010 (incremento del Ca125 e riscontro positivo alla TAC torace).
Dunque, se l'inizio dell'esposizione è databile all'aprile 1988, il periodo di
latenza complessivo risulta pari circa 22 anni; un arco di tempo che, pur
inferiore a quello statisticamente prevedibile per il MM (mediana = 40 anni),
rende plausibile la correlazione causale fra attività lavorativa svolta dalla
D. e la neoplasia, particolarmente alla luce della concomitante patologia
mammaria, di cui si dirà più oltre.
Nel caso in esame non esiste poi un problema diagnostico: il tumore è
stato inequivocabilmente definito, sia sul piano istologico che
immunoistochimico e clinico, come mesotelioma . Sottolineo, in
particolare, l'esito dei test immunoistochimici, che escludono metastasi del
carcinoma mammario (ad esempio: positività per la Calretinina; negatività per
recettori estrogenici, a fronte di elevata positività nel carcinoma duttale
operato). Inoltre, la diagnosi di MM (formulata presso il Brigham And Womens
Hospital di Boston) ha trovato conferma nel corso dei ricoveri presso strutture
ospedaliere qualificate (IEO) e nei numerosi controlli clinici.
D'altra parte, un corretto inquadramento della neoplasia risultava
imprescindibile ai fini del trattamento (chirurgico e chemioterapico), poiché
l'attribuzione della patologia pleurica ad un'evoluzione metastatica del
carcinoma mammario avrebbe comportato diverse scelte terapeutiche e un diverso
percorso clinico.
Occorre ora affrontare un punto di non secondaria importanza:
l'esistenza di pregresse esposizioni ad amianto.
L'unica notizia reperibile in anamnesi è relativa ad un'ipotesi di
contaminazione indiretta in ambito famigliare (padre vigile del fuoco,
convivente fino al 1988). Si tratta di un'informazione vaga, nonostante sia ben
nota l'esposizione ad amianto (e il più elevato rischio di patologie
asbesto-correlate rispetto alla popolazione non esposta) a cui sono soggetti i
vigili del fuoco.
Si tratterebbe comunque, pur sempre, di un'esposizione indiretta,
impossibile da determinare e comunque non paragonabile a quella di operai che
negli anni 50-70 erano sottoposti a contaminazione massiva, impregnante anche
gli abiti e, conseguentemente, sorgente di diffusione di elevate quantità di
fibre nell'ambiente domestico (casi di MM nell'area di Casale Monferrato).
In assenza di dati più precisi, considerando che si tratterebbe di
assorbimento indiretto, verosimilmente modesto (fra l'altro il padre non
risulta colpito da MM), questa eventuale esposizione dovrebbe essere
considerata non rilevante per il nesso causale, oltre che non determinabile
proprio per la sua dimensione. Applicando poi il criterio della dose cumulativa
e quello dell'accelerazione dell'evento, l'eventuale contaminazione in ambito
famigliare potrebbe aver costituito - al più - la dose iniziale, con ruolo di
concausa debole e non sufficiente, sulla quale si è poi aggiunto l'assorbimento
nell'ambiente di lavoro, che avrebbe pur sempre aumentato in misura decisiva il
rischio di MM e anticipato l'evento morte. Questa ipotesi, ovviamente, è
sviluppata considerando - del tutto astrattamente - un'eventuale contaminazione
indiretta, di cui per contro non conosciamo né l'effettiva esistenza, né la
dimensione e tanto meno la durata.
In sintesi: un'esposizione indiretta, correlata alla professione del
padre, resta una mera ipotesi, non convalidata da alcun dato, non suscettibile
di accertamento né di misurazione e probabilmente poco o nulla significativa.
Infine, controfattualmente, l'assenza di tale esposizione non
porterebbe ad alcun indebolimento del ruolo giocato dall'ambiente di lavoro.
Non la si considererà pertanto come possibile fattore concausale nel
determinismo del MM della sig.ra D..
Sembra superfluo aggiungere che altre sorgenti di contaminazione del
cancerogeno non sono emerse nel corso dell'istruttoria; in ogni caso non
sarebbero compatibili con la storia lavorativa della vittima.
La ricostruzione del nesso causale dispone, a questo punto, dei
seguenti elementi (che potremmo definire come indizi forti e convergenti):
1) nel caso in esame la diagnosi di MM è una diagnosi clinicamente e
istologicamente certa, nonché convalidata dai test immunoistochimici (ovvero,
non si tratta di carcinoma polmonare né di secondarizzazione della neoplasia
mammaria risalente al 2007 e nemmeno di altri tipi di metastasi);
2) lo sviluppo del MM è causalmente riferibile, in via pressoché
esclusiva, all'esposizione a fibre di amianto e non ad altri fattori patogeni;
3) la dott.ssa D. è stata esposta in misura quantitativamente rilevante
(CTU Martino) ad amianto per contaminazione ambientale (ovvero senza
intervenire direttamente su manufatti contenenti amianto);
4) l'esposizione ha avuto una durata consistente (non particolarmente
prolungata ma nemmeno cronologicamente trascurabile: più di 3 anni);
5) il periodo di latenza fra inizio dell'esposizione e manifestazione
del tumore (oltre 20 anni), pur collocandosi fuori range rispetto a quanto
statisticamente previsto per il MM, non contraddice la compatibilità fra
esposizione in Az. O. e sviluppo del tumore pleurico".
Sotto quest'ultimo profilo, il CTU ha, in particolare, precisato:
"Il 5 punto merita tuttavia una discussione a parte. Come si è detto, il
periodo di latenza, benché significativo e compatibile con l'assorbimento di
amianto nel triennio 1988-1991, si colloca al di fuori della media/mediana
statistica di durata (40 anni +- 12), indebolendo apparentemente la certezza
della correlazione causale.
Tuttavia, oltre al fatto che si osservano comunque mesoteliomi con
latenze analoghe, nel nostro caso entra in gioco un elemento da considerare
decisivo, in grado di spiegare e giustificare questa rapidità di sviluppo (in
soli 22 anni il mesotelioma ha percorso tutte le tappe,
dall'induzione all'evidenza clinica): si tratta della coesistenza del carcinoma
mammario e delle relative terapie. È chiaro che la presenza di uncarcinoma con
invasione dei vasi linfatici, e soprattutto la radioterapia e la chemioterapia
da questo richieste hanno agito con potente effetto facilitante sulle cellule
del MM attraverso un indebolimento del sistema immunitario (basti dire che i
chemioterapici sembrano agire compromettendo l'attività dei linfociti B per un
lungo periodo di tempo). Di fatto, si consideri che la scoperta del MM nella
sig.ra D. è del 2011, mentre le terapie per la neoplasia mammaria erano
iniziate nel 2007. La contiguità fra le due malattie tumorali è evidente, e
consente di ascrivere al primo tumore il ruolo di facilitatore/acceleratore nei
confronti del MM.
Un semplice calcolo ci permette di riconoscere la congruità del periodo
riservato alle fasi iniziali del MM: detraendo dalla latenza osservata (22
anni) il periodo compreso fra inizio della chemio-radioterapia relativa alla
mammella e la diagnosi di MM (meno di 4 anni), i restanti 18 - 19 anni possono
considerarsi sufficienti a "contenere" tutto il periodo di induzione
e l'inizio della carcinogenesi da amianto (di fatto, il follow-up fra il 2007 e
il 2010 non mostrò mai segni riferibili alla seconda neoplasia).
Si noti che la precedente conclusione non equivale ad affermare che in
assenza del carcinoma duttale infiltrante il MM non si sarebbe mai sviluppato o
sarebbe comparso molti anni dopo, poiché si è già ricordato come non esista una
dose soglia sotto la quale il rischio è assente; si vuole invece elaborare un
modello esplicativo che giustifichi la rapidità di comparsa (rispetto al
carcinoma mammario) e la rapidità evolutiva della neoplasia pleurica (in questo
caso anche peritoneale e pericardica).
Procedendo ora alla verifica controfattuale (se, in assenza del
carcinoma duttale, sarebbe ugualmente comparso il MM), è evidente che la
chemioterapia iniziata nel 2007 non può che aver accelerato/anticipato la
comparsa del MM (2010), senza alcun ruolo causale, poiché il periodo di
iniziazione/induzione era già da tempo avviato (e valutabile in circa 18 anni).
In altri termini, il marcato indebolimento del sistema immunitario
indotto dalle terapie anti-tumorali (e dalla stessa compresenza di una malattia
neoplastica), compreso inun periodo di circa 4 anni, può solamente aver
anticipato l'affiorare del mesotelioma sul piano clinico, senza in
alcun modo determinarlo.
Di fatto, la rapidità di comparsa e l'inarrestabile progressione del MM
in stretta concomitanza col trattamento descritto per la mammella, confermano
indirettamente che il periodo induzione del MM era ormai in stadio molto
avanzato. Si potrebbe addirittura ammettere come già iniziato - nel 2007 -
l'ultimo stadio di sviluppo del MM, quello della proliferazione e
disseminazione irreversibile del processo neoplastico.
Quest'ultima considerazione soddisfa pienamente la verifica
controfattuale, poiché è possibile affermare, con grado di probabilità prossimo
alla certezza, che il MM si sarebbe manifestato anche in assenza della
neoplasia mammaria e dei relativi trattamenti, che lo hanno solo anticipato.
Non solo: tenendo conto del breve intervallo fra chemioterapia per il carcinoma
duttale e comparsa delle lesioni pleuriche (solo 4 anni), e, conseguentemente,
dello stadio raggiunto dal MM già nel 2007, si può concludere che anche
l'anticipo indotto dalla chemioterapia sia stato modesto, benché rilevante.
Il modello esplicativo relativo alla storia naturale del MM nel caso di
specie può dunque essere così descritto. In seguito ad esposizione
prevalentemente ambientale subita dalla sig.ra D. nel triennio 1988-1991,
inizia quel processo di induzione che si concluderà con lo sviluppo di un MM.
L'esposizione non è quantitativamente elevata ma ugualmente rilevante; si
protrae per un periodo di tempo non particolarmente prolungato, ma in ogni caso
sufficiente per l'innesco: non esiste dose soglia per il MM. L'esposizione
cessa con trasferimento del Reparto in altra sede di nuova costruzione.
Trascorrono 16 anni asintomatici (19 dall'inizio dell'esposizione). Nel 2007
viene diagnosticato un carcinoma duttale infiltrante della mammella, che
comporta, oltre alla quadrantectomia e alla radioterapia, l'inizio della
chemioterapia, che si protrae fino al settembre 2008. Fra il 2007 e l'ottobre
2010 nessun segno è riferibile a mesotelioma al follow-up per la
neoplasia mammaria. Nel novembre 2010la PET total body risulta positiva per
localizzazioni pleuriche di malattia neoplastica (MM). Sono trascorsi appena 3
anni dall'inizio della chemioterapia; il che significa che il
mesotelioma aveva ormai concluso la fase di induzione progredendo a
quella finale di latenza clinica: ed è a questo punto che esplode
manifestandosi anche clinicamente, anticipato dal disordine immunitario indotto
dal carcinoma mammario e dalle terapie anti-tumorali. Va sottolineato che in
questa ricostruzione assumono particolare valore gli approfonditi controlli
eseguiti dalla paziente a partire dal 2007, sempre negativi per secondarismi e
altrettanto negativi per interessamento delle sierose fino agli ultimi mesi del
2010: la repentina comparsa di lesioni pleuriche nell'ottobre 2010 può
significare solo, lo si ripete, che il MM era già presente e in stadio molto
avanzato. In buona sostanza, la brevissima latenza di comparsa rispetto al
tumore mammario indica che anche in assenza di questo il MM avrebbe presto
raggiunto la fase di tumore conclamato.
Si può quindi concludere che il carcinoma duttale e le relative terapie
hanno sì influenzato il MM, ma che questa influenza, lungi dall'essere
interpretabile come aggravamento e/o accelerazione dello sviluppo, si è
limitata ad anticiparne gli aspetti fenomenici".
Il perito dell'Ufficio, dunque, in risposta al quesito posto dal
Giudicante, ha concluso nei seguenti termini: "Disponiamo di elementi
concordanti per asserire l'esistenza di un nesso causale fra l'esposizione
della sig.ra D. in Az. O. e lo sviluppo del MM che ha portato la paziente al
decesso il 4/2/OMISSIS, a poco più di due anni dalla diagnosi e trascorsi 25
anni dall'inizio dell'esposizione. Insufficiente la rilevanza - sul piano
quantitativo - dell'esposizione indiretta in ambito famigliare, di cui peraltro
non si hanno notizie, e che resta confinata all'ambito delle mere ipotesi;
irrilevante sotto il profilo causale la chemioterapia per carcinoma mammario
che ha anticipato l'espressione di un tumore già in stadio avanzato e che si
sarebbe comunque manifestato nel breve-medio termine. Del ruolo assunto dalla
neoplasia mammaria si è dato ampio riscontro nelle precedenti
considerazioni".
Le conclusioni del consulente d'ufficio, appaiono pienamente
condivisibili, in quanto esaurientemente motivate, immuni da vizi logici e
giuridici, supportate dagli studi e dalla letteratura scientifica
dettagliatamente riportata.
In ordine alla sussistenza del nesso causale, osserva, in particolare,
il giudicante che le conclusioni riferite dal CTU medico legale, debbono
peraltro essere inquadrate nell'ambito dei principi giuridici che regolano il
nesso di causalità.
Segnatamente, in assenza di norme civili che regolino il rapporto di
causalità, occorre fare riferimento ai principi generali di cui agli artt. 40 e
41 c.p.
Ebbene, in base a tali principi, un evento è da considerare
"causato" da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il
primo in assenza del secondo non si sarebbe verificato hic et nunc, ovvero nei
termini di tempo e nelle precise circostanze in cui si è manifestato (Cass.
pen. Sez. Un., 11 gennaio 2008 n. 576).
La valutazione del nesso di causalità, sotto il profilo della
dipendenza dell'evento dai suoi antecedenti fattuali, deve essere compiuta
sulla base delle migliori cognizioni scientifiche disponibili.
Ove, tuttavia, esse non consentano un'assoluta certezza della
derivazione causale, la regola di giudizio muta sostanzialmente nel processo
penale e in quello civile, "in quanto, nel primo, vige la regola della
prova "oltre il ragionevole dubbio" (cfr. Cass. Pen. S.U. 11
settembre 2002, n. 30328, Franzese), mentre, nel secondo, vige la regola della
preponderanza dell'evidenza o "del più probabile che non", stante la
diversità dei valori in gioco nel processo penale tra accusa e difesa, e per
contro, l'equivalenza di quelli in gioco nel processo civile tra le due parti
contendenti (in questo senso, vedasi: Cass. S.U. 11/01/2008, n. 576; Cass. S.U.
11/01/2008, n. 582. Cass.16.10.2007, n. 21619; Cass. 18.4.2007, n. 9238).
Detto principio ha avuto larga diffusione in tema di prova del nesso
causale.
Si è, in particolare, precisato come lo standard di "certezza
probabilistica" in materia civile non possa essere ancorato esclusivamente
alla determinazione quantitativa - statistica delle frequenze di classi di
eventi (c.d. probabilità quantitativa o pascaliana), che potrebbe anche mancare
o essere inconferente, ma vada, per contro, verificato riconducendone il grado
di fondatezza all'ambito degli elementi di conferma (e, nel contempo, di
esclusione di altri possibili alternativi) disponibili in relazione al caso
concreto (c.d. probabilità logica o baconiana).
In tale ottica, nello schema generale della probabilità come relazione
logica, va determinata l'attendibilità dell'ipotesi sulla base dei relativi
elementi di conferma (c.d. evidence and inference nei sistemi anglosassoni).
Sennonché, esigenze di coerenza e di armonia dell'intero processo civile
comportano che tale principio della probabilità prevalente si applichi anche
allorché vi sia un problema di scelta di una delle ipotesi, tra loro
incompatibili o contraddittorie, sul fatto, quando tali ipotesi abbiano
ottenuto gradi di conferma sulla base degli elementi di prova disponibili; in
questo caso, la scelta da porre a base della decisione di natura civile va
compiuta applicando il criterio della probabilità prevalente.
Occorrerà, cioè, in sede di decisione sul fatto, scegliere l'ipotesi
che riceve il supporto relativamente maggiore sulla base degli elementi di
prova complessivamente disponibili; trattasi, quindi, di una scelta comparativa
e relativa all'interno di un campo rappresentato da alcune ipotesi dotate di
senso, perché in vario grado probabili, e caratterizzato da un numero finito di
elementi di prova favorevoli all'una o all'altra ipotesi (vedasi, ex multis,
Cass., 5 maggio 2009 n. 10285).
Tanto premesso in ordine ai principi, sostanziali e processuali, che
governano l'accertamento della causalità in sede civile, occorre evidenziare
come - secondo la più recente giurisprudenza della Corte di Cassazione penale -
in caso di morte conseguente a una grave patologia neoplastica, eziologicamente
riconducibile ad esposizione ad amianto avvenuta durante la prestazione di
attività lavorativa, la condotta imputabile al soggetto responsabile
dell'esposizione ad amianto sia di natura commissiva e non omissiva, venendo in
rilievo, prima ancora della mancata adozione di idonee misure di protezione
della salute del lavoratore, l'esposizione dello stesso lavoratore all'azione
oncogena di uno specifico fattore di rischio.
A riguardo, si è, in particolare, precisato che "l'esposizione
all'agente lesivo in modo improprio è frutto di una determinazione di tipo
organizzativo che ha evidentemente un rilievo condizionante, giacché, se il
lavoratore non fosse stato addetto a quella pericolosa lavorazione, l'evento
non si sarebbe verificato" e che, dunque, "la condotta attribuibile
ai responsabili dell'azienda è, nel suo nucleo significativo, attiva"
(Sez. 4, n. 43786 del 17/09/2010, Cozzini e altri, Rv. 248943); in tale
prospettiva, quindi, "la componente omissiva, in realtà, attiene alla
connotazione colposa della condotta, essendo costituita dalla mancata adozione
delle misure prevenzionali imposte dalla legge".
Ebbene, risulta d'immediata evidenza come un simile rilievo non abbia
valore meramente teorico, essendo, per contro, suscettibile di indirizzare
l'accertamento giudiziario, sia per il versante del soggetto attivo, che sul
piano del nesso di causalità (Cass. pen., 7 dicembre 2017 n. 55005; Cass.,
pen., 31 gennaio 2018 n. 4560).
Sotto quest'ultimo profilo, in particolare, la qualificazione della
condotta come di natura commissiva semplifica l'accertamento del nesso di
condizionamento (che, come noto, in tema di causalità omissiva, si atteggia
quale accertamento doppiamente ipotetico), potendosi il giudice limitare, sotto
il profilo eziologico, ad escludere l'incidenza, nel caso concreto, di
eventuali decorsi alternativi, essendo esonerato dall'ulteriore compito di
accertare anche l'idoneità della condotta lecita omessa ad impedire la
verificazione dell'evento dannoso.
Di talché, alla stregua delle conclusioni riportate dal perito
dell'ufficio in punto di esclusione di fattori alternativi, deve giocoforza
ritenersi accertato, nell'ipotesi de qua, il nesso di causalità tra la nocività
ambientale, la patologia neoplastica contratta dalla lavoratrice e il decesso
della medesima.
Ma, anche a voler qualificare la fattispecie in controversia, in
aderenza all'indirizzo giurisprudenziale più risalente, quale ipotesi
d'imputazione dell'evento di danno ad omissione colposa - ipotesi in cui la
riferibilità causale dell'evento alla condotta omissiva postula, oltreché
l'esclusione di decorsi alternativi, anche l'accertamento che l'evento non si
sarebbe verificato se l'agente avesse posto in essere la condotta doverosa
impostagli - la conclusione non muta.
Anche in questo caso, invero, lo standard di "certezza
probabilistica" richiesto non può essere ancorato esclusivamente alla
determinazione quantitativa - statistica delle frequenze di classi di eventi
(c.d. probabilità quantitativa o pascaliana), dovendo, invece, essere
verificato - come già detto - sulla base degli elementi di conferma (e, nel
contempo, di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili in
relazione al caso concreto (c.d. probabilità logica o baconiana).
Segnatamente, tale metodo baconiano è basato sull'induzione
eliminatoria, nel senso che un asserto è considerato tanto più probabile quante
più ipotesi alternative ad esso sono state considerate e poi eliminate per
falsificazione.
A riguardo, giova preliminarmente evidenziare come le norme di
prevenzione che risultano violate ad opera di parte datoriale sono molteplici.
Gli articoli 2087 del c.c. e 32 della Costituzione prevedono
espressamente che "l'imprenditore è tenuto ad adottare, nell'esercizio
dell'impresa, le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza
e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità
morale dei prestatori di lavoro" ed "il riconoscimento della tutela
della salute come diritto dell’’individuo e interesse della collettività".
Il D.P.R. n. 547 del 1955 e il D.P.R. n. 303 del 1956, in relazione
alle conoscenze scientifiche del tempo, prevedevano alcuni criteri generali di
prevenzione per quanto riguarda le polveri in generale.
Indicavano, in particolare, le misure da adottare, individuando una
serie di sostanze che implicavano "situazioni di maggior gravità" per
le quali anche la liberazione di modeste quantità di polveri doveva essere
prevenuta con adozione di mezzi generali e individuali di protezione.
In particolare, il D.P.R. n. 303 del 1956, che riguardava le norme
generali per l'igiene del lavoro:
- all'Art. 4, rubricato "Obblighi dei datori di lavoro, dei
dirigenti e dei preposti", prevedeva: "I datori di lavoro, i
dirigenti e i preposti che esercitano, dirigono o sovraintendono alle attività
indicate all'art. 1, devono, nell'ambito delle rispettive attribuzioni e
competenze:
a) attuare le misure di igiene previste nel presente decreto;
b) rendere edotti i lavoratori dei rischi specifici cui sono esposti e
portare a loro conoscenza i modi di prevenire i danni derivanti dai rischi
predetti;
c) fornire ai lavoratori i necessari mezzi di protezione;
d) disporre ed esigere che i singoli lavoratori osservino le norme di
igiene ed usino i mezzi di protezione messi a loro disposizione";
- all'Art. 9, rubricato "Aerazione dei luoghi di lavoro
chiusi", prevedeva: "1. Nei luoghi di lavoro chiusi, è necessario far
sì che tenendo conto dei metodi di lavoro e degli sforzi fisici ai quali sono
sottoposti i lavoratori, essi dispongano di aria salubre in quantità
sufficiente, anche ottenuta con impianti di areazione. 2. Se viene utilizzato
un impianto di aerazione, esso deve essere sempre mantenuto funzionante. Ogni
eventuale guasto deve essere segnalato da un sistema di controllo, quando ciò è
necessario per salvaguardare la salute dei lavoratori";
- che, all'Art. 21, rubricato "Difesa contro le polveri",
stabiliva: "Nei lavori che danno luogo normalmente alla formazione di
polveri di qualunque specie, il datore di lavoro è tenuto ad adottare i
provvedimenti atti ad impedirne o a ridurne, per quanto possibile, lo sviluppo
e la diffusione nell'ambiente di lavoro.
Le misure da adottare a tal fine devono tenere conto della natura delle
polveri e della loro concentrazione nella atmosfera.
Ove non sia possibile sostituire il materiale di lavoro polveroso, si
devono adottare procedimenti lavorativi in apparecchi chiusi ovvero muniti di
sistemi di aspirazione e di raccolta delle polveri, atti ad impedirne la
dispersione. L'aspirazione deve essere effettuata, per quanto possibile,
immediatamente vicino al luogo di produzione delle polveri.
Quando non siano attuabili le misure tecniche di prevenzione indicate
nel comma precedente, e la natura del materiale polveroso lo consenta, si deve
provvedere all'inumidimento del materiale stesso.
Qualunque sia il sistema adottato per la raccolta e la eliminazione
delle polveri, il datore di lavoro è tenuto ad impedire che esse possano
rientrare nell'ambiente di lavoro.
Nei lavori all'aperto e nei lavori di breve durata e quando la natura e
la concentrazione delle polveri non esigano l'attuazione dei provvedimenti
tecnici indicati ai commi precedenti, e non possano essere causa di danno o di
incomodo al vicinato, l'Ispettorato del lavoro può esonerare il datore di
lavoro dagli obblighi previsti dai commi precedenti, prescrivendo, in
sostituzione, ove sia necessario, mezzi personali di protezione.
I mezzi personali possono, altresì, essere prescritti dall'Ispettorato
del lavoro, ad integrazione dei provvedimenti previsti al comma terzo e quarto
del presente articolo, in quelle operazioni in cui, per particolari difficoltà
d'ordine tecnico, i predetti provvedimenti non sono atti a garantire
efficacemente la protezione dei lavoratori contro le polveri".
Nel 1965, con il D.P.R. n. 1124 del 1965 (Testo unico delle
disposizioni per l'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e
le malattie professionali), è stata emanata la prima norma specifica
riguardante l'amianto.
Nel Capo VIII (articoli 140-177) sono state, infatti, emanate le
disposizioni speciali per la silicosi e l'asbestosi al fine di prevenire, tra
le altre cose, le patologie dei soggetti esposti in modo continuativo
all'amianto in ambito lavorativo.
Nel decreto, non si faceva cenno ad alcun limite di concentrazione
nell'aria della sostanza, e si sottolineava l'importanza del controllo
sanitario degli esposti per prevenire l'asbestosi, controllo che doveva,
all'epoca, giovarsi di un periodico esame radiologico effettuato secondo
modalità standardizzate e con risposta e classificazione secondo un codice
internazionale ILO-BIT. La visita medica doveva essere effettuata secondo
precisi indicatori semiologici e il risultato obiettivo e diagnostico trascritto
in una dettagliata cartella medica personale.
Si riportano, in particolare, alcuni articoli:
Art. 157: "I lavoratori, prima di essere adibiti alle lavorazioni
di cui all'art. 140, e, comunque, non oltre cinque giorni da quello in cui sono
stati adibiti alle lavorazioni stesse, debbono essere sottoposti, a cura e a
spese del datore di lavoro, a visita medica da eseguirsi dal medico di
fabbrica, oppure da enti a ciò autorizzati, secondo le modalità di cui agli
artt. 158 e seguenti, allo scopo di accertarne l'idoneità fisica alle
lavorazioni suddette.
Detti accertamenti debbono essere ripetuti ad intervalli non superiori
ad un anno, ugualmente a cura e a spese del datore di lavoro".
Art. 160: "La visita medica di cui all'art. 157, comprende, oltre
l'esame clinico, anche una radiografia del torace comprendente l'intero ambito
polmonare".
La prima ordinanza specifica per l'amianto è rappresentata
dall'Ordinanza del Ministero della Sanità del 26 giugno 1986, che dispone una
restrizione alla commercializzazione e all'uso della crocidolite e dei prodotti
che la contengono imponendo come termine ultimo l'aprile 1991. Tale ordinanza
scaturisce dalle ricerche scientifiche ed epidemiologiche che, già in quel
tempo, avevano accreditato la crocidolite (amianto blu) di un maggiore potere
oncogeno.
Alla predetta ordinanza è seguita la Circolare del 1 luglio 1986 n. 42
del Ministero della Sanità, che ha fornito indicazioni esplicative per
l'applicazione dell'ordinanza del 26 giugno 1986, seguita, infine, dalla
Circolare del Ministero della Sanità del 10 luglio 1986 n. 45, che ha disposto
un "piano di interventi e di misure per l'individuazione e l'eliminazione
del rischio connesso all'impiego di materiali contenenti amianto in edifici
scolastici e ospedalieri pubblici e privati".
Restrizioni più consistenti sono state, quindi, introdotte con il
D.P.R. n. 215 del 24 maggio 1988, con cui è stato sancito il divieto di
commercializzazione e di uso esteso a tutti i tipi di amianto contenuti in una
serie di prodotti anche se, per alcuni di questi prodotti, è stata prevista una
deroga sino all'aprile 1991.
È stata anche disposta l'introduzione dell'etichettatura dei rifiuti
contenenti l'amianto ancora in commercio.
Con la L. n. 257 del 27 marzo 1992, è stato sancito, in Italia, il
divieto di estrazione, importazione, esportazione, commercializzazione,
produzione di amianto o prodotti contenenti amianto.
Con norme successive, che hanno recepito regolamenti europei - come il
R. (Registration, Evaluation, Authorization,and Restriction of Chemicals) e il
CLP (Classification, Labelling and Packaging) - sono stati, infine, introdotti
restrizioni, divieti ed obblighi ulteriori, mediante la predisposizione di
norme specifiche per la tutela dei lavoratori dall'esposizione all'amianto;
norme che hanno di fatto anticipato le più dettagliate prescrizioni in tema di
organizzazione della tutela della salute successivamente introdotte, dapprima
con il D.Lgs. n. 626 del 1994, e, poi, con il D.Lgs. n. 81 del 2008.
Ciò posto, dunque, poiché le norme di prevenzione violate sono molte e
non è possibile escludere, sulla base del principio "del più probabile che
non", un'incidenza causale di ciascuna di esse nella riduzione del
rischio, anche a voler prescindere dalla ricostruzione di recente patrocinata
dalla giurisprudenza penale e qualificare la condotta datoriale come omissiva,
dovrebbe, comunque, ritenersi dimostrata la sussistenza di un nesso causale tra
la condotta (omissiva) delle convenute e la patologia che ha causato il decesso
della sig.ra D..
Ciò posto, giova evidenziare che i ricorrenti hanno agito, iure
hereditatis, facendo valere la responsabilità contrattuale ex art. 2087 c.c.
gravante sul datore di lavoro; la norma citata, secondo la quale
"l'imprenditore è tenuto ad adottare, nell'esercizio dell'impresa, le
misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica,
sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei
prestatori di lavoro" configura una responsabilità, in capo al datore di
lavoro, di natura contrattuale, per i danni alla salute psico-fisica del
lavoratore e alla sua personalità morale, atteso che l'art. 2087 c.c. deve
essere letto alla luce dell'art. 1218 c.c. e, conseguentemente, provato da
parte del lavoratore il danno, l'insalubrità dell'ambiente di lavoro e il nesso
causale tra il secondo e il primo, spetta al datore di lavoro provare di aver
fatto tutto il possibile per evitare il danno, provare cioè che l'inadempimento
è stato determinato da "impossibilità della prestazione derivante da causa
a lui non imputabile".
Come noto, la responsabilità dell'imprenditore ex art. 2087 c.c., pur
non configurando un'ipotesi di responsabilità oggettiva, non è, tuttavia,
circoscritta alla violazione di regole d'esperienza o di regole tecniche
preesistenti e collaudate, ma deve ritenersi volta a sanzionare, anche alla
luce delle garanzie costituzionali del lavoratore, l'omessa predisposizione, da
parte del datore di lavoro, di tutte quelle misure e cautele atte a preservare
l'integrità psicofisica e la salute del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto
conto della concreta realtà aziendale e della sua maggiore o minore possibilità
di venire a conoscenza e di indagare sull'esistenza di fattori di rischio in un
determinato momento storico (Cfr. Sez. L., n.644 del 14 gennaio 2005; Sez. L.,
Sentenza n. 24217 del 13/10/2017).
Dunque, mentre nel caso in esame i ricorrenti - eredi del lavoratore -
hanno provato l'insalubrità dell'ambiente lavorativo (esposizione ad amianto)
ed il danno ( mesotelioma /danno alla salute psicofisica/decesso), alcuna prova
hanno dato le resistenti di aver adottato, per tutto il periodo di esposizione,
misure atte ad evitare o a ridurre inalazione di fibre di amianto da parte
degli operatori sanitari, né predisponendo dispositivi atti ad evitare
l'esposizione, né impartendo un'adeguata informazione/formazione ai predetti
operatori sui pericoli connessi all'esposizione ad amianto; parte datoriale,
anzi, sostenendo la tesi della non conoscibilità, all'epoca della presunta
esposizione, della pericolosità dell'amianto (oltreché della presenza di
amianto presso gli ambienti di lavoro frequentati dalla Dott.ssa D.), hanno
implicitamente confermato che alcun accorgimento specifico è stato adottato.
Non può nemmeno dirsi che il datore di lavoro vada esente da
responsabilità in quanto non sia possibile provare che la rigorosa osservanza,
da parte sua, della normativa vigente all'epoca in cui si ritiene che la
lavoratrice abbia assorbito l'amianto e l'adozione di comportamenti suggeriti
dalle conoscenze sperimentali e tecniche dell'epoca avrebbero evitato l'evento
dannoso con alto grado di probabilità.
Le datrici di lavoro resistenti, infatti, non solo non hanno dimostrato
di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ma è anche emerso - alla
stregua di quanto osservato - che le stesse non hanno adottato alcun mezzo di
protezione dei lavoratori affinché gli stessi fossero tutelati dall'inalazione
di fibre di amianto.
Sono state, pertanto, violate le regole enucleabili dall'art. 2087 c.c.
ma anche i precetti di cui al D.P.R. n. 303 del 1956, in precedenza indicati.
Si osserva, peraltro, come la conoscenza della pericolosità
dell'amianto fosse già diffusa all'epoca del verificarsi dell'esposizione della
lavoratrice, poiché, come detto, già dal 1943, era in vigore una legge - L. 12
aprile 1943, n. 455 - sull'assicurazione obbligatoria contro la silicosi e
l'asbestosi, non rilevando, per contro, ai fini dell'affermazione della
responsabilità del datore di lavoro, la conoscenza dell'evento dannoso
conseguente alla esposizione insalubre (silicosi, asbestosi, mesotelioma
, cancro, placche ecc.), quanto la conoscenza della dannosità della materia
alla quale è stata esposta la lavoratrice senza adottare le più opportune
precauzioni.
Peraltro, se fosse dimostrato che l'adozione di alcuna misura era in
grado di evitare pericoli per la salute della lavoratrice, si dovrebbe, allora,
concludere che la lavoratrice non doveva essere esposta all'inalazione di fibre
di amianto.
Tali conclusioni, oltreché discendere dalla rigorosa applicazione del
dettato normativo in precedenza richiamato, sono peraltro pacifiche presso la
giurisprudenza di legittimità.
Anche recentemente la S.C. ha, invero, precisato come "in materia
di tutela della salute del lavoratore, il datore di lavoro è tenuto, ai sensi
dell'art. 2087 c.c., a garantire la sicurezza al meglio delle tecnologie
disponibili, sicché, con riferimento alle patologie correlate all'amianto,
l'obbligo, risultante dal richiamo effettuato dagli artt. 174 e 175 del D.P.R.
n. 1124 del 1965 all'art. 21 del D.P.R. n. 303 del 1956 - norma che mira a
prevenire le malattie derivabili dall'inalazione di tutte le polveri (visibili
od invisibili, fini od ultrafini) di cui si è tenuti a conoscere l'esistenza -
comporta che non sia sufficiente, ai fini dell'esonero da responsabilità,
l'affermazione dell'ignoranza della nocività dell'amianto a basse dosi secondo
le conoscenze del tempo, ma che sia necessaria, da parte datoriale, la
dimostrazione delle cautele adottate in positivo, senza che rilevi il
riferimento ai valori limite di esposizione agli agenti chimici (cd. tlv,
"threshold limit value"), poiché il richiamato articolo 21 non
richiede il superamento di alcuna soglia per l'adozione delle misure di
prevenzione prescritte" (vedasi, sul punto, Cass. n. 18503 del 21/09/2016)
ed, altresì, che "in tema di responsabilità dell'imprenditore ex art. 2087
cod. civ., qualora sia accertato che il danno è stato causato dalla nocività
dell'attività lavorativa per esposizione all'amianto, è onere del datore di
lavoro provare di avere adottato, pur in difetto di una specifica disposizione
preventiva, le misure generiche di prudenza necessarie alla tutela della salute
dal rischio espositivo secondo le conoscenze del tempo di insorgenza della
malattia, escludendo l'esposizione della sostanza pericolosa, anche se ciò
imponga la modifica dell'attività dei lavoratori, assumendo, in caso contrario,
a proprio carico il rischio di eventuali tecnopatie" (vedasi, sul punto,
Cass. n. 10425 del 14/05/2014).
Facendo, dunque, applicazione dei predetti principi di diritto, deve,
dunque, ritenersi, con un grado di probabilità vicino alla certezza, che
l'esposizione ad amianto subita presso la datrice di lavoro, abbia causato -
per le ragioni ampiamente esposte dal perito dell'Ufficio nella consulenza
tecnica in atti - il mesotelioma pleurico che ha poi condotto a
morte la Sig.ra E.D..
Deve pertanto accertarsi e accertarsi e dichiararsi che la malattia
patita in vita dalla Sig.ra E.D. e che ne ha causato la morte ( mesotelioma
pleurico) è ascrivile alla responsabilità contrattuale delle resistenti, con
conseguente obbligo risarcitorio in capo alle stesse.
Quanto al risarcimento del danno non patrimoniale, devono brevemente
richiamarsi i principi espressi dalle SS.UU. 26972 del 11/11/2018 (c.d.
sentenze di San Martino), secondo le quali l'art. 2059 cod. civ. non disciplina
un'autonoma fattispecie di illecito, distinta da quella di cui all'art. 2043
c.c., ma si limita a disciplinare i limiti e le condizioni di risarcibilità dei
pregiudizi non patrimoniali, sul presupposto della sussistenza di tutti gli
elementi costitutivi dell'illecito richiesti dall'art. 2043 c.c.: e, cioè, la
condotta illecita, l'ingiusta lesione di interessi tutelati dall'ordinamento,
il nesso causale tra la prima e la seconda, la sussistenza di un concreto
pregiudizio patito dal titolare dell'interesse leso. L'unica differenza tra il
danno non patrimoniale e quello patrimoniale consiste pertanto nel fatto che
quest'ultimo è risarcibile in tutti i casi in cui ricorrano gli elementi di un
fatto illecito, mentre il primo lo è nei soli casi previsti dalla legge.
Ad avviso del S.C., secondo un'interpretazione costituzionalmente
orientata dell'art. 2059 cod. civ., che il danno non patrimoniale sia
risarcibile nei soli casi "previsti dalla legge" significa che esso è
risarcibile: (a) quando il fatto illecito sia astrattamente configurabile come
reato; in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non
patrimoniale scaturente dalla lesione di qualsiasi interesse della persona
tutelato dall'ordinamento, ancorché privo di rilevanza costituzionale; (b) quando
ricorra una delle fattispecie in cui la legge espressamente consente il ristoro
del danno non patrimoniale anche al di fuori di un'ipotesi di reato (ad es.,
nel caso di illecito trattamento dei dati personali o di violazione delle norme
che vietano la discriminazione razziale); in tal caso, la vittima avrà diritto
al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione dei soli
interessi della persona che il legislatore ha inteso tutelare attraverso la
norma attributiva del diritto al risarcimento (quali, rispettivamente, quello
alla riservatezza od a non subire discriminazioni); (c) quando il fatto
illecito abbia violato in modo grave diritti inviolabili della persona, come
tali oggetto di tutela costituzionale; in tal caso, la vittima avrà diritto al
risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione di tali
interessi, che, al contrario delle prime due ipotesi, non sono individuati
"ex ante" dalla legge, ma dovranno essere selezionati caso per caso
dal giudice.
In tale ultimo caso (danno non patrimoniale derivante dalla lesione di
diritti inviolabili della persona, come tali costituzionalmente garantiti), il
danno non patrimoniale è risarcibile - sempre sulla base di una interpretazione
costituzionalmente orientata dell'art. 2059 cod. civ. - anche quando non
sussiste un fatto-reato, né ricorre alcuna delle altre ipotesi in cui la legge
consente espressamente il ristoro dei pregiudizi non patrimoniali, a tre
condizioni: (a) che l'interesse leso - e non il pregiudizio sofferto - abbia
rilevanza costituzionale; (b) che la lesione dell'interesse sia grave, nel
senso che l'offesa superi una soglia minima di tollerabilità; (c) che il danno
non sia futile, vale a dire che non consista in meri disagi o fastidi, ovvero
nella lesione di diritti del tutto immaginari, come quello alla qualità della
vita od alla felicità.
Pertanto, il danno non patrimoniale, quando ricorrano le ipotesi
espressamente previste dalla legge, o sia stato leso in modo grave un diritto
della persona tutelato dalla Costituzione, è risarcibile sia quando derivi da
un fatto illecito, sia quando scaturisca da un inadempimento contrattuale.
Quanto ai criteri di liquidazione, il S.C. ha, altresì, precisato che
il danno non patrimoniale da lesione della salute costituisce una categoria
ampia ed omnicomprensiva, nella cui liquidazione il giudice deve tenere conto
di tutti i pregiudizi concretamente patiti dalla vittima, ma senza duplicare il
risarcimento attraverso l'attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici,
con la conseguenza che è inammissibile, perché costituisce una duplicazione
risarcitoria, la congiunta attribuzione alla vittima di lesioni personali, ove
derivanti da reato, del risarcimento sia per il danno biologico, sia per il
danno morale, inteso quale sofferenza soggettiva, il quale costituisce
necessariamente una componente del primo (posto che qualsiasi lesione della
salute implica necessariamente una sofferenza fisica o psichica), come pure la
liquidazione del danno biologico separatamente da quello c.d. estetico, da
quello alla vita di relazione e da quello cosiddetto esistenziale. Peraltro,
quando il fatto illecito integra gli estremi di un reato, spetta alla vittima
il risarcimento del danno non patrimoniale nella sua più ampia accezione, ivi
compreso il danno morale, inteso quale sofferenza soggettiva causata dal reato,
ove tale pregiudizio può essere permanente o temporaneo (circostanze delle
quali occorre tenere conto in sede di liquidazione, ma irrilevanti ai fini
della risarcibilità), e può sussistere sia da solo, sia unitamente ad altri
tipi di pregiudizi non patrimoniali (ad es., derivanti da lesioni personali o dalla
morte di un congiunto): in quest'ultimo caso, però, di esso il giudice dovrà
tenere conto nella personalizzazione del danno biologico o di quello causato
dall'evento luttuoso, mentre non ne è consentita una autonoma liquidazione.
Non è, inoltre, ammissibile, nel nostro ordinamento, l'autonoma
categoria di "danno esistenziale", inteso quale pregiudizio alle
attività non remunerative della persona, atteso che: ove in essa si
ricomprendano i pregiudizi scaturenti dalla lesione di interessi della persona
di rango costituzionale, ovvero derivanti da fatti-reato, essi sono già
risarcibili ai sensi dell'art. 2059 cod. civ., interpretato in modo conforme a
Costituzione, con la conseguenza che la liquidazione di una ulteriore posta di
danno comporterebbe una duplicazione risarcitoria; ove nel "danno
esistenziale" si intendesse includere pregiudizi non lesivi di diritti
inviolabili della persona, tale categoria sarebbe del tutto illegittima, posto
che simili pregiudizi sono irrisarcibili, in virtù del divieto di cui all'art.
2059 cod. civ.
Nonostante le successive decisioni delle sezioni semplici - le quali
paiono discostarsi da tali assunti sotto vari aspetti - ritiene il Giudicante
di attenersi ai principi espressi dalle SS.UU. che ricostruiscono compiutamente
la nozione del danno non patrimoniale.
Per quanto attiene allo specifico caso in esame, inoltre, vertendosi
nell'ambito del risarcimento dei danni derivanti dalla morte che segua dopo un
apprezzabile lasso di tempo alle lesioni, deve rilevarsi come non vi sia alcun
contrasto nella giurisprudenza della Corte (che prende le mosse dalla sentenza
delle sezioni unite del 22 dicembre 1925) sul diritto iure hereditatis al
risarcimento dei danni che si verificano nel periodo che va dal momento in cui
sono provocate le lesioni a quello della morte conseguente alle lesioni stesse,
diritto che si acquisisce al patrimonio del danneggiato e, quindi, è
suscettibile di trasmissione agli eredi.
L'unica distinzione che si registra negli orientamenti
giurisprudenziali riguarda la qualificazione, ai fini della liquidazione, del
danno da risarcire che, da un orientamento, con "mera sintesi
descrittiva" (cass. n. 26972 del 2008), è indicato come "danno
biologico terminale" (cass. n. 11169 del 1994, n. 12299 del 1995, n. 4991
del 1996, n. 1704 del 1997, n. 24 del 2002, n. 3728 del 2002, n. 7632 del 2003,
n 9620 del 2003, n. 11003 del 2003, n. 18305 del 2003, n. 4754 del 2004, n. 3549
del 2004, n. 1877 del 2006, n. 9959 del 2006, n. 18163 del 2007, n. 21976 del
2007, n. 1072 del 2011) - liquidabile come invalidità assoluta temporanea, sia
utilizzando il criterio equitativo puro che le apposite tabelle (in
applicazione dei principi di cui alla sentenza n. 12408 del 2011) ma con il
massimo di personalizzazione in considerazione della entità e intensità del
danno - e che, per contro, da altro orientamento, è classificato come danno
"catastrofale" (con riferimento alla sofferenza provata dalla vittima
nella cosciente attesa della morte seguita dopo apprezzabile lasso di tempo
dalle lesioni).
Il danno "catastrofale", inoltre, per alcune decisioni, ha
natura di danno morale soggettivo (cass. n. 28423 del 2008, n. 3357 del 2010,
n. 8630 del 2010, n. 13672 del 2010, n. 6754 del 2011, n. 19133 del 2011, n.
7126 del OMISSIS, n. 13537 del 2014) e, per altre, di danno biologico psichico
(Cass. n. 4783 del 2001, n. 3260 del 2007, n. 26972 del 2008, n. 1072 del
2011).
Ma da tali incertezze non sembrano derivare differenze rilevanti sul
piano concreto della liquidazione dei danni perché, come già osservato, anche
in caso di utilizzazione delle tabelle di liquidazione del danno biologico
psichico dovrà procedersi alla massima personalizzazione per adeguare il
risarcimento alle peculiarità del caso concreto, con risultati sostanzialmente
non lontani da quelli raggiungibili con l'utilizzazione del criterio equitativo
puro utilizzato per la liquidazione del danno morale (vedasi, sul punto, Cass.
SS.UU. 15350/2015).
Da ultimo, deve darsi atto che - poiché, in via di principio, nella
liquidazione del danno non patrimoniale, non è consentito, in mancanza di
criteri stabiliti dalla legge, il ricorso ad una liquidazione equitativa pura
non fondata su criteri obiettivi (i soli idonei a valorizzare le singole
variabili del caso concreto e a consentire la verifica ex post del ragionamento
seguito dal giudice in ordine all'apprezzamento della gravità del danno, delle
condizioni soggettive della persona, dell'entità della relativa sofferenza e
del turbamento del suo stato d'animo) - per garantire l'adeguata valutazione
del caso concreto e l'uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi, sembra
equo, in assenza di altri parametri, adottare il criterio di liquidazione
predisposto dalle recenti predisposte dall'Osservatorio Civile del Tribunale di
Milano per la liquidazione del c.d. "danno terminale".
Tali tabelle tengono conto dei seguenti principi:
- l'unitarietà ed omni-comprensività del concetto di "danno
terminale", che, come detto, alla luce dell'insegnamento delle Sezioni
Unite nelle sentenze gemelle dell'11 novembre 2008, nn. 26972-3-4-5,
ricomprende al suo interno ogni aspetto biologico e sofferenziale connesso alla
percezione della morte imminente (e, dunque, i pregiudizi altrimenti definiti
come "danno biologico terminale", da "lucida agonia" o
"morale catastrofale", nonché il danno biologico temporaneo
"ordinario", da intendersi in esso assorbito);
- la durata limitata del danno, derivante dalla stessa definizione del
danno come terminale (durata temporanea convenzionalmente stabilita in un
periodo massimo di 100 giorni, oltre il quale il danno terminale non può
prolungarsi, risultando risarcibile il solo danno biologico temporaneo
ordinario);
- la coscienza del danneggiato, non essendo il danno in re ipsa ed
occorrendo, quindi, la percezione della fine imminente;
- l'intensità decrescente, basata sull'esperienza medico legale,
secondo la quale il danno tende a decrescere col passare del tempo, dal momento
che la massima sofferenza è percepita nel periodo immediatamente successivo
all'evento lesivo per poi scemare nella fase successiva (tale criterio
verosimilmente non è perfettamente in linea con la gravità ingravescente della
patologia che ha condotto a morte il de cuius, ma resta, comunque, applicabile
anche nella presente fattispecie, sia pure con un calcolo a ritroso,
ipotizzando la massima sofferenza nei giorni immediatamente precedenti il
decesso);
- il metodo tabellare, che - pur nella ribadita difficoltà di
individuare una "regola" che valga per tutte le variegate
fenomenologie di danno terminale - assegna a ciascun giorno di sofferenza, nei
limiti del tetto di 100 giorni complessivi, un valore progressivamente - e
convenzionalmente - decrescente, sino ad agganciarsi, al 100 giorno, alla
valutazione del danno biologico temporaneo ordinario, dopo di che torneranno ad
applicarsi i valori pro die previsti per il danno biologico temporaneo;
- la quantificazione del danno sulla base di una tabella che prevede la
liquidazione di un danno terminale massimo di Euro 30.000 per i primi 3 giorni
(valore non ulteriormente personalizzabile), oltre ad Euro 53.234 per i giorni
residui dal 4 sino ad arrivare al 100 (personalizzabili sino ad un massimo del
50%); ed in Euro 149 per ciascuno dei giorni di malattia eccedenti i primi
cento (99 Euro con aumento personalizzato del 50%).
Dunque, a mente delle Tabelle del Tribunale di Milano dell'8.3.2021,
che qui integralmente si richiamano dandosi per trascritte, tenendo conto dei
criteri previsti al caso in esame, il danno deve essere quantificato tenendo
conto:
- che, nel caso di specie, tra la diagnosi della malattia (che, alla
stregua di quanto dichiarato dalla stessa parte ricorrente ed evincibile
documentalmente sulla base della cartella clinica della paziente relativa al
ricovero all'esito del quale è cronologicamente collocabile la definizione
diagnostica della malattia) risalente al 3.12.2010 ed il decesso, occorso in
data 4.02.OMISSIS, sono intercorsi 793 giorni;
- che, trattandosi degli ultimi giorni di vita della sig.ra D., deve
farsi riferimento ai valori previsti - in assenza di altri parametri - dalla
tabella proposta dall'Osservatorio sulla Giustizia Civile di Milano per la
liquidazione del c.d. "danno terminale";
- che, quindi, il danno deve essere quantificato in Euro 30.000 per i
primi 3 giorni oltre ad Euro 53.234 per i giorni residui sino ad arrivare a 100
(personalizzati fino al massimo del 50%), ed in Euro 103.257,00 per i giorni di
malattia eccedenti i primi 100 (somma ottenuta moltiplicando l'importo
giornaliero di Euro 149,00 - ovvero il massimo riconoscibile per il danno
biologico temporaneo - per il periodo antecedente a tali 100 gg e sino al
giorno dell'acquisita consapevolezza del certo sopraggiungere della morte e a
prescindere dall'entità della malattia sofferta, che, nel caso in esame, per le
ragioni anzidette, si ritiene doversi collocare il 3/12/2010;
- che, la personalizzazione nella misura del 50% è giustificata dalla
particolarità della patologia (neoplasia di estrema gravità con prognosi
infausta), dalla consapevolezza del de cuius dell'approssimarsi della fine e
dalle condizioni fisiche in cui versava nel periodo di riferimento ;
- che, pertanto, il danno iure hereditario deve essere equitativamente
quantificato in complessivi Euro 213.108,00, da corrispondersi a ciascuna delle
eredi pro-quota.
Secondo quanto stabilito con diverse pronunce dalla Suprema Corte (ex
multis: Cass., 8 aprile 2002, n. 5024; Cass., 10 settembre 2010, n. 19348;
Cass., 1 luglio 2011, n. 14507), su tale somma spettano poi la rivalutazione
monetaria e gli interessi legali sul capitale annualmente dalla data della
sentenza sino al saldo ai sensi dell'art. 429 c.p.c., norma applicabile anche
il risarcimento del danno subito dal lavoratore per la mancata predisposizione,
da parte dell'imprenditore, delle misure necessarie a tutelare l'integrità
fisica dei dipendenti, essendo tale danno di origine contrattuale e
strettamente connesso con lo svolgimento del rapporto di lavoro.
Quanto al riconoscimento del danno differenziale, il giudicante si
limita ad osservare - nei limiti propri della presente motivazione - che esso
discende dalla previsione di cui all'art. 10, commi 6 e 7, D.P.R. n. 1124 del
1965 e 1227 c.c.
Pertanto, il datore di lavoro - qualora non operi la regola
dell'esonero - è tenuto a pagare la differenza tra quanto liquidato
dall'I.n.a.i.l. e quanto lo stesso è tenuto a pagare in base ai criteri
civilistici (c.d. danno differenziale quantitativo) ed a risarcire i danni non
coperti dall'assicurazione I.n.a.i.l. (c.d. danno differenziale qualitativo o
danno complementare), in quanto "la limitazione dell'azione risarcitoria
di quest'ultimo al cosiddetto danno differenziale, nel caso di esclusione di
detto esonero per la presenza di responsabilità di rilievo penale (a norma
dell'art. 10 D.P.R. n. 1124 del 1965 e delle inerenti pronunce della Corte
costituzionale), riguarda solo le componenti del danno coperte
dall'assicurazione obbligatoria, la cui individuazione è mutata nel corso degli
anni" (vedasi Cass. n. 10834 del 05/05/2010).
Sebbene l'indennizzo I.n.a.i.l. assolva ad una funzione sociale e sia
finalizzato a garantire mezzi adeguati alle esigenze di vita del lavoratore -
secondo quanto previsto dall'art. 38 della Cost. - ed il sistema civilistico
sia finalizzato a risarcire il danno nella esatta misura in cui si è
verificato, tuttavia, "il principio della compensatio lucri cum damno, in
forza del quale il risarcimento non deve costituire fonte di lucro per il
danneggiato" comporta che "se dal fatto dannoso derivi qualche
vantaggio, se ne deve tenere conto nella liquidazione del danno, sottraendolo
al risarcimento" (vedasi Cass n. 23563 del 12/09/2008).
Nel caso in esame, tuttavia, si verte nell'ipotesi di danno
complementare, ovvero di danno per il quale non è prevista la copertura
assicurativa trattandosi di danno terminale/tanatologico, morale e danno
biologico temporaneo, con i relativi aumenti per la personalizzazione, atteso
che "se non si fa luogo a prestazione previdenziale non c'è assicurazione;
mancando l'assicurazione cade l'esonero" (Corte Cost. n. 319 del 1989,
356/1991, 485/1991; ed ancora S.C. n. 10834 del 05/05/2010 citata), ove
l'esonero può riguardare soltanto le prestazioni contemplate dall'art. 66 TU
1124/1965, avuto riguardo all'art. 13 D.Lgs. n. 38 del 2000, e, quindi, il
danno patrimoniale per inabilità temporanea, il danno biologico permanente dal
6%, il danno patrimoniale dal 16%, la rendita ai superstiti, le spese mediche
pagate dall'I.n.a.i.l.
Alla stregua di tutte le considerazioni svolte, deve, dunque,
concludersi come da dispositivo.
3. Le spese di lite.
Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza (art. 91 c.p.c.)
e si liquidano come da dispositivo.
Parimenti, le spese di CTU, come separatamente liquidate in corso di
causa, debbono essere poste definitivamente a carico delle resistenti.
P.Q.M.
Il Tribunale di Parma - Sezione Lavoro, in persona del Giudice dott.ssa
Ilaria Zampieri, definitivamente pronunciando nella causa in epigrafe indicata,
disattesa o assorbita ogni contraria istanza, eccezione e difesa, così
provvede:
1) Accerta e dichiara che la malattia patita in vita da E.D. e che ne
ha causato la morte è ascrivibile alla responsabilità di Regione OMISSISe
Gestione Liquidatoria dell'U.S.L. e, per l'effetto, dichiara tenute e,
pertanto, condanna le predette Amministrazioni, in solido, a corrispondere ai
ricorrenti, in qualità di eredi di E.D., a titolo di risarcimento del danno non
patrimoniale sofferto dal de cuius, la somma complessiva di Euro 213.108,00,
oltre interessi sulla somma annualmente rivalutata dalla data della presente
sentenza al saldo, da corrispondersi a ciascun erede pro-quota.
2) Condanna le Amministrazioni resistenti, a rifondere alle parti
ricorrenti le spese di lite, che liquida in complessivi Euro 24.000,00 per
compensi professionali, Euro 607,00 per spese, oltre IVA CPA e rimborso spese
forfettarie nella misura del 15%.
3) Pone definitivamente a carico delle Amministrazioni resistenti le
spese di CTU come già separatamente liquidate in corso di causa.
Indica in giorni sessanta il termine per il deposito della motivazione
della sentenza.
Così deciso in Parma, il 1 marzo 2022.
Depositata in Cancelleria il 30 agosto 2022.
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