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Giusta causa anche senza recidiva: va licenziato chi "taglia la corda" senza finire il turno
LAVORO (RAPPORTO)
Cass. civ. Sez. lavoro, 24-07-2008, n. 20376
Cass. civ. Sez. lavoro, 24-07-2008, n. 20376
Svolgimento del processo
La
Corte di Appello di Roma con sentenza n. 2633/03 rigettava l'appello
proposto da P.D.D. avverso la sentenza emessa dal Tribunale di Roma che
aveva respinto la sua domanda avanzata nei confronti della società la
Passeggiata avente ad oggetto: il riconoscimento della illegittimità del
recesso intimatogli per giusta causa nel corso di un contratto di
formazione in essere tra le parti; il pagamento della retribuzione sino
alla scadenza del rapporto; il risarcimento del danno pari a 10 milioni
per mancata formazione; il pagamento del preavviso e del TFR. Il giudice
di appello, premesso che l'addebito dell'abbandono del posto di lavoro
in occasione dei turni di servizio pomeridiano del lunedì, mercoledì e
venerdì almeno due ore prima della fine del turno e dell'indicazione sul
registro delle presenze dell'ora di uscita come se avesse ultimato il
turno nella sua materialità era incontroverso, poneva a base della
decisione rispettivamente i rilievi: che l'illecita della condotta del
superiore gerarchico, posta in essere con la complicità del lavoratore
non scriminava la condotta di quest'ultimo; che il licenziamento non era
tardivo in quanto il fatto era emerso a seguito delle dichiarazioni dei
lavoratori; che non potevano ritenersi esistenti comportamenti
aziendali di tolleranza o acquiescenti; che le esemplificazioni
collettive di comportamenti non implicavano che la recidiva assurgesse
ad elemento costitutivo della giusta causa; che sussisteva la
proporzionalità della sanzione tenuto conto dell'arbitrarietà e del
carattere illecito del comportamento.
Avverso tale sentenza il P. proponeva ricorso per cassazione sostenuto da tre motivi di censura.
Parte
intimata resisteva al gravame eccependo la tardività della notifica del
ricorso in quanto avvenuta in data 1/3/04 a fronte di sentenza di
appello notificata in data 2/10/03.
Entrambe le parti presentavano ex art. 378 c.p.c., memoria.
Motivi della decisione
Pregiudizialmente
va disattesa l'eccezione, sollevata dal resistente, di tardività della
notifica del ricorso per essere questa avvenuta oltre il termine breve
dalla notifica della sentenza di appello avvenuta in data 2/10/03.
Invero,
la sentenza risulta notificata presso l'avv.to Gennaro Leone in Viale
Angelico, 97 di Roma quale domiciliatario del P., tuttavia tale avv.to
non risulta essere, come desuntesi dall'appello, e domiciliatario, e
difensore del P., in quanto detto P. era, nel giudizio dinanzi alla
Corte di Appello di Roma, rapp.to e difeso dagli avv.ti Aurelio Leone e
Roberta Maiorano presso i quali elett.te domiciliava in Roma al Viale
Angelico, 97. La notifica della sentenza impugnata presso l'avv.to
Gennaro Leone, quindi, non è idonea, in quanto eseguita presso un
soggetto del tutto estraneo alla parte interessata, a far decorrere il
termine di cui all'art. 325 c.p.c..
Con
il primo mezzo di gravame il ricorrente, deducendo violazione e falsa
applicazione di norme di diritto ed omessa motivazione su punto decisivo
in relazione al disposto di cui agli artt. 414 e 421 c.p.c., lamenta la mancata ammissione della prova testimoniale ritualmente articolata in primo grado e ribadita in appello.
Il gravame è infondato.
La
prova di cui il ricorrente lamenta il mancato espletamento, infatti,
verte su circostanze, alla stregua di quanto riportato nel ricorso per
cassazione, non decisive atteso che la motivazione della sentenza
impugnata, circa l'apprezzamento dei fatti posti a base del
licenziamento, non si fonda su elementi attinenti ai capitoli di prova
di cui trattasi. Conseguentemente l'esito eventualmente favorevole al P.
della prova testimoniale non avrebbe portato ad un diversa decisione.
Con
la seconda censura il P., denunciando violazione e falsa applicazione
di norme di diritto e contraddittorietà della motivazione assume che il
licenziamento è illegittimo per tardività della contestazione in quanto
il datore di lavoro era già a conoscenza dal mese di gennaio delle sue
uscite fuori orario, per mancanza di recidiva e per difetto di
proporzionalità della sanzione.
La censura è infondata.
Invero la sentenza impugnata fornisce adeguata motivazione sui punti investiti dalla censura in esame.
La
tardività è difatti esclusa coerentemente dal rilievo che i fatti
oggetto dell'addebito sono emersi a seguito "delle dichiarazione dei
colleghi versate in atti" e che comunque la non tempestività non può
desumersi dalla annotazione nelle buste paga di alcune ore di assenza
"non potendosi in alcun modo affermare che trattasi delle stesse assenze
poi oggetto della contestazione". Si tratta del resto, di apprezzamento
di fatti) che in quanto congruamente argomentata sfugge al sindacato di
legittimità.
Quanto alla rilevanza della
mancata contestazione della recidiva ed al conseguente apprezzamento
della proporzionalità della sanzione è assorbente il rilevo che il
giudice di appello ha ritenuto, in proposito, che nessuna norma eleva la
recidiva ad elemento costitutivo o requisito della ricorrenza di una
giusta causa del recesso "men che meno le esemplificazioni collettive
dei comportamenti che possono giustificare sul piano astratto la lesione
del vincolo". Nè al riguardo il ricorrente svolge un adeguata censura
in ordine all'interpretazione della contrattazione collettiva fornita
dal giudice di secondo grado.
La censura è altresì infondata per quanto attiene la dedotta violazione di legge.
In
tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge,
infatti, consiste nella deduzione di un'erronea ricognizione, da parte
del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una
norma di legge e quindi implica necessariamente un problema
interpretativo della stessa (di qui la funzione di assicurare l'uniforme
interpretazione della legge assegnata alla Corte di cassazione
dall'art. 65 ord. giud.); viceversa, l'allegazione di un'erronea
ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di
causa è esterna all'esatta interpretazione della norma di legge e
impinge nella tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è
possibile, in sede di legittimità, sotto l'aspetto del vizio di
motivazione. Lo scrimine tra l'una e l'altra ipotesi - violazione di
legge in senso proprio a causa dell'erronea ricognizione dell'astratta
fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in
ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie
concreta - è segnato, in modo evidente, dal fatto che solo quest'ultima
censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione
delle risultanze di causa (Cass. 15499/04, 16312/05, 10127/06 e
4178/07).
Ebbene, nelle specie, la dedotta
violazione di legge risolvendosi nell'erronea applicazione della legge
in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della
fattispecie concreta, è esterna all'esatta interpretazione della norma
di legge.
Con il terzo mezzo di gravame il
ricorrente, allegando violazione e falsa applicazione di norme di
diritto e contraddittoria motivazione,assume che in base ai documenti ed
alle dichiarazioni della Sig.ra V. e del legale rappresentante non può
ritenersi giusta causa di recesso la irregolare scritturazione del libro
presenze, che non competeva ad esso ricorrente, ed il tentativo di
lucrare la retribuzione per le ore non lavorate.
Il mezzo è infondato.
Invero,
per quanto attiene l'assunta omessa e insufficiente motivazione in
ordine ai vari punti dedotti, mette conto rilevare che costituisce
principio del tutto pacifico (ex plurimis: Cass., sez. un., n. 13045/97)
che la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata
con ricorso per Cassazione conferisce al giudice di legittimità non il
potere di riesaminare il merito dell'intera vicenda processuale
sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il
profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale,
delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in
via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio
convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne
l'attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive
risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a
dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così,
liberamente prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisiti
(salvo i casi tassativamente previsti dalla legge).
Nel giudizio di cassazione,ha infatti ribadito questa Suprema Corte, anche di recente, che la deduzione del vizio di cui all'art. 360 c.p.c.,
n. 5, non consente alla parte di censurare la complessiva valutazione
delle risultanze processuali contenuta nella sentenza impugnata,
contrapponendo alla stessa una sua diversa interpretazione, al fine di
ottenere la revisione da parte del giudice di legittimità degli
accertamenti di fatto compiuti dal giudice di merito: le censure poste a
fondamento del ricorso non possono pertanto risolversi nella
sollecitazione di una lettura delle risultanze processuali diversa da
quella operata dal giudice di merito, o investire la ricostruzione della
fattispecie concreta, o riflettere un apprezzamento dei fatti e delle
prove difforme da quello dato dal giudice di merito (Cass. 7972/07).
Nè,
si è ulteriormente precisato, il motivo di ricorso per cassazione, con
il quale la sentenza impugnata venga censurata per vizio della
motivazione, non può essere inteso a far valere la rispondenza della
ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito al diverso
convincimento soggettivo della parte e, in particolare, non si può
proporre con esso un preteso migliore e più appagante coordinamento dei
molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni
all'ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova
e dell'apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del
giudice e non ai possibili vizi del percorso formativo di tale
convincimento rilevanti ai sensi della disposizione di cui all'art. 360 c.p.c.,
comma 1, n. 5); in caso contrario, questo motivo di ricorso si
risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni
e dei convincimenti del giudice di merito, e, perciò, in una richiesta
diretta all'ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente
estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione (Cass.
9233/06).
Ora avuto riguardo la caso di specie
il ricorrente, lamentando la non corretta valutazione delle risultanze
istruttorie prospettando al riguardo un apprrezzamento delle stesse
diverso da quello coerente ed adeguato fornito dal giudice in appello,
sostanzialmente chiede a questa Corte una nuova pronuncia sul fatto,come
tale estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione.
La
dedotta violazione di legge,poi, analogamente a quanto rilevato in
relazione al secondo mezzo di gravame, impinge nel fatto basandosi su di
una erronea ricostruzione, a mezzo delle risultanze istruttorie, della
fattispecie concreta e come tale è esterna alla allegata violazione.
Sulla base delle esposte considerazioni pertanto il ricorso va rigettato.
Avuto riguardo ai profili sostanziali della controversia stimasi compensare le spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 4 giugno 2008.
Depositato in Cancelleria il 24 luglio 2008
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