Translate

domenica 27 settembre 2015

Cassazione: Straordinari "timbrati" ma non prestati: anche una sola ora in più è tentata truffa L'indicazione di un numero di ore di lavoro superiore a quelle effettive è condotta intrinsecamente offensiva perchè induce il datore a un conteggio erroneo dei periodi da remunerare




Straordinari "timbrati" ma non prestati: anche una sola ora in più è tentata truffa
L'indicazione di un numero di ore di lavoro superiore a quelle effettive è condotta intrinsecamente offensiva perchè induce il datore a un conteggio erroneo dei periodi da remunerare
 
TENTATIVO   -   TRUFFA
Cass. pen. Sez. II, (ud. 22-12-2009) 21-01-2010, n. 2772
Fatto - Diritto P.Q.M.

Svolgimento del processo - Motivi della decisione

Con sentenza 25.6.07 il Tribunale di Sciacca assolveva per insussistenza del fatto G.F. dall'imputazione di tentata truffa (oltre che di falso ideologico).
L'accusa nasceva dall'avere il prevenuto - medico del Presidio Territoriale Emergenze di (OMISSIS) - falsamente attestato sul foglio presenze giornaliero del (OMISSIS) di essere stato in servizio per un orario più lungo di quello effettivamente osservato.
Ravvisava a riguardo il primo giudice un'ipotesi di desistenza volontaria perchè il successivo giorno 13 il G. aveva fatto recapitare all'ufficio preposto al conteggio delle ore lavorative una rettifica con cui indicava l'esatto ammontare delle ore lavorate, così evitando l'induzione in errore del funzionario dell'ente deputato ad erogargli lo stipendio.
Con sentenza 24.1.08 la Corte d'Appello di Palermo, in accoglimento del gravame del PG, ritenuta - invece - un'ipotesi di recesso attivo ex art. 56 c.p., comma 4, condannava l'imputato per tentata truffa.
Tramite il proprio difensore il G. ricorreva contro la sentenza, di cui chiedeva l'annullamento per i motivi qui di seguito riassunti:
a) travisamento dei fatti, che emergeva dal confronto tra la ricostruzione contenuta nella sentenza di primo grado e quella operata dai giudici del gravame;
b) erronea applicazione dell'art. 640 c.p. ed omessa motivazione sulla mancanza dell'induzione in errore, che pur la sentenza di primo grado aveva posto in rilievo;
c) erronea applicazione dell'art. 56 c.p.: premesso che il computo delle ore di straordinario ai fini della liquidazione dei relativi compensi avveniva il mese successivo a quello di competenza, la rettifica fatta pervenire dal ricorrente il giorno 13.8.07 aveva fatto sì che la sua precedente condotta non potesse indurre in errore i pubblici funzionali e, poichè l'induzione in errore era elemento costitutivo della condotta, il non essersi quest'ultima completata comportava l'inquadramento della fattispecie - così come aveva fatto il primo giudice - nell'ipotesi della desistenza e non già in quella del recesso attivo; inoltre, l'azione del G. non era nè univoca nè idonea ai fini della consumazione del delitto di truffa e ciò anche alla luce della dovuta prognosi postuma; infine, la differenza tra l'orario inizialmente indicato dal ricorrente e quello effettivamente svolto era di un'ora circa, arco temporale troppo breve per poter essere considerato rilevante da un punto di vista dell'offensivita della condotta.
1- Il primo motivo di ricorso va disatteso perchè si colloca al di fuori del novero di quelli spendibili mediante ricorso per cassazione, in esso potendosi denunciare solo un eventuale travisamento della prova e non già un travisamento del fatto, che attiene alla generale ricostruzione della vicenda alla luce delle acquisizioni processuali e che non può dedursi come vizio, neppure alla luce del nuovo testo dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) (come modificato dalla L. n. 46 del 2000).
In caso di denunciato travisamento della prova questa Corte Suprema, lungi dal procedere ad una (inammissibile) rivalutazione del fatto (e del contenuto delle prove), prende in esame gli elementi di prova risultanti dagli atti onde verificare se il relativo contenuto è stato veicolato o meno, senza distorsioni, all'interno della decisione.
In proposito la giurisprudenza (cfr. Cass. Sez. 3^ n. 39729 del 18.6.2009, dep. 12.10.2009, rv. 244623; Cass. n. 15556 del 12.2.2008, dep. 15.4.2008; Cass. n. 39048/2007, dep. 23.10.2007; Cass. n. 35683 del 10.7.2007, dep. 28.9.2007; Cass. n. 23419 del 23.5.2007, dep. 14.6.2007; Cass. n. 13648 del 3.4.06, dep. 14.4.2006, ed altre) può considerarsi ormai consolidata.
Nè può inquadrarsi sotto il vizio di travisamento della prova la mera denuncia di una difformità tra la ricostruzione operata dal primo giudice e quella fatta propria dai giudici d'appello. Per altro, nella fattispecie le due sentenze di merito divergono - in realtà - non tanto sotto l'aspetto della ricostruzione fattuale quanto sotto quello della relativa riconduzione alla figura dell'art. 56 c.p., comma 3 o comma 4. 2- Le considerazioni che precedono introducono la disamina dei restanti motivi di ricorso, da valutarsi congiuntamente perchè intimamente connessi.
Premesso che, ai fini dell'art. 56 c.p., l'idoneità degli atti non è sinonimo della loro sufficienza causale, limitandosi il concetto ad esprimere l'esigenza che essi abbiano l'oggettiva attitudine ad inserirsi, come condizione necessaria, nella sequenza causale ed operativa che conduce alla consumazione del delitto (cfr. Cass. Sez. 2^ n. 40343 del 13.5.2003, dep. 23.10.2003, rv. 227363), nel caso di specie l'aver indicato un numero di ore di lavoro straordinario superiore al reale è condotta di per sè idonea ed univoca - rispetto ad un giudizio doverosamente formulato ex ante secondo la cd. prognosi postuma, com'è noto - ad indurre in errore l'amministrazione di appartenenza all'atto del conteggio delle ore da retribuire.
Non può, quindi, condividersi il ricorso laddove sostiene che l'azione si sarebbe fermata ad una fase tanto prodromica da risultare inidonea alla produzione dell'evento: è vero - invece - che l'artificio (mendace indicazione delle ore lavorative) era già perfettamente compiuto ed era (sempre secondo la doverosa prognosi postuma) astrattamente tale da mettere in moto il procedimento causale (e contabile) che sarebbe sfociato nell'erogazione della retribuzione: prova ne sia che per impedire l'evento è stato necessario il ricorso ad un'azione uguale e contraria, vale a dire alla rettifica del 13.8.04 (v. meglio infra).
Non può nutrirsi dubbio alcuno nemmeno in ordine all'univocità dell'atto contestato al G., atteso che l'indicazione, sul foglio presenze giornaliero, delle ore di servizio effettuate è finalizzato, in primis, proprio a consentire lo sviluppo dei conteggi inerenti a quella porzione retributiva commisurata ex art. 2099 c.c., comma 1 al tempo di lavoro.
Dunque, a fronte di univocità ed idoneità dell'artificio sopra descritto, deve confermarsi che la condotta posta in essere prima della rettifica comunicata il 13.8.04 di per sè integrava già un tentativo punibile, presupposto - questo - di ogni discorso di potenziale applicazione dell'art. 56 c.p., comma 3 o del comma 4.
Orbene, per antica e costante giurisprudenza di questa Corte Suprema la desistenza volontaria si differenzia dal recesso attivo in quanto la prima interviene quando s'interrompe l'attività esecutiva, mentre il secondo è ravvisabile quando l'attività esecutiva è compiutamente esaurita e manca solo che si realizzi l'evento (cfr., ad es., Cass. Sez. 2^ n. 8031 del 24.6.92, dep. 16.7.92, rv. 191291, Porcari; Cass. Sez. 5^ n. 4123 del 10.2.83, dep. 2.5.83, rv. 158863, Fizzarotti; Cass. Sez. 1^ n. 6141 del 10.12.79, dep. 15.5.80, rv.
145301, Ferrisi).
Per attività esecutiva compiutamente esaurita deve intendersi l'intera condotta tipica, come descritta dalla norma incriminatrice (e, quindi, non intesa in senso meramente naturalistico).
A questo punto il discorso deve scindersi in due tronconi, a seconda che si versi in tema di reati omissivi impropri o di reati commissivi d'evento (come nel caso di specie).
Nella prima evenienza, per arrestare il processo causale ed aversi desistenza basta che l'agente intraprenda l'azione dovuta, che fino a quel momento aveva omesso.
Nella seconda - che è quella che qui interessa, posto che la truffa costituisce reato d'evento, che si perfeziona nel momento in cui alla realizzazione della condotta tipica da parte dell'autore abbia fatto seguito la "deminutio patrimonii" del soggetto passivo (cfr. Cass. S.U. n. 1 del 16.12.98, dep. 19.1.99, rv. 212079, Cellammare), l'agente deve interrompere la sequenza di atti all'esito dei quali si ha per esaurita la condotta tipica, nel senso che deve arrestarsi prima di porre in essere quegli atti ulteriori senza i quali l'evento non potrebbe verificarsi.
Non costituisce mai desistenza, invece, astenersi dal ripetere un'azione tipica già esaurita: in tal caso l'autore attende solo che si produca l'evento.
Se, invece, prima del verificarsi dell'evento il soggetto agente interviene con nuovi atti di segno eziologicamente contrario a quelli (in precedenza posti in essere) esecutivi del reato, sarà ravvisabile un recesso attivo.
In altre parole, nei reati commissivi (come quello per cui oggi è processo) la desistenza ha sempre carattere omissivo (degli ulteriori necessari atti esecutivi): diversamente, se - cioè - vengono posti in essere ulteriori atti, o questi avranno conforme direzione causale rispetto alla condotta tipica già esauritasi (ed allora saranno causalmente ininfluenti), oppure saranno di segno eziologicamente contrario a quelli già posti in essere e allora si verserà nell'ipotesi del recesso attivo (o ravvedimento operoso, secondo altra nota - seppur meno propria - terminologia), sempre che la condotta tipica si sia già esaurita.
In breve, a negare fondatezza all'assunto dell'odierno ricorrente è la natura stessa della desistenza nei reati commissivi, che consiste nell'omettere - appunto - ulteriori (e causalmente necessari) atti esecutivi, mentre è solo nei reati omissivi impropri che la desistenza consiste in un facere (vale a dire nell'intraprendere la condotta dovuta, che si stava omettendo).
Dunque, in sintesi, mentre nei reati omissivi impropri la condotta commissiva integra desistenza, in quelli commissivi costituisce - invece - recesso attivo (sempre, s'intende, in ipotesi di condotta tipica già esaurita).
La conclusione che precede è confermata anche sotto altro profilo.
La condotta tipica nel reato p. e p. ex art. 640 c.p. consiste in artifici e raggiri idonei all'altrui induzione in errore, mentre il conseguente atto di disposizione patrimoniale produttivo di danno per il deceptus e di ingiusto profitto per il deceptor integra l'evento del delitto in discorso.
A sua volta, l'avvenuta induzione in errore è evento (inteso in senso naturalistico) intermedio, che si colloca tra gli artifici e/o raggiri e l'atto di disposizione patrimoniale da parte del deceptus;
per l'esattezza, costituisce la deliberazione volitiva (viziata dall'altrui frode) che è alla base dell'atto dispositivo.
Contrariamente a quanto si legge in ricorso, l'avvenuta induzione in errore non appartiene alla condotta tipica del delitto p. e p. ex art. 640 c.p. perchè in essa rientrano soltanto gli atti su cui il soggetto attivo mantenga pieno e personale dominio (nel senso che può porli in essere od astenersi dal farlo): invece, il cadere o meno in errore dipende dalla maggiore o minore capacità di resistenza all'altrui frode da parte del deceptus, vale a dire da processi mentali propri di quest'ultimo.
Nè rientra nella condotta tipica de qua la rettifica posta in essere dal ricorrente il 13.8.04, trattandosi - come si è già visto - di atto di segno eziologicamente contrario a quello posto in essere precedentemente.
Dunque, l'adoperarsi fattivamente - così come ha fatto l'odierno ricorrente - affinchè il destinatario dell'artificio non cadesse in errore è azione che si colloca all'esterno di una condotta tipica già realizzata in tutti i necessari segmenti: quindi, non integra desistenza, ma recesso attivo.
Quanto all'ultima doglianza espressa dal ricorrente in termini di non apprezzabile offensività o di particolare tenuità del fatto contestatogli (essendo stata la divergenza dal reale di un'ora o poco più), è appena il caso di ricordare che si tratta di concetto astrattamente rilevante solo nell'ambito del D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 34 (sui reati di competenza del giudice di pace) o dell'art. 27 c.p.p.m..
3- Al rigetto del ricorso consegue, ex art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione, Seconda Sezione Penale, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 22 dicembre 2009.
Depositato in Cancelleria il 21 gennaio 2010

Nessun commento: