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venerdì 6 settembre 2013

TAR: "..demansionamento patito dal ricorrente nello svolgimento delle funzioni di Ispettore Superiore S.U.P.S. della Polizia di Stato.."


T.A.R. Toscana (Lpd) Sez. I, Sent., 11-07-2013, n. 1165
Fatto Diritto P.Q.M.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana
(Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1856 del 2010, proposto dal sig. (Lpd) -
contro
Ministero dell'Interno, Questura di (Lpd), rappresentati e difesi per legge dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato, presso la cui sede sono domiciliati in (Lpd), via degli Arazzieri 4;
per l'annullamento
del demansionamento patito dal ricorrente nello svolgimento delle funzioni di Ispettore Superiore S.U.P.S. della Polizia di Stato in servizio presso il Commissariato di (Lpd) (Questura di (Lpd)) dall'anno 2004 all'anno 2007 fino al pensionamento anticipato, nonché per il riconoscimento dei danni patrimoniali, fisici e morali tutti sofferti dal ricorrente a causa del demansionamento e del mobbing subito nel periodo sopra circostanziato e per l'accertamento della dipendenza da causa di servizio relativamente all'equo indennizzo ex artt. 2 e 7 D.P.R. n. 461 del 2001 susseguente, e per la condanna delle amministrazioni intimate al risarcimento dei danni patrimoniali e non, fisici e morali tutti patiti e patiendi dal Sig. (Lpd) a causa del demansionamento, del mobbing, del pensionamento anticipato con conseguente perdita di chance.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero dell'Interno e della Questura di (Lpd);
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 19 aprile 2013 il dott. Pierpaolo Grauso e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Svolgimento del processo
Con ricorso notificato a mezzo del servizio postale il 21 ottobre 2010 e depositato il 12 novembre successivo, (Lpd) ex ispettore superiore S.U.P.S. della Polizia di Stato, esponeva di aver prestato servizio presso il Commissariato di (Lpd) dal 1993, con mansioni di rilevante responsabilità, fino al 2004, anno in cui era subentrata alla direzione dell'ufficio la dottoressa P.G., la quale lo aveva escluso da qualsiasi attività, fatta eccezione per la trattazione di esposti di scarso valore investigativo, assumendo nei suoi confronti un atteggiamento di emarginazione testimoniato da una serie di condotte vessatorie, che avevano peraltro coinvolto anche altri colleghi e reso necessario l'intervento del Prefetto di (Lpd) e l'invio di un Vice Questore vicario da parte del Ministero dell'Interno. Il ricorrente proseguiva deducendo come i ripetuti episodi persecutori di cui era stato vittima gli avessero causato patologie cardiache e ansioso-depressive, inducendolo, nel marzo del 2007, a presentare richiesta per il riconoscimento della dipendenza da causa di servizio e dell'equo indennizzo e, determinandone il giudizio di permanente ed assoluta inidoneità al servizio, pronunciato dalla competente C.M.O. nel gennaio 2008, all'età di soli quarantadue anni.
Tanto premesso in fatto, il T. denunciava di essere stato vittima da parte della dirigente G. del deliberato svuotamento dei compiti che in precedenza gli erano stati attribuiti, attraverso condotte integranti gli estremi non del semplice demansionamento, ma del vero e proprio mobbing; e concludeva per la condanna dell'amministrazione al risarcimento dei danni e all'erogazione in suo favore dell'equo indennizzo a decorrere dalla data di cessazione dal servizio.
Costituitisi in giudizio il Ministero dell'Interno e la Questura di (Lpd), nella camera di consiglio del 1 dicembre 2010 il collegio respingeva l'istanza cautelare formulata dal ricorrente con lo stesso atto introduttivo del giudizio.
Nel merito, la causa veniva discussa e trattenuta per la decisione nella pubblica udienza del 19 aprile 2013, preceduta dal deposito di documenti e memoria difensiva ad opera delle amministrazioni resistenti.
Motivi della decisione
Il ricorrente (Lpd) già ispettore superiore della Polizia di Stato, agisce in via principale per il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali che assume di aver patito in costanza di servizio ed, in particolare, tra il 2004 e il congedo, intervenuto nel gennaio del 2008. Il T., all'epoca assegnato al Commissariato di (Lpd), afferma che in quel periodo egli sarebbe stato sottoposto a comportamenti vessatori da parte della dirigente P.G., la quale non si sarebbe limitata a sottoutilizzarlo, ma in modo premeditato ed arbitrario lo avrebbe di fatto privato di ogni incarico, infliggendogli un trattamento discriminatorio integrante la fattispecie del mobbing e fonte di pregiudizio sia sul piano della capacità professionale, sia sul piano dell'integrità psicofisica. Unitamente alla domanda risarcitoria, il ricorrente chiede altresì la condanna del Ministero intimato al riconoscimento e all'erogazione dell'equo indennizzo in relazione alle patologie che assume di aver contratto in dipendenza delle vessazioni patite in occasione del servizio.
Il ricorso è in parte infondato, in parte inammissibile.
Secondo le consolidate acquisizioni della giurisprudenza, con l'espressione mobbing si indica una condotta tenuta dal datore di lavoro, o da un superiore gerarchico, nei confronti di un lavoratore all'interno dell'ambiente di lavoro, "che si manifesta con comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all'ordinaria gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del lavoratore, tale che ne consegua un effetto lesivo della sua salute psicofisica. Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti la molteplicità e globalità di comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche di per sé leciti, posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente secondo un disegno vessatorio; l'evento lesivo della salute psicofisica del dipendente; il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e la lesione dell'integrità psicofisica del lavoratore; la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio" (per tutte, cfr. Cons. Stato, sez. VI, 15 giugno 2011, n. 3648). L'accertamento delle finalità precipuamente persecutorie o discriminatorie delle condotte cui il lavoratore è sottoposto qualifica l'intera fattispecie, giacché è proprio l'elemento finalistico che "consente di cogliere in uno o più provvedimenti e comportamenti, o anche in una sequenza frammista di provvedimenti e comportamenti, quel disegno unitario teso alla dequalificazione, svalutazione, emarginazione del lavoratore pubblico dal contesto organizzativo nel quale è inserito e che è imprescindibile ai fini dell'enucleazione del mobbing" (così Cons. Stato, sez. IV, 16 febbraio 2012, n. 815, e i precedenti ivi richiamati).
Alla luce dei principi dianzi richiamati, nella specie la configurabilità del mobbing va esclusa per assenza di prova in ordine al duplice profilo della materialità delle condotte attribuite dal ricorrente alla dirigente dott.ssa G., ed, in ogni caso, dell'esistenza di un disegno persecutorio posto in essere ai danni del ricorrente medesimo per esclusive finalità vessatorie ed emulative.
A sostegno della domanda di risarcimento dei danni, è allegata una serie di episodi (narrati al punto 3 dell'atto introduttivo del giudizio), in relazione ai quali viene chiesta l'ammissione di prova per interrogatorio formale e per testimoni. L'istanza istruttoria è, tuttavia, inammissibile per entrambi i mezzi, posto che l'interrogatorio formale è tradizionalmente estraneo al processo amministrativo e tale è rimasto a norma dell'art. 63 co. 5 c.p.a.; e che la deduzione della prova testimoniale risulta manifestamente difforme dal modello legale di cui all'art. 244 co. 1 c.p.c., applicabile nel processo amministrativo in virtù del rinvio esterno contenuto nell'art. 39 c.p.a., non essendo stata articolata mediante la specifica indicazione dei fatti formulati in capitoli separati, e non essendo consentito al giudice selezionare di sua iniziativa i singoli fatti oggetto della prova, ovvero separare i fatti dalle considerazioni e valutazioni cui gli stessi sono frammisti nella narrativa del ricorso (e a maggior ragione i vizi della prova così dedotta conducono alla sanzione dell'inammissibilità, se si considera che la testimonianza non può che essere assunta in forma scritta, ai sensi dell'art. 63 co. 3 c.p.a., forma rispetto alla quale alla necessaria specificità dei quesiti deve corrispondere la specificità delle risposte rese dal testimone, senza alcuna mediazione da parte del giudice: artt. 257-bis c.p.c. e 103-bis disp. att. c.p.c.).
Per le medesime ragioni, è da considerarsi inammissibile la prova testimoniale riferita dal ricorrente alle circostanze indicate nei documenti allegati al ricorso dal n. 2 al n. 6, e non ritualmente capitolate, con l'ulteriore precisazione che i documenti dal n. 3 al n. 6 sono formati da missive di doglianza indirizzate al Questore di (Lpd) da un collega del T., il sostituto commissario Grieco, relativamente ai suoi personali rapporti con la dirigente G., e perciò del tutto irrilevanti ai fini di causa.
A prescindere dall'acclarata inammissibilità delle prove come articolate in ricorso, merita peraltro sottolineare come i fatti allegati, quand'anche dimostrati, non consentirebbero di delineare il preteso demansionamento, vale a dire la condotta nella quale sarebbe principalmente consistito il mobbing attuato dalla dott.ssa G. ai danni del T.. Non vi è infatti alcuna prova degli incarichi ricoperti e dei compiti espletati in epoca anteriore al 2004, né del grado di coinvolgimento nelle attività del Commissariato e di autonomia operativa riconosciuti al ricorrente prima dell'avvento alla dirigenza della dott.ssa G., di modo che non è possibile eseguire il dovuto raffronto fra la situazione precedente e quella successiva al subingresso di quest'ultima nella direzione del Commissariato; fermo restando che il ricorrente ha dedotto genericamente la violazione dell'art. 2103 c.c., ma non anche quella dell'art. 26 del D.P.R. n. 335 del 1982, norma specifica dell'ordinamento del personale di Polizia che disciplina le mansioni degli ispettori, dovendosi pertanto presumere che, in realtà, un'apprezzabile compromissione del mansionario non vi sia stata. Del resto, a ben vedere, solo due degli episodi denunciati dal T. attengono direttamente alle mansioni (quelli di cui ai paragrafi 3) B) e C) del ricorso), e in nessuno dei due casi vi sono elementi oggettivi per affermare che il mancato impiego del ricorrente nell'attività sia stato pretestuoso e intenzionalmente discriminatorio.
I rimanenti episodi, dal canto loro, riguardano il cambiamento di stanza disposto dalla dirigente nei confronti del T., le cui modalità e motivazioni sono contestate fra le parti, ma che, anche a voler in ipotesi accedere alla versione del ricorrente, di per sé non assurgono alla consistenza della condotta mobbizzante, al pari della presunta indifferenza della dott.ssa G. alle condizioni di salute del ricorrente in occasione dell'infortunio da costui patito il 26 novembre 2005. Per altro verso, proprio la circostanza che il ricorrente non sia stato il solo dipendente in servizio presso il Commissariato di (Lpd) a risentire delle iniziative assunte dalla dott.ssa G. (come detto, anche il sostituto commissario Grieco ebbe a lamentarsene con il Questore) rappresenta un indizio contrario alla configurabilità di un disegno persecutorio diretto contro il Tiberi, e sembra piuttosto avvalorare la tesi della difesa erariale, secondo cui si sarebbe esclusivamente trattato di scelte organizzative di carattere generale assunte dalla dirigente nei rapporti con i diretti collaboratori, sia pure in linea di discontinuità con quelle del suo predecessore.
Le emergenze processuali non lasciano dunque trasparire, neppure per presunzioni, l'esistenza degli elementi costitutivi della fattispecie invocata dal ricorrente, né consentono di riconoscere in capo alle amministrazioni resistenti quelle singole ipotesi "minori" di inadempimento contrattuale, che il giudice ha comunque l'obbligo di verificare una volta accertata l'insussistenza del mobbing denunciato in via principale (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 10 gennaio 2012, n. 14). Ne discende l'infondatezza della domanda risarcitoria con riferimento a ciascuno dei titoli allegati.
Venendo, infine, alla domanda avente ad oggetto la condanna del Ministero dell'Interno al riconoscimento in favore del ricorrente del beneficio dell'equo indennizzo, è sufficiente evidenziare che, a fronte dell'istanza di riconoscimento presentata in via amministrativa il 9 marzo 2007, nessun provvedimento formale risulta essere stato adottato. Il ricorrente avrebbe dovuto agire nei confronti del silenzio serbato dall'amministrazione entro il termine annuale di cui all'art. 2 co. 8 della L. n. 241 del 1990 nel testo introdotto dall'art. 7 della L. n. 69 del 2009, applicabile ratione temporis; termine decorrente dalla scadenza dei termini procedimentali stabiliti dal D.P.R. n. 461 del 2001, nella specie ampiamente trascorsi al momento della proposizione della domanda (il parere della C.M.O. è del 22 gennaio 2008), la quale è perciò da considerarsi inammissibile.
Per le ragioni che precedono il ricorso in epigrafe va in parte respinto e in parte dichiarato inammissibile.
Le spese di lite spese possono essere integralmente compensate tra le parti in considerazione della natura della controversia.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana (Sezione Prima), definitivamente pronunciando, in parte respinge, e in parte dichiara inammissibile il ricorso in epigrafe.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in (Lpd) nella camera di consiglio del giorno 19 aprile 2013 con l'intervento dei magistrati:
Paolo Buonvino, Presidente
Alessandro Cacciari, Consigliere
Pierpaolo Grauso, Consigliere, Estensore

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