N. 47 ORDINANZA (Atto di promovimento) 4 febbraio 2020
Ordinanza del 4 febbraio 2020 del G.I.P. del Tribunale di Milano nel
procedimento penale a carico di S. L..
Pronunce della Corte costituzionale - Dichiarazione di illegittimita'
costituzionale - Effetti retroattivi - Deroga all'intangibilita'
del giudicato penale di condanna - Inapplicabilita' ai casi di
sopravvenuta dichiarazione di incostituzionalita' di sanzioni
amministrative qualificabili come penali ai sensi della CEDU.
- Legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul
funzionamento della Corte costituzionale), art. 30, quarto comma.
(GU n.22 del 27-5-2020 )
TRIBUNALE DI MILANO
ufficio del giudice per le indagini preliminari
in funzione di giudice dell'esecuzione
Il giudice, dott. Roberto Crepaldi, in funzione di giudice
dell'esecuzione;
Nel procedimento di cui in epigrafe nei confronti di S . . . L .
. ., nato a S . . . il . . . , elettivamente domiciliato presso lo
studio del proprio difensore - presente;
Difeso di fiducia dall'avvocato Giuseppe Locurcio del foro di
Milano - presente;
Letta la richiesta formulata dal condannato di rideterminazione
della pena irrogata con la sentenza del Tribunale di Milano, sezione
GIP, in data 20 novembre 2018, n. 2923, irrevocabile l'8 dicembre
2018, con la quale al S . . . e' stata applicata la pena di anni uno
e mesi sei di reclusione in relazione al delitto di cui all'art.
589-bis del codice penale (commesso in Milano, il 20 giugno 2017),
nonche' la sanzione amministrativa accessoria della revoca della
patente di guida;
Letto il parere del pubblico ministero, il quale ha concluso
favorevolmente;
A scioglimento della riserva assunta all'udienza camerale del 10
dicembre 2019
Osserva
1. Con sentenza emessa in data 20 novembre 2018 n. 2923 e
rivenuta irrevocabile l'8 dicembre 2018, il Tribunale di Milano,
sezione giudice per le indagini preliminari, ha applicato - in
relazione al delitto di cui all'art. 589-bis del codice penale - nei
confronti del ricorrente, oltre alla sanzione penale richiesta dalle
parti (anni uno e mesi sei di reclusione, pena condizionalmente
sospesa), la sanzione amministrativa accessoria della revoca della
patente di guida ai sensi dell'art. 222, comma 2, c.d.s. (come
modificato dall'art. 1, comma 6, lettera b), legge 23 marzo 2016 n.
41).
In esecuzione della statuizione del giudice penale, il Prefetto
di Milano, con decreto 2017/8047 ha disposto la revoca della patente
di guida al condannato.
1.1. Con ricorso del 18 giugno 2019, il condannato ha chiesto la
revoca della sanzione amministrativa accessoria predetta, sulla
scorta della sentenza della Corte costituzionale n. 88 del 19
febbraio 2019, con la quale il giudice delle leggi ha dichiarato
l'illegittimita' costituzionale dell'art. 222, comma 2, c.d.s. «nella
parte in cui non prevede che, in caso di condanna, ovvero di
applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell'art.
444 del codice di procedura penale, per i reati di cui agli articoli
589-bis (Omicidio stradale) e 590-bis (Lesioni personali stradali
gravi o gravissime) del codice penale, il giudice possa disporre, in
alternativa alla revoca della patente di guida, la sospensione della
stessa ai sensi del secondo e terzo periodo dello stesso comma 2
dell'art. 222 del Codice della strada allorche' non ricorra alcuna
delle circostanze aggravanti previste dai rispettivi commi secondo e
terzo degli articoli 589-bis e 590-bis del codice penale».
Secondo il ricorrente la predetta statuizione della Corte
costituzionale dovrebbe trovare immediata applicazione in virtu'
dell'estensione del principio di retroattivita' della lex mitior alle
sanzioni amministrative, predicato dallo stesso giudice delle leggi
nella sentenza n. 63/2019, atteso che la sanzione applicata, pur di
natura formalmente amministrativa, assumerebbe portata afflittiva,
attratta alla c.d. materia penale sulla scorta dei principi espressi
dalla Corte europea dei diritti dell'uomo.
1.2. In relazione alla predetta istanza, il pubblico ministero ha
espresso parere favorevole, richiamandosi integralmente al percorso
argomentativo svolto dal ricorrente.
2. Preliminarmente va affermata la competenza del Tribunale di
Milano - giudice che ha emesso l'ultimo provvedimento di condanna
irrevocabile a carico del S . . . - quale giudice dell'esecuzione,
anche in relazione alla revoca di una sanzione amministrativa.
L'attribuzione al giudice penale del potere di applicare sanzioni
amministrative come conseguenza della condanna per un reato, operata
dal citato art. 222 c.d.s., comporta che il successivo provvedimento
amministrativo, emesso ai sensi dell'art. 224 c.d.s., costituisca
mero recepimento di quanto disposto in sentenza, senza che residui in
capo al Prefetto alcun margine di discrezionalita'.
Cosicche' non puo' che competere al giudice penale lo scrutinio
in merito alla perdurante validita' della statuizione relativa alla
sanzione amministrativa contenuta nella sentenza: lo stretto nesso di
dipendenza del provvedimento amministrativo rispetto al giudicato
penale non consentirebbe la revoca del primo senza la parziale
caducazione del secondo.
La stessa Corte costituzionale (sentenza n. 88/2019, § 6) ha
evidenziato come il provvedimento del Prefetto costituisca «un mero
atto amministrativo conseguenziale di esecuzione dell'ordine
giudiziale; la pronuncia della revoca della patente, quale sanzione
amministrativa che accede alla dichiarazione di responsabilita'
penale per i reati di omicidio stradale e di lesioni personali
stradali gravi o gravissime, e' demandata al giudice».
Non puo' che spettare al giudice penale, quindi, il compito di
vigilare sulla perdurante rispondenza della sanzione amministrativa
accessoria al principio di legalita' per tutto il corso della sua
esecuzione.
Sotto tale profilo occorre evidenziare come la sanzione sia
ancora in atto, atteso che l'art. 222, comma 3-ter, c.d.s., prevede
che il destinatario del provvedimento di revoca possa conseguire
nuovamente la patente di guida solo qualora siano trascorsi cinque
anni dalla revoca, periodo che nel caso di specie non e' ancora
trascorso.
2.1. Il ricorrente non individua chiaramente la norma che
attribuirebbe al giudice dell'esecuzione il potere di
rideterminazione della sanzione amministrativa accessoria da lui
applicata.
Tale fondamento non puo' essere rintracciato nell'art. 673 del
codice di procedura penale che, per un verso, riguarda il differente
caso di radicale declaratoria di illegittimita' costituzionale della
norma incriminatrice - mentre, nel caso di specie, la Corte
costituzionale ha censurato esclusivamente l'automatismo
sanzionatorio e introdotto, mediante una sentenza di illegittimita'
parziale c.d. manipolativa una discrezionalita' piu' ampia del
giudice della cognizione nei casi in cui non ricorrano, come nel caso
di specie, le aggravanti previste dai commi II e III degli articoli
589-bis e 590-bis del codice penale - e, dall'altro, comporta la
revoca del giudicato e non la sua modifica.
Le stesse sezioni unite della Suprema Corte hanno evidenziato
l'inapplicabilita' dello strumento previsto dall'art. 673 del codice
di procedura penale a porre rimedio (i) alla sentenza della Corte ECU
(sentenza Scoppola c. Italia del 17 settembre 2009) che imponga di
sostituire la pena dell'ergastolo inflitta al ricorrente con la pena
di anni trenta di reclusione perche' assunta in violazione del
principio di retroattivita' favorevole (Cass. pen., sezioni unite, n.
18821/14); (ii) alla declaratoria di incostituzionalita' di una
circostanza aggravante da cui consegua la necessita' di rideterminare
la pena (Cass. pen., sezioni unite, n. 42858/14) ovvero (iii) della
stessa cornice sanzionatoria applicata nella sentenza definitiva
(Cass. pen., sezioni unite, n. 37107/15).
In tutti questi casi la Corte ha rintracciato nell'art. 30, comma
4, legge n. 87/1953 - il quale prevede che «quando in applicazione
della norma dichiarata incostituzionale e' stata pronunciata sentenza
irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli
effetti penali» - la norma chiamata a porre rimedio alle situazioni
innanzi ricordate.
La disposizione da ultimo citata, tuttavia, risulta inapplicabile
al caso di specie: lo stesso tenore letterale della norma - nella
parte in cui fa riferimento esplicito alla «sentenza irrevocabile di
condanna» e ai suoi «effetti penali» - ne lascia intendere
l'efficacia solo con riferimento alle sanzioni formalmente penali e
alle statuizioni tipicamente penali contenute nella sentenza.
L'estensione della norma citata alle sanzioni amministrative e'
stata sostenuta dalla Suprema Corte, seppure in un obiter dictum
contenuto in un'ordinanza con la quale e' stato proposto un incidente
costituzionale (Cass. pen. , sezione V, ordinanza 15 gennaio 2015, n.
1782).
Anche senza voler considerare l'inequivoco tenore letterale della
disposizione, che non si presta ad una simile «lettura estensiva», va
evidenziato come la stessa Corte costituzionale abbia riconosciuto la
correttezza dell'opposta conclusione (Corte costituzionale, sentenza
n. 43/2017, par. 2).
La sanzione amministrativa, ancorche' legata indissolubilmente
all'accertamento contenuto nella sentenza del giudice penale, non
puo' essere neppure inclusa nel novero degli «effetti penali» della
condanna, anche se intesi in senso lato: secondo le sezioni unite
della Suprema Corte (Casa. pen., sezioni unite, n. 7/1994, ribadite
in termini da Cassazione pen., sezioni unite, nn. 5859/2011 e
31/2000), infatti, l'effetto penale e' caratterizzato «1) dall'essere
conseguenza soltanto di una sentenza irrevocabile di condanna e non
pure di altri provvedimenti che possano determinare quell'effetto; 2)
dall'essere conseguenza che deriva direttamente, ope legis, dalla
sentenza di condanna e non da provvedimenti discrezionali della
pubblica amministrazione, ancorche' aventi come necessario
presupposto la sentenza di condanna; 3) dalla natura "sanzionatoria"
dell'effetto».
Nel caso di specie, la revoca della patente puo' essere applicata
quale sanzione amministrativa indipendentemente da una sentenza di
condanna del giudice penale (articoli 120 e 219 c.d.s.) e per fatti
diversi da un reato (si pensi al riferimento all'art. 75 del decreto
del Presidente della Repubblica, n. 309/90).
Nel medesimo senso depone la qualificazione espressa del
legislatore quale autonoma sanzione amministrativa e non quale mera
causa di efficacia del titolo di abilitazione alla guida.
Del resto e' pacifico che le sanzioni amministrative accessorie,
eccezionalmente applicate dal giudice penale in conseguenza
dell'accertamento di un reato, non costituiscano effetti penali della
condanna (cosi Cassazione pen., sezione III, n. 2674/2000; sezione
VI, n. 9749/1994).
Neppure sotto tale profilo, dunque, l'art. 30, comma 4, legge n.
87/1953 risulta applicabile al caso di specie.
3. Ad avviso del giudice proprio sotto tale profilo appare
rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita'
costituzionale del citato art. 30, comma 4, legge n. 87/1953, nella
parte in cui non consente al giudice dell'esecuzione di rideterminare
una sanzione amministrativa accessoria - la cui e' applicazione e'
demandata al giudice penale, unitamente alle sanzioni penali -
oggetto di una declaratoria di illegittimita' costituzionale che ne
abbia mutato di fatto la disciplina.
Una simile lacuna dell'ordinamento, infatti, non appare
pienamente conforme al disposto degli articoli 3, 25, 35, 41, 117 in
relazione agli articoli 6 e 7 della Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali - e
136 della Costituzione.
La rilevanza della questione e' immediatamente percepibile sulla
scorta di quanto detto: senza la possibilita' di applicare il
disposto dell'art. 30 della legge n. 87/1953 anche alle sanzioni
amministrative applicate con la sentenza penale, infatti, l'istanza
avanzata dal ricorrente sarebbe inammissibile o comunque infondata,
difettando qualsiasi norma che consenta al giudice di rimuovere gli
effetti della sanzione amministrativa non piu' conforme a
costituzione.
Neppure puo' dubitarsi che al ricorrente spetti il beneficio
invocato: questi, infatti, e' stato condannato per un fatto per il
quale la revoca e' divenuta, dopo la sentenza della Corte
costituzionale, facoltativa (l'imputazione concerne, infatti, il
reato di cui all'art. 589-bis, comma 1, del codice penale).
Sotto tale profilo occorre considerare, da un lato, le
indicazioni della Corte costituzionale nella citata sentenza n.
88/2019 circa la necessita' di valutare «la gravita' della condotta
del condannato» e, dall'altro, il caso concreto per come consacrato
nel giudicato. All'esito di tale valutazione, si ritiene che la
limitata gravita' degli addebiti di colpa specifica - consistita
essenzialmente nella violazione degli articoli 40, 145 e 146 c.d.s. -
impongano una riconsiderazione della sanzione amministrativa
accessoria applicata, alla luce del rinnovato quadro sanzionatorio,
sostituendo la revoca della patente con la sospensione della patente
di guida, ai sensi dell'art. 222, comma 2, per la durata di 3 anni.
4. Quanto alla non manifesta infondatezza occorre evidenziare, in
primo luogo, come entrambe le parti si siano richiamate al principio
di retroattivita' della legge sopravvenuta piu' favorevole al reo.
Il richiamo appare erroneo sotto un duplice profilo: nel caso di
specie non e' intervenuta alcuna modifica normativa ma la disciplina
e' mutata in conseguenza di un intervento manipolativo del giudice
delle leggi.
Non si tratta di una notazione di natura esclusivamente formale,
in quanto la diversa natura del fenomeno - attinente alla validita'
della norma e non a una semplice successione di leggi penali -
implica la loro sottoposizione a limiti molto diversi. Mentre la
retroattivita' della legge favorevole trova un limite (art. 2, comma
4, del codice penale) proprio nel giudicato, costituisce ormai ius
receptum che la dichiarazione di incostituzionalita' della norma
incriminatrice o, comunque, di una norma che incida sul trattamento
sanzionatorio non possa trovare ostacolo nel giudicato, come del
resto e' dato desumere dallo stesso art. 30, comma 4, legge n.
87/1953.
Appare sufficiente richiamarsi alle numerose sentenze delle
sezioni unite - gia' citate supra - che hanno fatto applicazione
della norma da ultimo citata per consentire al giudice
dell'esecuzione di rideterminare la pena a seguito delle pronunce
della Corte costituzionale aventi ad oggetto, come detto, la cornice
edittale, una circostanza aggravante che ha comportato, nel caso
concreto, un aumento della pena, ovvero ancora la disciplina di un
rito alternativo che incida sulla pena.
Tale considerazione si basa essenzialmente sulla stessa ratio
dell'art. 30, comma 4, legge n. 87/1953, vale a dire «impedire che
anche una sanzione penale, per quanto inflitta con una sentenza
divenuta irrevocabile, venga ingiustamente sofferta sulla base di una
norma dichiarata successivamente incostituzionale, perche' la
conformita' a legge della pena, in particolare di quella che incide
sulla liberta' personale, deve essere costantemente garantita dal
momento della sua irrogazione a quello della sua esecuzione» (cosi'
Cassazione pen., sezioni unite, 37107/15; nello stesso senso, sezione
I, numeri 26899/2012, 19361/2012, 977/2011).
Occorre chiedersi, tuttavia, se - quantomeno ai fini del giudizio
di non manifesta infondatezza che compete a questo giudice -
l'equiparazione tra sanzioni amministrative e sanzioni penali sia
imposta sul piano costituzionale.
4.1. Una prima indicazione in tal senso puo' essere tratta dalla
stessa ragione che imporrebbe la rimodulazione del giudicato secondo
le sopravvenienze sul piano costituzionale e che ne differenzia gli
effetti dalla mera successione di norme, anche abrogatrici: «siccome
i fenomeni dell'abrogazione e della dichiarazione di illegittimita'
costituzionale delle leggi vanno nettamente distinti, gli effetti
della declaratoria di incostituzionalita', a differenza di quelli
derivanti dallo ius superveniens, inficiano fin dall'origine, o, per
le disposizioni anteriori alla Costituzione, fin dalla emanazione di
questa, la disposizione impugnata (sezioni unite, n. 42858 del 29
maggio 2014, Gatto, cit., in motiv.), con la conseguenza che, mentre
l'applicazione della sopravvenuta legge penale piu' favorevole, che
attiene alla vigenza normativa, trova, di regola, un limite
invalicabile nella sentenza irrevocabile, cio' non puo' valere per la
sopravvenuta declaratoria di illegittimita' costituzionale, che
concerne il diverso fenomeno della invalidita'. La norma
costituzionalmente illegittima viene espunta dall'ordinamento proprio
perche' affetta da una invalidita' originaria. Cio' impone e
giustifica la proiezione "retroattiva", sugli effetti ancora in corso
di rapporti giuridici pregressi, gia' da essa disciplinati, della
intervenuta pronuncia di incostituzionalita', la quale certifica,
come si e' visto, la definitiva uscita dall'ordinamento giuridico di
una norma geneticamente invalida. Una norma che deve, dunque,
considerarsi tamquam non fuisset, percio' inidonea a fondare atti
giuridicamente validi, per cui tutti gli effetti pregiudizievoli
derivanti da una sentenza penale di condanna pronunciata, sia pure
parzialmente, sulla norma dichiarata incostituzionale devono essere
rimossi dall'universo giuridico, ovviamente nei limiti in cui cio'
sia possibile, non potendo essere eliminati gli effetti irreversibili
perche' gia' compiuti e del tutto consumati (sezione 6, n. 9270 del
16 febbraio 2007, Berlusconi, cit., in motiv.)» (cosi Cassazione
pen., sezioni unite, n. 42858/14).
In altre parole, secondo la giurisprudenza di legittimita', e' lo
stesso sistema di gerarchia delle fonti e la conseguente
sovra-ordinazione della normativa costituzionale rispetto a quella
primaria ad imporre che la rimozione della sanzione divenuta - anche
in parte - illegittima in conseguenza di una sentenza dichiarativa
della Corte costituzionale, qualora essa non abbia ancora esaurito i
propri effetti.
L'assenza di uno strumento idoneo a rimuovere i perduranti
effetti di una sanzione amministrativa costituzionalmente
illegittima, quindi, si pone in contrasto con lo stesso art. 136
della Costituzione, non potendosi considerare, nonostante il
giudicato, il rapporto esaurito fintanto che ne sia in corso
l'esecuzione.
Il comma 4 dell'art. 30 della legge 87/53, infatti, non introduce
un'eccezione al principio di cui all'art. 136 della Costituzione, per
il quale «la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo
alla pubblicazione della decisione» d'incostituzionalita', ma e' anzi
concreta applicazione della disposizione costituzionale, declinata in
relazione alle norme sanzionatorie, giacche' impedisce
l'ultrattivita' degli effetti della sanzione oggetto della sentenza
della Corte.
4.2. Sotto tale profilo non assume alcun rilievo la distinzione
tra sanzioni penali e sanzioni amministrative che, invece, e' posta
alla base della disciplina in questa sede censurata: non vi e'
dubbio, infatti, che la sanzione penale possa incidere su diritti
fondamentali della persona - come la liberta' personale - ma tale
caratteristica non e' conseguenza esclusiva della pena che consegua
all'accertamento di un reato.
Da un lato, infatti, anche le sanzioni formalmente qualificate
come amministrative possono incidere su diritti di rango
costituzionale, come la liberta' d'impresa (art. 41 della
Costituzione) o il diritto al lavoro (art. 35).
D'altro canto, le sanzioni penali possono incidere solo
virtualmente sulla liberta' personale (perche', di fatto, eseguite in
forma alternativa alla detenzione) ovvero coinvolgere soltanto
interessi di rango inferiore (ad esempio il patrimonio) a quello di
alcune sanzioni amministrative.
Assume, quindi, rilievo anche il principio d'uguaglianza ex art.
3 della Costituzione, vulnerato dall'impossibilita' di impedire
l'efficacia ultrattiva della sanzione dichiarata costituzionalmente
illegittima: mentre per la sanzione penale l'art. 30 della legge
87/53 consente di rimuovere, per quanto possibile, qualsiasi
discriminazione tra soggetti condannati prima della sentenza della
Corte costituzionale e quelli il cui comportamento sia ancora sub
judice, tale eventualita' non risulta percorribile per le sanzioni
amministrative.
Cio' implica che il soggetto condannato in via definitiva ad una
sanzione amministrativa debba sottostare - eventualmente anche in
modo permanente, qualora si tratti di sanzione sine die - alla
restrizione della propria liberta', senza che sia consentita la
ri-espansione del diritto indebitamente limitato dalla sanzione
fondata sulla legge dichiarata incostituzionale, a differenza di
quello non ancora condannato in via definitiva, in relazione al quale
il giudice della cognizione sara' chiamato a rimodulare la sanzione
alla luce della decisione della Corte. Ne' si potrebbe sostenere che
il passaggio in giudicato costituisca un discrimen accettabile sul
piano costituzionale: la progressiva erosione dell'intangibilita' del
giudicato in ambito penale, infatti, e' stata determinata proprio
dalla constatazione che la sua ratio di certezza nei rapporti
giuridici non puo' prevalere sui diritti costituzionali della
persona, imponendone il sacrificio anche all'indomani
dell'accertamento da parte della Corte costituzionale
dell'illegittimita' della loro compressione.
Nel caso di specie, non vi e' dubbio che il riferimento esclusivo
alle sanzioni penali contenute nell'art. 30 della legge 87/53 finisca
per imporre un discrimine - evidentemente irrazionale - tra quanti
siano stati oggetto dell'applicazione di una sanzione illegittima
prima e dopo la pubblicazione della sentenza della Corte
costituzionale.
Inoltre, l'impossibilita' di rimuovere la sanzione amministrativa
- pur costituzionalmente illegittima - finisce per comportare
un'indebita limitazione dei diritti costituzionali del ricorrente, se
non altro in relazione alla possibilita' di svolgere la professione
di autista di autocarri che svolgeva all'epoca e nel ricorso sostiene
di voler riprendere,id est la sua liberta' di iniziativa economica e
il suo diritto al lavoro (articoli 35 e 41 della Costituzione).
4.3. Inoltre, ne risulterebbero violati gli articoli 25 e 117
della Costituzione, in relazione agli articoli 6 e 7 della
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'Uomo e delle
liberta' fondamentali (CEDU). Come noto, infatti, la giurisprudenza
della Corte europea dei diritti dell'uomo ha elaborato un'autonoma
nozione di «sanzione penale», al fine di garantire l'applicazione
dello statuto previsto dalla Convenzione in «materia penale» a
prescindere dalla qualificazione fornita dal diritto interno.
In particolare, a partire dalle sentenze Engel c. Paesi Bassi del
8 giugno 1976 e Ozturk c. Germania del 21 febbraio 1984, la Corte ha
elaborato una serie di indicatori per valutare se una misura
particolare costituisca in sostanza una pena ai sensi della
Convenzione, ben al di la' dei reati e delle pene come formalmente
intesi in base al diritto interno, e richiamandosi a tutte le norme e
a tutte le misure considerate «intrinsecamente penali», perche'
aventi caratteri e finalita' propriamente afflittivi, per il loro
collegamento ad un illecito penale nonche' in ragione della gravita'
della sanzione imposta (c.d. «pene camuffate»).
Nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo e'
pacifico che la revoca o comunque la limitazione all'utilizzo o al
conseguimento della patente di guida integrino altrettante sanzioni
penali. A tal proposito e' sufficiente richiamarsi alle pronunce
Affaire Rivard c. Svizzera del 4 gennaio 2017 - nella quale la Corte
ritiene rivesta la natura di sanzione penale anche il mero ritiro
della patente, ai fini dell'applicazione del principio del ne bis in
idem - e Nillson c. Svezia, di analogo tenore.
Proprio alla luce dei parametri costantemente adottati dalla
giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo
(generalita', scopo repressivo o preventivo, afflittivita' della
sanzione), la revoca della patente non puo' che assumere, del resto,
la veste di una sanzione sostanzialmente penale, soprattutto se
ricollegata alla commissione di un reato e applicata in esito al
processo penale.
Cio' comporta che si applichino alla sanzione della revoca della
patente - evidentemente ancora piu' grave di quella della mera
sospensione - le garanzie previste dalla Convenzione, tra le quali
assume rilievo, nel caso di specie, tanto il principio di legalita'
penale quanto quello di retroattivita' ex art. 7 della Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta'
fondamentali.
Non puo' dubitarsi che tali garanzie si estendano anche alla fase
di esecuzione della pena e di determinazione della durata della
sanzione, come chiaramente espresso dalla Corte europea dei diritti
dell'uomo nella sentenza Del Rio Prada c. Spagna del 21 ottobre 2013:
in particolare, la Corte nella pronuncia appena menzionata, pur
distinguendo tra una misura che costituisce una «pena» e una misura
relativa all'«esecuzione» o all'«applicazione» della pena e
richiamando solo la prima al campo applicativo dell'art. 7, ha
affermato che il termine «inflitta» contenuto nella seconda frase
dell'art. 7 § 1 non puo' essere interpretato nel senso di escludere
dal campo di applicazione di tale disposizione tutte le misure che
possono intervenire dopo che sia stata pronunciata la sentenza.
Cosicche', a fronte della ridefinizione o della modifica della
portata della pena dovra' trovare applicazione il principio di
irretroattivita' delle pene.
Se e' vero che la Corte europea dei diritti dell'uomo non ha mai
esplicitamente riconosciuto come l'illegittimita' sopravvenuta della
norma sulla base della quale la sanzione era stata applicata
determini la violazione del principio di legalita', pur nella piu'
ampia ottica convenzionale (intesa come prevedibilita' della norma
sanzionatoria), va sottolineato come proprio le ragioni della
declaratoria di incostituzionalita' possono comportare l'assoluta
arbitrarieta' della base legale stessa.
L'art. 7 della Convenzione richiede l'esistenza di una base
legale perche' possano essere inflitte una condanna e una pena.
Queste ultime, quindi, devono essere definite dalla legge, nozione
che - nell'ottica convenzionale - ricomprende il diritto di origine
sia legislativa che giurisprudenziale e implica delle condizioni
qualitative - tra cui (soprattutto ma non solo) quelle di
accessibilita' e di prevedibilita' (Del Rio Prada c. Spagna cit., §
91 e S.W. c. Regno Unito, 22 novembre 1995, § 35) - avuto riguardo
non solo delle norme di rango legislativo e regolamentare (Kafkaris
c. Cipro, 12 febbraio 2008, §§ 145-146) ma anche della giurisprudenza
dei tribunali.
Tuttavia, i criteri di accessibilita' e prevedibilita' della
sanzione alla luce dell'intero diritto vivente (all'epoca del fatto)
non possono che costituire, sul piano logico prima che giuridico, un
posterius rispetto a qualsiasi considerazione circa la validita' e
vigenza della norma sanzionatoria.
Allorquando l'illegittimita' della norma dipenda proprio dalla
arbitrarieta' della disposizione e dalla natura discriminatoria della
stessa (id est la violazione dell'art. 3 della Costituzione) - come
nel caso di specie - tale vizio originario non puo' che affliggere la
stessa interpretazione della norma, la quale, quindi, non puo'
costituire una base legale valida a fondare l'applicazione di una
sanzione sostanzialmente penale.
Del resto, la chiara violazione - da parte dello stesso
legislatore incriminante - dei principi costituzionali non puo' che
comportare un'incertezza sul piano della validita' della norma e,
quindi, minare alla radice la base legale della disposizione.
44. Sul piano del diritto interno, poi, il principio di legalita'
dei reati e delle pene ex art. 25, secondo comma, della Costituzione
risulta vulnerato dall'impossibilita' per il giudice dell'esecuzione
di allineare il contenuto della sanzione inflitta all'intervento
della Corte costituzionale sulla norma sanzionatoria.
La portata dello stesso art. 30 della legge 87/53 - che
costituisce attuazione diretta dell'art. 25, secondo comma, della
Costituzione - non puo' che essere estesa alle sanzioni
«sostanzialmente penali», rispondendo alla medesima ratio di tutela
dei diritti del cittadino, colpito da una sanzione sulla base di una
norma poi espunta dall'ordinamento perche' non conforme a
Costituzione.
Tale tutela non puo' mutare solo in considerazione della natura
formalmente penale della sanzione, risultando ormai pacifico, come
detto, che alla distinzione nominalistica non faccia seguito
indefettibilmente - in concreto - una diversa intensita'
sanzionatoria.
5. Come noto, analoga questione e' stata gia' respinta dalla
Corte costituzionale con sentenza n. 43 del 10 gennaio 2017.
Cio' non consente, tuttavia, di considerare il dubbio di
legittimita' costituzionale manifestamente infondato, proprio in
considerazione dei mutamenti della stessa giurisprudenza
costituzionale successivi a tale pronuncia.
In primo luogo, va evidenziata la differente natura della
sanzione che assume rilievo nel caso di specie - la limitazione del
diritto all'uso della patente che si tramuta, in relazione alla
professione svolta dal condannato, in un limite alla liberta' di
iniziativa economica del S . . . - rispetto alla mera pena pecuniaria
allora considerata.
Inoltre, sul piano del mutamento della giurisprudenza
costituzionale, la stessa Corte ha escluso che, per invocare una
violazione della Convenzione - quale parametro di legittimita' ex
art. 117 della Costituzione - sia necessaria una preventiva e
puntuale decisione della Corte EDU, affermando che sarebbe «da
respingere l'idea che l'interprete non possa applicare la Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta'
fondamentali, se non con riferimento ai casi che siano gia' stati
oggetto di puntuali pronunce da parte della Corte europea dei diritti
dell'uomo» (Corte Costituzionale, sentenza n. 68/2017, § 7).
In secondo luogo, le sanzioni amministrative di tipo afflittivo
(«sostanzialmente penali» nell'ottica della Corte europea dei diritti
dell'uomo) sono state oggetto di equiparazione, sul piano
costituzionale, a quelle anche formalmente penali in relazione
all'applicazione del principio di retroattivita' della lex mitior da
parte della stessa Corte costituzionale (Sentenza n. 63/2019),
superando cosi' le precedenti decisioni di segno contrario (Sentenza
n. 193/2016).
Tale principio - come ricordato dalla citata sentenza - appare
caratterizzato da una maggior derogabilita' rispetto a quello di
legalita' in ambito penale (§ 6).
Proprio in tale pronuncia, la Corte esplicitamente evidenzia come
«l'estensione del principio di retroattivita' della lex mitior in
materia di sanzioni amministrative aventi natura e funzione
"punitiva" e', del resto, conforme alla logica sottesa alla
giurisprudenza costituzionale sviluppatasi, sulla base dell'art. 3
della Costituzione, in ordine alle sanzioni propriamente penali.
Laddove, infatti, la sanzione amministrativa abbia natura "punitiva",
di regola non vi sara' ragione per continuare ad applicare nei
confronti di costui tale sanzione, qualora il fatto sia
successivamente considerato non piu' illecito; ne' per continuare ad
applicarla in una misura considerata ormai eccessiva (e per cio'
stesso sproporzionata) rispetto al mutato apprezzamento della
gravita' dell'illecito da parte dell'ordinamento. E cio' salvo che
sussistano ragioni cogenti di tutela di controinteressi di rango
costituzionale, tali da resistere al medesimo «vaglio positivo di
ragionevolezza», al cui metro debbono essere in linea generale
valutate le deroghe al principio di retroattivita' in mitius nella
materia penale» § 6.2).
Se non vi e' ragione per (continuare ad) applicare ad un soggetto
una sanzione che il legislatore giudica ormai eccessiva, non si
comprende davvero come possa continuarsi ad applicare una sanzione
radicalmente travolta da una pronuncia di illegittimita'
costituzionale. Il discrimine non puo' certo essere costituito dal
giudicato, dovendosi dare prevalenza alla legalita' costituzionale
rispetto alle ragioni di certezza (Corte costizionale, senz. 74/1980,
secondo la quale il giudicato costituirebbe un valido limite in
relazione alla successione di leggi penali meramente modificative in
ossequio alla «esigenza di salvaguardare la certezza dei rapporti
ormai esauriti»).
Proprio il rinnovato statuto costituzionale delle sanzioni
(formalmente) amministrative (ma sostanzialmente penali) reca con se'
un possibile esito diverso della questione, imponendo di investirne
la Corte costituzionale.
P. Q. M.
Visti gli articoli 23 e seguenti della legge 11 marzo 1953, n.
87;
Dichiara d'ufficio rilevante e non manifestamente infondata, con
riferimento agli articoli 3, 25, 35, 41, 117 - in relazione agli
articoli 6 e 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei
diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali - e 136 della
Costituzione, la questione di costituzionalita' dell'art. 30, comma
IV, della legge 11 marzo 1953, n. 87, nella parte in cui la
disposizione stessa non e' applicabile alle sanzioni amministrative
che assumano natura sostanzialmente penale ai sensi della Convenzione
EDU;
Dispone la sospensione del giudizio e l'immediata trasmissione
degli atti alla Corte Costituzionale.
Manda la Cancelleria per la notifica al condannato, al suo
difensore, al pubblico ministero, al Presidente del Consiglio dei
ministri e ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.
Milano, li' 4 febbraio 2020
Il Giudice: Crepaldi
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